MASSIMO INTROVIGNE, Cristianità n. 306 (2001)
I. La “guerra contro le sette” in Francia
L’accanimento con cui da diversi anni — in particolare a partire dal 1996 — il governo e il parlamento francesi propongono e mettono in atto misure radicali nei confronti delle cosiddette “sette” è oggetto sia di numerosi studi, sia di preoccupazioni che, su scala internazionale, oppongono alla Repubblica Francese la grande maggioranza degli specialisti di nuovi movimenti religiosi, organizzazioni per la difesa dei diritti umani, e i governi di alcuni paesi che si sono dotati di specifiche istituzioni per intervenire laddove nel mondo è minacciata la libertà religiosa, primi fra tutti gli Stati Uniti d’America (1). Lo stesso Papa Giovanni Paolo II, ricevendo il 10 giugno 2000 le credenziali del nuovo ambasciatore della Repubblica Francese presso la Santa Sede, Alain Dejammet, riteneva opportuno richiamare con vigore il principio secondo cui “[…] il primo dei diritti dell’uomo è la libertà religiosa, nel senso pieno del termine” (2): “[…] una libertà che non sia ridotta alla sola sfera privata” (3) e la cui negazione o messa in dubbio “[…] può ingenerare soltanto un clima di tensione, d’intolleranza, d’opposizione e di sospetto, poco propizio alla pace sociale” (4). Come si sia articolata una vera e propria “guerra” contro le cosiddette “sette” in Francia — fino alla costituzione, nel 1998, di un organismo che porta il nome esplicito di MILS, Missione Interministeriale di Lotta contro le Sette, e all’entrata in vigore nel 2001 di una legge anti-sette dalle caratteristiche draconiane — è stato spesso descritto in termini sia fenomenologici sia sociologici. Un’obiezione frequente a questa letteratura è che essa si limita a descrivere quello che è successo negli ultimi anni in Francia — con diverse accentuazioni —, ma di rado si sofferma a spiegare perché, proprio in Francia, l’atteggiamento dei poteri pubblici nei confronti di forme religiose minoritarie o controverse si sia sviluppato in un modo profondamente diverso da quanto avviene in altri paesi occidentali. Benché non si tratti dell’unico, né nel primo, tentativo di risposta, il volume di Danièle Hervieu-Léger La Religion en miettes ou la question des sectes, “La religione in briciole o la questione delle sette” (5) costituisce il più articolato e ambizioso tentativo di fornire una risposta sociologica a questo quesito: l’autrice, ben nota sociologa delle religioni, è directeur d’études alla École des Hautes Études en Sciences Sociales presso la Sorbona. In questo senso, l’opera colma un vuoto e merita di essere letta con attenzione. Personalmente, condivido le linee di fondo dell’analisi proposta — anche se non tutti i dettagli —, mentre — come accennerò — mi resta qualche dubbio sulle soluzioni che l’eminente sociologa francese propone.
1. La struttura dell’opera
L’opera può essere logicamente divisa in quattro parti. La prima presenta la problematica socio-politica relativa alla “guerra contro le sette” intrapresa dalle istituzioni pubbliche — e da gran parte dei media — francesi, e cerca di rispondere al quesito sul perché questa situazione si sia sviluppata in Francia e non in altri paesi. La seconda ritorna sul problema della difficile definizione di “setta”, e dell’atteggiamento di alcuni attori sociali di fronte alle iniziative governative e parlamentari francesi. La terza — con ambizioni che vanno al di là della sola Francia — inquadra il problema delle cosiddette “sette” all’interno di una più ampia riflessione sulle modifiche dello scenario religioso in Occidente. La quarta si chiede che cosa di diverso, ed eventualmente di migliore, potrebbero fare in materia di “sette” i poteri pubblici francesi, ove volessero tener conto di alcune informazioni e analisi contenute sia nel volume, sia in altre opere di carattere sociologico e storico, sulla cui base le stesse autorità francesi sono state sottoposte a diversi ordini di critiche.
2. La Francia alle prese con la minaccia settaria
La prima parte — che comprende l’introduzione e il primo capitolo (6) — muove dalla constatazione di un fatto peculiare: la Francia è un paese notoriamente litigioso dal punto di vista politico e culturale, tuttavia sulla questione della “lotta alle sette” si manifesta una singolare convergenza. Le proposte legislative anti-sette sono approvate all’unanimità in parlamento, e pochissimi media si sottraggono al coro obbligatorio degli elogi. L’opinione pubblica sembra dare per scontato che le “sette” costituiscano un problema grave, che siano unanimemente pericolose e maligne, e che misure eccezionali nei loro confronti siano giustificate. Ora — nota la sociologa francese —, è sufficiente considerare, nel loro contrasto con la Francia, due paesi peraltro diversissimi fra loro — gli Stati Uniti d’America e l’Italia — per rendersi conto della singolarità della posizione francese. In tutte le sedi internazionali, gli Stati Uniti d’America sono emersi come i principali critici dell’atteggiamento francese in materia di “sette”, esplicitamente denunciato come violazione della libertà religiosa. L’Italia non è stata particolarmente attiva nel criticare la Francia a livello diplomatico; tuttavia non sembra che per gl’italiani “[…] il fatto settario (che non è meno — né più — presente rispetto alla Francia) formi l’oggetto di una fissazione particolare, né dei poteri pubblici né dell’opinione […]. Le autorità italiane non fanno della lotta contro questi gruppi un obiettivo formulato come tale” (7). Un esempio clamoroso è quello dei Testimoni di Geova, denunciati come setta pericolosa in Francia e riconosciuti a vari livelli dallo Stato in Italia (8). La spiegazione più corrente di queste differenze è che l’opinione pubblica francese è stata turbata da suicidi e da omicidi collettivi collegati a “sette”, come quelli dell’Ordine del Tempio Solare, in cui sono stati coinvolti numerosi cittadini francesi, mentre non vi sono stati coinvolti né statunitensi né italiani. Questa spiegazione, nota l’Hervieu-Léger, è certamente insufficiente, dal momento che tragedie come quella dell’Ordine del Tempio Solare vengono immediatamente a conoscenza dell’opinione pubblica di tutti i paesi tramite il sistema globale dei media, e comunque cittadini degli Stati Uniti d’America sono stati coinvolti in vicende non meno tragiche, da quelle del Tempio del Popolo, in Guyana nel 1978, al suicidio collettivo del movimento dei dischi volanti Heaven’s Gate nel 1997 (9). Le ragioni devono dunque essere di ordine diverso, e il testo ne identifica in particolare tre, fra loro connesse.
a. Il modello confessionale del pluralismo religioso
In primo luogo, benché forme di anticlericalismo e di laicismo non siano assenti neppure altrove, non v’è dubbio che l’avversione alla religione nell’area francofona in genere, e in Francia in particolare, assuma profili particolari sia dal punto di vista qualitativo sia quantitativo. La prospettiva francese della laïcité è accompagnata, da oltre due secoli, da quello che l’Hervieu-Léger — citando in parte Pierre Bouretz — chiama “[…] un desiderio più o meno chiaramente espresso “di strappare le coscienze all’influenza di rappresentazioni giudicate radicalmente contraddittorie con la ragione e l’autonomia”: un desiderio che nutre una diffidenza viscerale (per quanto raramente esplicitata) nei confronti della credenza religiosa come tale” (10).
b. Un modello pensato per la Chiesa cattolica
In secondo luogo, questo laicismo aggressivo — che affonda le sue radici nell’Illuminismo e nella Rivoluzione francese — non è rimasto un puro atteggiamento culturale, ma ha informato le istituzioni. La legislazione francese in tema di religione, che risale alla Rivoluzione del 1789 ed è nelle sue grandi linee tuttora in vigore, ha una specifica intentio di “[…] lotta contro il monopolio simbolico e le influenze politiche della Chiesa romana” (11). Da questo punto di vista, come molti giuristi hanno del resto notato, non vi è nulla di più illusorio del comune riferimento alla separazione fra Chiesa e Stato nell’ordinamento giuridico francese e in quello degli Stati Uniti d’America (12). L’espressione usata, “Separazione” (13), può essere comune — nota la sociologa francese — “ma è la nozione stessa di separazione che riveste, al di là dell’Atlantico, un significato molto diverso da quello che gli è proprio in Francia. La separazione alla francese fu elaborata per imporre alla Chiesa cattolica di limitarsi a perseguire obiettivi strettamente spirituali, se proprio non la si poteva costringere a limitare la sua attività alle sacrestie. È stata pensata anzitutto per proteggere lo Stato contro l’espansione possibile della Chiesa. Negli Stati Uniti, invece, il principio di separazione intende garantire la libertà delle comunità religiose contro qualunque invadenza dello Stato” (14). In Francia, la separazione protegge lo Stato dalla religione, mentre negli Stati Uniti d’America protegge la religione dallo Stato. La traduzione del principio in norme e leggi — che l’Hervieu-Léger illustra in pagine di notevole acume storico — è frutto in Francia di un processo durato oltre cento anni. Per controllare, anzitutto, la Chiesa cattolica l’ordinamento rivoluzionario, poi napoleonico e infine dei governi anticlericali del primo decennio del secolo XX ha creato una sorta di “stampo” in cui è stato inserito e rimodellato, volente o nolente, il sistema cattolico delle diocesi e delle parrocchie, assicurando allo Stato la possibilità di controllarlo rigorosamente e di limitare al massimo la sua influenza sulla vita culturale e politica. La Chiesa, dopo avere cercato di ribellarsi a questo sistema, ha finalmente preso atto fra la fine del secolo XIX e gl’inizi del XX che il modello della laïcité non era effimero, ma destinato a durare, e vi si è adattata, dapprima con reticenze e riserve mentali, quindi — particolarmente nella seconda metà del secolo XX — con una crescente adesione, alimentata anche da teologie che sottolineavano presunti aspetti positivi non solo della secolarizzazione, ma dello stesso secolarismo (15). L’accettazione di una sorta di partnership fra Chiesa cattolica e Stato laicista garantiva alla Chiesa un’area, seppure limitata, di autonomia, e rassicurava lo Stato, che infatti demandava alla Chiesa compiti di “polizia” (16) nei confronti di movimenti sovversivi o comunque ostili allo Stato che si fossero manifestati al suo interno, e che la Chiesa implicitamente si impegnava a reprimere. “Nei termini della separazione alla francese, è necessario — perché la regolazione statale del religioso si eserciti esclusivamente ad extra — che la regolazione religiosa ad intra sia chiaramente affidata ad autorità istituzionali non contestate” (17).
c. L’estensione del modello ad altre realtà religiose
Questo modello era stato pensato per la Chiesa cattolica, con le sue autorità diocesane e parrocchiali. In modo più o meno facile, già Napoleone I (1769-1821) aveva in qualche modo ricostruito il protestantesimo francese secondo un modello ispirato a quello cattolico; lo stesso imperatore — con maggiori difficoltà e non senza creatività — aveva creato nel 1808 il Concistoro Nazionale Ebraico, sorta di “Chiesa ebraica”, istituzione unicamente francese e costruita ancora una volta sul modello, per quanto applicabile, delle diocesi e delle parrocchie cattoliche. Oggi — ma con ostacoli pressoché insormontabili — non manca chi tenta di creare, analogamente, una sorta di “Chiesa islamica”: “Quando successivi ministri dell’Interno mettono in opera oggi tutti i loro sforzi per fare emergere un’organizzazione dell’islam (“sul modello, suggerisce Jean-Pierre Chevènement, della Federazione protestante di Francia”) e invitano i musulmani di Francia a dotarsi di istanze rappresentative, prolungano (negando tutti, in modo significativo, di “prendersi per Napoleone”!) lo stesso disegno. Si tratterebbe sempre di stabilizzare un islam francese acclimatato alla regola del gioco repubblicano, la cui espressione pubblica potrebbe svilupparsi legittimamente (e per quanto possibile esclusivamente) nello spazio ben determinato dei suoi luoghi di culto” (18). In sintesi, “[…] il riconoscimento francese del pluralismo religioso ha questo di particolare: che si ferma esattamente alle frontiere delle religioni la cui organizzazione confessionale accredita un’adesione repubblicana” (19). In teoria, la Repubblica non riconosce alcuna religione; in pratica le cose vanno diversamente, nel senso che la Francia tollera e in qualche modo persino favorisce solo quelle — poche — religioni disposte a corrispondere a un modello originariamente pensato per circoscrivere la sfera d’influenza della Chiesa cattolica entro limiti determinati, e in seguito perfezionato demandando alle confessioni religiose così indirettamente riconosciute compiti di polizia nei confronti delle realtà e dei movimenti sorti al loro interno. Di qui un’ostilità, tipicamente francese e “[…] che sembra sorprendentemente restrittiva a molti dei nostri vicini” (20), nei confronti delle minoranze religiose che rischiano di mettere in crisi il sistema in quanto non si conformano al modello.
d. Il “nemico” istituzionalizzato
In terzo luogo, il sistema francese della laïcité — fondato come s’è visto sulla fictio del non riconoscimento di alcuna religione, e sulla realtà di una partnership fra lo Stato e le religioni disposte a forme di ralliement alla Repubblica — ha potuto funzionare soltanto “[…] fino a quanto il monopolio cattolico sulla sfera religiosa era contestato solo da minoranze religiose storiche, che per di più le persecuzioni subite su istigazione della confessione dominante sotto l’Ancien Régime aureolavano agli occhi della Repubblica di una “legittimità di resistenza” particolare” (21). Secondo l’Hervieu-Léger, il paragone con l’Italia è qui illuminante. In linea di principio, la tolleranza e i vantaggi di cui beneficiano le minoranze religiose in un paese di tradizione storica e di maggioranza — relativa — cattolica come l’Italia è “sorprendente” (22) per i francesi. La sociologa si chiede però se “[…] la solidità di questa cultura cattolica [in Italia] non sia precisamente lo zoccolo su cui questa tolleranza può stabilirsi” (23); e se quanto succede in Francia non sia una reazione di “ansietà” (24) di fronte “[…] allo svuotamento culturale di cui è oggi oggetto la principale istituzione religiosa del paese: un arretramento di cui si presagisce che apre — ben al di là del problema delle sette — un’epoca di concorrenza aggravata sul mercato ormai liberalizzato dei beni simbolici” (25). Riassumendo: l’estremo anticlericalismo della tradizione illuminista e rivoluzionaria francese si è tradotto nel sistema istituzionale della laïcité, che — accettato più o meno obtorto collo dalle Chiese e confessioni religiose maggioritarie — ha potuto funzionare fino a quando queste ultime — e in primo luogo la Chiesa cattolica — hanno effettivamente gestito la maggioranza del campo religioso. Nel momento in cui questa gestione non è più garantita (26), il modello, di conseguenza, entra in crisi generando reazioni ansiose, che trovano insieme un obiettivo e un capro espiatorio nelle “sette”.
II. Per una definizione del termine “setta”
Alla difficoltà di definire il termine “setta” è consacrata la seconda parte dell’opera dell’Hervieu-Léger — costituita dal secondo capitolo (27) —, non priva d’interesse, ma per molti versi meno originale, dal momento che il carattere estremamente incerto e soggettivo di qualunque definizione contemporanea della parola “setta”, da cui si pretenda di derivare conseguenze giuridiche, è al cuore delle critiche che alla posizione francese sono state rivolte dagli specialisti di nuovi movimenti religiosi, siano essi storici o sociologi (28). In assenza di una definizione condivisa, gli elenchi delle “sette” — nelle varie liste predisposte da organi del potere legislativo ovvero esecutivo francese — si riducono a una raccolta di nominativi segnalati dalle associazioni anti-sette private, che utilizzano elementi forniti da ex membri critici nei confronti dei movimenti che hanno lasciato, “materiali che mancano di distanza per definizione, difficilmente oggettivabili e che contribuiscono, per loro stessa natura, alla drammatizzazione estrema della seduzione settaria” (29). Sulla base di queste testimonianze — secondo un procedimento del resto noto — la controversa nozione di manipolazione mentale o lavaggio del cervello diventa il presunto elemento che unifica fra loro “sette” diversissime (30). “Per un ex adepto che prova la forte sensazione di aver subito un abuso, il solo modo di ricostruire ai propri occhi e agli occhi degli altri la dignità del suo percorso fallimentare è insistere sul carattere irresistibile della pressione a cui sarebbe stato sottoposto. Per le associazioni che raccolgono la sua narrativa, l’insistenza sulle manovre capziose permette di spostare il significato della testimonianza, di trasformare un racconto individuale (che come tale appartiene soltanto alla storia propria del narratore) in un fatto esemplare suscettibile d’illuminare coloro che potrebbero essere sedotti dalle proposte perniciose del gruppo in questione. Di qui il ruolo centrale accordato dalle associazioni anti-sette alla questione della “manipolazione”, che permette di costituire un registro di legittimità all’interno del quale queste testimonianze si trasformano in informazioni valide destinate all’opinione e ai poteri pubblici” (31). La sociologa francese reitera le obiezioni più volte proposte dagli studiosi, ma anche dalle Chiese e comunità maggioritarie, nei confronti di questo modello: “Nulla è più difficile, infatti, che misurare il grado di autonomia di qualunque scelta, e ponderare il ruolo degli elementi esterni che hanno potuto pesare su una decisione che di per sé si presenta come pienamente consapevole. La definizione di “tecniche suscettibili di alterare il giudizio” non mancherà di sollevare autentiche tempeste, ben al di là delle mura dei tribunali. “Dov’è il limite — s’interroga il presidente della Federazione protestante di Francia — fra un discorso convinto, un sermone focoso e la manipolazione mentale?”. “Chi stabilirà la differenza fra direzione spirituale e manipolazione mentale?”, si domanda dal canto suo Jean Vernette, delegato dell’episcopato cattolico per la questione delle sette, il quale dichiara di temere che “la pur necessaria lotta contro le sette possa diventare, nello spirito di alcuni, la rampa di lancio della lotta antireligiosa”. Ogni esercizio spirituale almeno un po’ “strutturato”, ogni ritiro che implichi l’accettazione di una clausura, ogni forma di mobilitazione emozionale intensiva in una riunione di massa o in un piccolo gruppo di devozione non potranno essere sospettati di manipolazione mentale?” (32). Se queste osservazioni ne riprendono molte altre di studiosi, che criticano in generale il modello proposto dai movimenti anti-sette — e accolto dalle istituzioni francesi —, più originale — e riferita specificamente ad avvenimenti recenti in Francia — è la denuncia di una contraddizione in cui la lotta anti-sette governativa rimane impigliata. Da una parte, infatti, si elencano caratteristiche delle “sette” che sono in verità comuni a tutte le religioni: “Le acrobazie intellettuali che tendono a dissociare la questione delle sette da quella della religione, o a fare delle prime solo la faccia maledetta, deviata o fallace della seconda, sono inutili” (33). Ovvero, in alternativa e per evitare lo scontro con le religioni maggioritarie, si parla — come ha cominciato a fare la MILS nel 2000 — di una lotta contro tutti i “gruppi totalitari, religiosi o non religiosi” (34): ma in questo caso non si capisce perché il governo si sia dotato di una specifica Missione Interministeriale di Lotta contro le Sette e non, invece, di analoghi organismi per la lotta contro forme di “totalitarismo”, o di sostegno ai totalitarismi, in campo — per esempio — politico, per non parlare della possibile applicazione dell’aggettivo “totalitario” ad aspetti e a tendenze di religioni accuratamente escluse dalla lotta anti-sette, prima fra tutte l’islam.
L’atteggiamento della Chiesa cattolica
Degna di nota è anche l’analisi che la sociologa francese propone, in questa parte dell’opera, dell’atteggiamento della Chiesa cattolica francese a proposito della lotta anti-sette. L’atteggiamento maggioritario, rappresentato dalla Conferenza episcopale e dal suo già citato delegato per le questioni delle sette, monsignor Vernette, è improntato a un accostamento “moderato e relativamente sfumato” (35), che diffida delle possibili derive laiciste della lotta anti-sette governativa. Ma secondo l’Hervieu-Léger la questione delle “sette” fa sorgere “divergenze strategiche […] in seno alla Chiesa cattolica” (36), dove si manifesta pure un opposto “[…] punto di vista repressivo che mira a una difesa diretta del monopolio ecclesiastico” (37) tramite la partecipazione attiva di sacerdoti all’associazionismo anti-sette, di cui è esempio don Jacques Trouslard (38). Il dissenso è innegabile, ma a mio avviso le questioni sono più complesse di quanto non ritenga la sociologa francese. Come ho cercato di spiegare (39), per personaggi come don Trouslard non si tratta semplicemente di difendere un —presunto — monopolio cattolico, quanto piuttosto di adesione ideologica ad alcuni presupposti dottrinali delle campagne anti-sette. Inoltre, se la Conferenza episcopale e monsignor Vernette si preoccupano dell’evidente tentativo delle associazioni anti-sette di denunciare come “sette” realtà cattoliche riconosciute dalla Chiesa, don Trouslard e altri utilizzano precisamente le campagne anti-sette come strumenti per mettere in difficoltà realtà del mondo cattolico a loro sgradite per motivi ideologici, fra cui le comunità carismatiche e l’Opus Dei, da anni un bersaglio prioritario dello stesso don Trouslard (40).
III. Perché la “nuova religiosità”
1. Il quadro di riferimento
Nella terza parte dell’opera — costituita dai capitoli tre, quattro e cinque (41) —, dove formula considerazione che vanno al di là dello specifico caso francese, l’Hervieu-Léger s’interroga sul perché nuove forme di religiosità si vadano diffondendo in Occidente, in paesi di antica tradizione cristiana. Gl’interlocutori della sociologa francese sono la teoria della rational choice (42), con cui è entrata gradualmente in dialogo nelle sue ultime opere (43); l’idea secondo cui la vera religione di maggioranza degli occidentali sarebbe il believing without belonging, il “credere senza appartenere”, proposta dalla sociologa inglese Grace Davie (44); e le analisi della nuova religiosità come religione postmoderna proposte, fra gli altri, da chi scrive (45). Il ragionamento è assai articolato: merita di essere letto per intero; presuppone, per essere compiutamente inteso, la conoscenza di altre opere della stessa sociologa; e non è facile da riassumere. Semplificando, una prima caratteristica importante della mutazione recente del campo religioso è costituita, secondo l’Hervieu-Léger, dalla ricerca di benefici materiali o immediati in termini di salute — particolarmente guarigione —, felicità e benessere, e non più — comunque non principalmente — di benefici che ci si aspetta di ottenere soltanto dopo la fine della vita, nell’aldilà. La nozione di “benefici materiali” è stata studiata particolarmente con riferimento a nuove religioni giapponesi (46), ma — secondo la sociologa della Sorbona — va al di là del Giappone e comprende pure numerose forme di domanda spirituale che si esprimono nel mondo pentecostale e carismatico cristiano. Questa “spiritualità dell’efficacia” (47) s’inserisce in un contesto moderno dove il successo è considerato un dovere, e la mancanza di successo materiale il segno di un fallimento antropologicamente inaccettabile. Questa domanda di benefici materiali è rivolta a figure religiose — sacerdote, pastore, guru o maestro — così come a psicoterapeuti di tutti i tipi, fornitori di corsi e di seminari alle industrie, che assicurano il successo e l’incremento della produttività, e così via. A differenza di quanto avveniva in passato, i consumatori operano su un “[…] mercato simbolico aperto, dove sono pronti a utilizzare i mezzi di pagamento ordinari (cioè monetari)” (48). Nonostante lo scandalo in Francia quando certi movimenti, in genere di origine statunitense, offrono servizi che definiscono spirituali o religiosi sulla base di un tariffario ben preciso, “[…] i consumatori di questi beni considerano invece che il prezzo da pagare costituisce, in questo campo come in tutti gli altri, una certa garanzia della qualità del prodotto ottenuto: i servizi gratuiti sono, nel mondo del mercato, facilmente svalutati” (49). Oggi i sacerdoti cattolici e i pastori protestanti parlano con reticenza di “onorari” per messe, matrimoni e funerali e “[…] percepiscono la domanda “quanto costa?” come un’umiliazione” (50); ma corrono un rischio, in quanto “la svalutazione degl’interventi richiesti al clero non è certo estranea al loro carattere gratuito” (51) in un’economia del religioso sempre più fondata sulla domanda, sull’offerta, e sul pagamento di un preciso corrispettivo. Chiaramente, il consumatore che ragiona in questi termini non si sente particolarmente legato al suo fornitore di servizi religiosi. Alcuni esempi studiati dall’Hervieu-Léger sono particolarmente indicativi e riguardano, per esempio, l’incomprensione, che sembra paradossalmente sincera, di molti non credenti o non praticanti che si rivolgono alla Chiesa cattolica per un battesimo o un matrimonio, e non capiscono perché — ben disposti a pagare per questo bene simbolico — debbano anche sottoporsi a un corso di preparazione. Per contro, nello studio si segnala la nascita, in Germania e in Francia, di cooperative, spesso gestite da ex preti, che offrono ai loro clienti, sulla base di un tariffario, matrimoni, battesimi e funerali del tutto simili a quelli cattolici, ma che richiedono il solo corrispettivo in denaro, senza alcuna forma di preparazione o di adesione dottrinale.
2. Il “nuovo regime della verità”
Questi esempi permettono all’autrice di ricollegarsi all’ampia letteratura sul “credere senza appartenere”, sul bricolage religioso e su quello che chiama “nuovo regime della verità” (52). Per coloro, maggioritari in tutta l’Europa occidentale, che credono senza appartenere, è del tutto normale non solo affermare che “una religione vale l’altra” — affermazione che registra un consenso maggioritario nell’Europa francofona (53) —, ma anche costruirsi ciascuno una religione personale sulla base di elementi o brandelli che derivano da una grande pluralità di fonti. Il discorso sul believing without belonging non è, naturalmente, nuovo; un’osservazione interessante e originale riguarda però la moda del buddhismo in Francia, e il modo alquanto singolare in cui questa moda è vissuta. Commentando inchieste di Frédéric Lenoir (54), l’Hervieu-Léger osserva che molti che passano o sono passati dal buddhismo si dicono nello stesso tempo cattolici. In questo caso, il rifiuto di un cattolicesimo percepito come “obbligatorio e imposto” (55) sembra, per alcune persone, aver bisogno di un passaggio o di una mediazione buddhista per trasformarsi in “appropriazione personale” (56) del cattolicesimo, cui si ritorna però all’insegna del bricolage, assumendone soltanto gli elementi preferiti e mescolandoli con altri di origine buddhista, primo fra i quali la reincarnazione.
3. Postmodernità o modernità allo stato puro?
Rispetto a gran parte della letteratura in tema di consumismo religioso e di believing without belonging, la sociologa francese assume due posizioni piuttosto controcorrente. La prima consiste nel negare che si tratti in proposito di una religione o di un sacro postmoderno, dal momento che la ricerca di benefici materiali è cominciata almeno nel 1800 con movimenti come la Christian Science, il New Thought e l’antoinismo, e che l’individualismo religioso è ancor più antico. Si tratterebbe piuttosto di una forma quasi pura, e priva di residui premoderni, della modernità. Chi scrive è persuaso che la categoria del postmoderno sia pertinente, con riferimento non alla nascita ma alla socializzazione di atteggiamenti e fenomeni che avevano certo origini più antiche: si tratta, peraltro, di questioni e preferenze puramente terminologiche, dal momento che quanto alcuni definiscono come “postmoderno” può essere riformulato da altri come “tardo-moderno”, o ricorrendo ancora ad altri termini, senza che la sostanza muti. Più interessante, e meritevole di riflessione, è l’osservazione secondo cui — contrariamente a quanto potrebbe sembrare e molti pensano — la frammentazione del campo religioso in una miriade di religioni personali non sarebbe un fenomeno duraturo, e il believing without belonging non potrebbe durare troppo a lungo. Certo, la sociologa della Sorbona non prevede un ritorno di fiamma della religione istituzionale; pensa piuttosto a nuove forme di belonging diverse da quelle precedenti. Osserva, anzitutto, che l’estrema differenziazione delle religioni private di milioni di consumatori individuali è in gran parte un’illusione ottica: come sanno gli economisti, solo apparentemente l’economia di mercato offre opzioni infinite. Sul lungo periodo, i consumatori in qualunque mercato apparentemente del tutto liberalizzato finiscono per comportarsi in modo simile. “La liberalizzazione del mercato dei beni simbolici, sul quale i grandi operatori istituzionali non sono ormai più i soli padroni del gioco, induce anche, paradossalmente, a una tendenza all’omogeneizzazione di questi piccoli sistemi di credenze” (57). Questo paradosso ne genera un altro: “il paradosso della “ricomunitarizzazione”” (58). Comprendendo che la loro varietà infinita di sistemi personali di credenze è più illusoria che reale, i credenti without belonging — tanto più che il credere semplicemente evapora se non lo si dice e lo si comunica a qualcuno — vanno alla ricerca di nuove forme associative. Pure affermando di non voler affatto proporre l’ennesima tipologia delle religioni, o dei nuovi movimenti religiosi, l’Hervieu-Léger distingue fra tre nuove formazioni sociali, che derivano da tre livelli di progressivo maggior coinvolgimento nella nuova religiosità non istituzionale: il semplice consumo di beni simbolici che promettono l’accesso a benefici materiali — “spiritualità del consumo” (59) —; il desiderio di un training che metta in condizione di procurarsi da soli tali benefici — “spiritualità dell’allenamento (nel senso sportivo del termine)” (60) —; infine, non manca chi finisce per essere così coinvolto nel consumo e nell’allenamento da farne l’asse intorno a cui ruota tutta la sua vita: “nuovo stato di vita” (61). A questi tre livelli d’impegno nella nuova religiosità corrispondono rispettivamente: semplici “gruppi di consumatori” (62) — per esempio, frequentatori di una scuola di yoga, ma anche di certe megachurches protestanti americane che funzionano piuttosto come centri di servizio —; “gruppi di praticanti” (63) — un esempio sarebbe, almeno per come è vissuta da un certo numero di fedeli, la Soka Gakkai —; e, infine, “gruppi utopici militanti” (64). La sociologa francese precisa che, a suo avviso, questi gruppi esistono anche all’interno delle Chiese e comunità maggioritarie; l’Opus Dei sarebbe per esempio un “gruppo utopico militante” (65), distinto dal semplice “gruppo di virtuosi” (66) nel senso classico della sociologia delle religioni; il secondo si contenta di dare un esempio, il primo vuole trasformare il mondo (67). Le “derive”, sottolineate dalle campagne anti-sette — che per l’Hervieu-Léger sono certamente reali, come mostrano i suicidi e gli omicidi collettivi —, si trovano più spesso nei gruppi del terzo tipo, a causa della loro intensità, ma violazioni delle leggi comuni sono possibili anche nei primi e nei secondi. La sociologa francese insiste sulle cause interne degli esiti tragici di certe forme di utopia militante; senza negare la loro importanza, si potrebbe osservare che la tragedia nasce, nella maggior parte dei casi, da un’interazione fra cause interne e cause esterne: l’atteggiamento della società e delle autorità nei confronti di un gruppo utopico militante può contribuire alla violenza e in certi casi perfino scatenarla (68).
IV. Che fare?
1. Le proposte di Danièle Hervieu-Léger
La quarta parte — costituita dal sesto capitolo, dalla conclusione e da un’appendice (69), seguita da una bibliografia selezionata (70) — torna, da considerazioni generali, al caso specifico della Francia e si chiede che cosa possano fare i poteri pubblici, in un campo dove il modo in cui si sono finora mossi ha suscitato critiche così numerose. La sociologa parigina pensa anzitutto che “l’intervento regolatore dello stato in materia di religione è necessario e legittimo” (71), conclusione proposta non “sul piano astratto dei princìpi” (72) — dove al sociologo non spetterebbe intervenire — ma su quello concreto della situazione del suo paese, dove la scelta statunitense che consiste nel non regolare il mercato religioso e “[…] lasciare ai tribunali il compito d’intervenire, “in corsa” e caso per caso, sui problemi che nascono dagli abusi della libertà religiosa, che pure presenta senza dubbio vantaggi sul piano della comodità pratica e del pragmatismo, s’iscrive difficilmente nella tradizione politica francese” (73). Questo non significa che l’Hervieu-Léger sia d’accordo con le attuali modalità d’intervento dello Stato francese in campo religioso. Al contrario, ritiene che i recenti interventi non siano stati preceduti da una riflessione sul nuovo scenario religioso così come ha cercato di delinearlo nel suo studio. Talora, si tratta di una reazione testarda e ideologica nei confronti del semplice fatto che la religione non è sparita, come qualcuno s’attendeva. “Vi è, nella furia “antisette” manifestata da certe correnti laiciste, qualche cosa che assomiglia a una deplorazione furiosa di questo fatto innegabile: le società moderne, che pure si potrebbero legittimamente definire “uscite dalla religione”, restano tuttavia, forse perché sono percorse strutturalmente dalle incertezze associate al cambiamento, società dove le credenze proliferano” (74). Conciliare la tradizione francese d’intervento dello Stato in materia di religione e i nuovi scenari religiosi non è facile. Si può per esempio comprendere — scrive l’Hervieu-Léger — che lo Stato intenda proteggere — secondo la tradizione francese della laïcité, non condivisa in altri paesi, che fa prevalere la libertà di pensiero sulla libertà religiosa — i singoli nei confronti dei gruppi stessi di cui fanno parte in casi di maltrattamenti — particolarmente quando ne sono oggetto bambini — e di forme di sfruttamento economico. Lo Stato — ed è qui il cuore del problema — non può però misconoscere “[…] il diritto degli individui a condurre, in modo cosciente e volontariamente scelto, una vita conforme alla loro scelta religiosa, anche se questa si allontana dai “criteri di normalità” sociali che la società si è voluta dare” (75). “Lo Stato […] non può puramente e semplicemente sposare le evidenze socialmente condivise sulla definizione di come dovrebbe essere una vita religiosa convenientemente moderata. Non può, comunque, gettare il sospetto su ogni forma di virtuosità religiosa che vada al di là dei canoni di un conformismo delle credenze e delle pratiche di cui si è dotata una società che tende a svalutare, in nome dei valori del successo, del benessere e dell’indipendenza individuale, tutte le forme di vita riferite a un “senso unitario” diverso. In una società libera, il diritto alla radicalità religiosa deve essere difeso con la stessa fermezza del diritto di cambiare religione o di non professarne nessuna. Un individuo deve poter scegliere liberamente di vivere povero, casto e obbediente, di scegliersi un maestro spirituale o di ritirarsi in clausura per la maggior gloria di Dio, senza correre il rischio di essere messo sotto tutela per debolezza mentale o inadattabilità sociale. Ci sono delle volontà (senz’altro sincere) di proteggere le persone che si avvicinano molto alla proposta di istituire una polizia delle scelte e degli impegni personali. Una società democratica che afferma in linea di principio la libertà di credenza e la libertà religiosa deve anche proteggere il diritto di ciascuno a organizzarsi la vita in funzione di questa credenza e di questa religione” (76).
2. La peculiarità francese nel quadro internazionale
Qualcuno potrebbe chiedersi se non vi sia una certa contraddizione fra questa chiara difesa della libertà religiosa nei termini in cui è garantita da convenzioni internazionali che la Francia ha sottoscritto e l’insistenza con cui la sociologa della Sorbona ritorna sull’impossibilità per la Francia di rinunciare alla sua peculiarità nazionale della laïcité. È un tema affrontato esplicitamente nell’opera, laddove si fa appello a soluzioni capaci di “combinare la preservazione della singolarità nazionale e la realtà della globalizzazione del religioso” (77). In un modo che la sociologa giudica ambiguo, le autorità francesi proclamano la loro convinzione di trovarsi all’avanguardia nella lotta contro le sette — sarebbero semmai gli altri paesi a essere, sul punto, arretrati — e celebrano vittorie simboliche come quella relativa all’esclusione di riferimenti alla religione dal testo della Carta europea dei diritti fondamentali adottato nel settembre del 2000. La materia della religione è così delicata che si riuscirà probabilmente a tutelare le peculiarità nazionali — fra cui quella francese — all’interno di un mondo globalizzato e della stessa Unione Europea ancora per molto tempo; a lungo termine, tuttavia, la Francia dovrà in qualche modo adattarsi al contesto internazionale, senza pretendere ingenuamente che sia quest’ultimo ad accogliere semplicemente i princìpi della laïcité.
3. La Francia e il modello italiano
Infine — esplicitando quello che è finora rimasto implicito, nascosto dietro la fictio della separazione assoluta fra Stato e religioni — la Francia, accostandosi al modello italiano, potrebbe distinguere fra denominazioni e movimenti che godono della semplice libertà religiosa garantita dalle convenzioni internazionali, e famiglie spirituali che per il loro contributo storico alla collettività entrano in rapporti di speciale collaborazione con lo Stato: la sociologa ricorda l’esempio della missione di mediazione in Nuova Caledonia, affidata nel 1988 a rappresentanti di quattro “grandi famiglie spirituali” (78) francesi riconosciute così dallo Stato come particolarmente rilevanti, la Chiesa cattolica, la Federazione protestante, la Comunità ebraica e il Grande Oriente massonico (79). In concreto, l’Hervieu-Léger si chiede — senza nascondersi le difficoltà pratiche e politiche che militano contro queste sue proposte — se non sia il caso di abrogare l’attuale distinzione fra associazioni cultuali regolate dalla legge francese del 1905 e semplici associazioni costituite sulla base della legge del 1901 — unificando i due modelli in quest’ultimo —, o di attribuire a una nuova istituzione che potrebbe essere chiamata “Alto Consiglio della Laicità” alcune delle funzioni in materia di riconoscimento dello status di religione oggi demandate al Consiglio di Stato.
4. Il caso Scientology
L’opera si conclude con un’appendice relativa a polemiche originate dalla presenza di sociologi e di altri studiosi come testimoni o periti in occasione di processi che hanno interessato, fra l’altro, la Chiesa di Scientology in Francia (80). La studiosa francese ritiene che nel sistema giudiziario del suo paese — molto diverso, per esempio, da quello statunitense — l’ambiguità collegata alla posizione di testimone dovrebbe in linea di principio sconsigliare ai sociologi di accettare inviti loro rivolti in questo senso, anche se talora “le esigenze della responsabilità morale di cittadino potrebbero — ma caso per caso — condurre a fare la scelta contraria. Non milito per l’incoerenza: ma riconosco che in certe circostanze l’imperativo di giustizia può prevalere, al prezzo dell’ambiguità, sulla stessa esigenza di chiarezza” (81). In tema di Scientology, fra l’altro, merita in questa occasione un cenno a un errore materiale in cui è incorsa la studiosa francese, la quale afferma che la Chiesa di Scientology si sarebbe vista rifiutare qualunque forma di esenzione fiscale in Italia (82). In realtà non è così. Il riferimento implicito è a una sentenza della Corte di Cassazione del 16-12-1999/23-2-2000 (83), che ritiene di natura non religiosa i servizi delle comunità di ricupero per tossicodipendenti Narconon, come tali esclusi dai benefici fiscali concessi alla Chiesa di Scientology per le sue attività di natura specificamente religiosa, benefici che non sono rimessi in questione. Formulo questa precisazione non per il gusto di segnalare un errore nel testo dell’Hervieu-Léger, ma perché l’interpretazione della sentenza su Narconon, a cui sembra fare riferimento, è quella diffusa in Francia da ambienti anti-sette e ripresa dalla MILS, il che mostra come la macchina propagandistica anti-sette ufficiale riesca a influenzare in qualche modo perfino gli studiosi.
5. “Sette assolute” e carenza d’informazione
Sul piano della situazione francese, l’Hervieu-Léger considera promettente la distinzione da ultimo stabilita dalla MILS fra “sette assolute”, irrimediabilmente antidemocratiche e maligne, e “sette” diverse che non andrebbero messe sullo stesso piano delle prime (84). Concentrare l’offensiva dello Stato nei confronti delle sole “sette assolute” sembra all’autrice in qualche modo ragionevole. Peraltro, la sociologa francese mette in luce, fra gli aspetti più gravi del problema, il fatto che le autorità del suo paese preposte alla lotta anti-sette traggano spesso conclusioni da informazioni che non derivano da nessuna “indagine seria” (85): questa, fa notare, non è solo un’opinione critica “dei giuristi e dei sociologi” (86), ma risulta da una sentenza del Tribunale di Parigi, che ha condannato il presidente della — seconda — commissione parlamentare d’indagine sulle sette per diffamazione nei confronti della Società Antroposofica (87). Si può chiedere all’Hervieu-Léger chi garantisce che le conclusioni cui si è ritenuto di pervenire anche in materia di certe “sette assolute” non derivino, a loro volta, dalla mancanza di un’“indagine seria” anche a proposito di questi gruppi. Più in generale, l’analisi spesso brillante del perché in Francia la “questione delle sette” si ponga in modo diverso rispetto a molti altri paesi non sfocia — l’autrice stessa se ne rende conto (88) — in proposte immediatamente o facilmente praticabili sul piano politico; l’attesa di un’influenza che potrà essere esercitata sulla Francia dal contesto internazionale apre scenari interessanti ma di lungo periodo. È peraltro probabile che soluzioni ad horas semplicemente non esistano, se si eccettua forse la possibilità — accennata nel testo, ma relativa a un solo gruppo — che i Testimoni di Geova, dopo aver vinto un certo numero di cause e raggiunto dimensioni importanti, possano essere cooptati nel sistema esistente ove accettino di riorganizzarsi sulla base del modello originariamente pensato per la Chiesa cattolica; comunque, ogni contributo alla comprensione di che cosa e perché succede in Francia rimane, quindi, benvenuto.
6. Chiesa cattolica, “sette” e relativismo
Quanto alle religioni maggioritarie, e in particolare alla Chiesa cattolica, discutendo — implicitamente — tesi proposte — fra gli altri — da chi scrive, secondo cui “per i cattolici questo risveglio religioso è insieme, come si suol dire, una buona notizia e una notizia cattiva” (89) — buona perché mostra come “[…] il senso religioso sia capace di riemergere, insopprimibile, presso un numero significativo di nostri contemporanei” e cattiva “perché il senso religioso riemerge in forme inaspettate — spesso “deboli”, poco istituzionali, poco capaci di incidere sulla cultura e sulla società — e solo in una piccola misura spinge i nostri contemporanei a ritornare alle Chiese e comunità un tempo maggioritarie” (90) — l’Hervieu-Léger afferma a sua volta, con una significativa differenza di accentuazione, che la notizia per i cattolici è “[…] (relativamente) buona e (molto) cattiva. La notizia è buona — fino a un certo punto — perché testimonia il fallimento delle profezie secolariste della modernità, che annunciavano la riduzione costante e perfino la sparizione delle attese spirituali negli individui in una società governata dalla razionalità scientifica […]. Ma la notizia è anche cattiva, perché profondamente destabilizzante. Lo sviluppo di piccole imprese spirituali autogestite testimonia in effetti l’incapacità per la Chiesa di canalizzare e d’inquadrare le domande di senso che emergono su un terreno culturale e spirituale peraltro impregnato da secoli dalla sua presenza” (91). In effetti, secondo la sociologa di Parigi, è assai improbabile che i nuovi credenti without belonging, per quanto disposti a riscoprire forme sociali e comunitarie, si rivolgano alla Chiesa cattolica perché il relativismo è un fatto irreversibile: documenti come la Dichiarazione “Dominus Jesus” circa l’unicità e l’universalità salvifica di Gesù Cristo e della Chiesa, pubblicata dalla Congregazione per la Dottrina della Fede il 6-8-2000, rappresenterebbero soltanto “[…] un tentativo disperato per difendere un fortino della verità la cui sorte è già segnata da evoluzioni alle quali acconsente senza drammi un buon numero di fedeli e anche di preti, sempre meno certi che la vera fede sia una, cattolica e romana” (92).
V. Una valutazione
Personalmente, non sono convinto che il relativismo sia irreversibile (93), e che — quindi — la nuova evangelizzazione cui fa riferimento Papa Giovanni Paolo II non rappresenti più di una nobile illusione, senza prospettive di successo. Peraltro, come ricordava il teologo Harvey Cox in un’opera del 1995, i sociologi della religione — con le loro previsioni spesso negative — di rado si sono rivelati buoni futurologi (94). Lo stesso autore affermava, del resto, che anche i teologi, in questo specifico campo, hanno sbagliato più previsioni di quante non ne abbiano azzeccate (95).
In termini strettamente sociologici, il carattere irreversibile o meno dell’attuale trionfo del relativismo e della religiosità à la carte nell’Europa occidentale dipende, nel lungo periodo, da un numero di variabili indipendenti così difficile da calcolare da rendere aleatoria ogni previsione. La storia delle religioni mostra piuttosto un’alternanza fra crisi apparentemente definitive e risvegli sorprendenti. Quanto al credente, egli sarà piuttosto convinto sia che il futuro è nelle mani di Dio, sia che esso dipende in gran parte dalla capacità degli uomini d’interpretare correttamente il presente.
Massimo Introvigne
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(1) Cfr. una prima panoramica critica, occasionata dal rapporto pubblicato nel 1996 da una commissione parlamentare francese, in Massimo Introvigne e J. Gordon Melton (a cura di), Pour en finir avec les sectes. Le débat sur le rapport de la Commission parlementaire, 3a ed., Dervy, Parigi 1996; e — con spunti di carattere anche dottrinale — Giovanni Cantoni e M. Introvigne, Libertà religiosa, “sette” e “diritto di persecuzione”. Con appendici, Cristianità, Piacenza 1996.
(2) Giovanni Paolo II, Discorso in occasione della presentazione delle lettere credenziali del Signor Alain Dejammet come Ambasciatore di Francia presso la Santa Sede, del 10-6-2000, n. 5, in L’Osservatore Romano, 11-6-2000.
(3) Ibidem.
(4) Ibidem.
(5) Cfr. Danièle Hervieu-Léger, La Religion en miettes ou la question des sectes, Calmann-Lévy, Parigi 2001.
(6) Cfr. ibid., pp. 7-35.
(7) Ibid., p. 33.
(8) Cfr. ibid., p. 34.
(9) Su queste vicende, cfr. i miei Idee che uccidono. Jonestown, Waco, il Tempio Solare, Mimep-Docete, Pessano (Milano) 1995; Heaven’s Gate. Il Paradiso non può attendere, Elledici, Leumann (Torino) 1997; The Magic of Death. The Suicides of the Solar Temple, in Catherine Wessinger (a cura di), Millennialism, Persecution, and Violence. Historical Cases, Syracuse University Press, Syracuse (New York) 2000, pp. 138-157; sull’ultima vicenda, cfr. pure Jean-François Mayer, Il Tempio Solare, ed. it., Elledici, Leumann (Torino) 1997.
(10) D. Hervieu-Léger, La Religion en miettes ou la question des sectes, cit., p. 22: il riferimento è a Pierre Bouretz, La Démocratie française au risque du monde, in Marc Sadoun (a cura di), La Démocratie en France, Gallimard, Parigi 2000, pp. 27-137.
(11) D. Hervieu-Léger, La Religion en miettes ou la question des sectes, cit., p. 25.
(12) Cfr. una discussione di questa stessa tematica, nel mio Freedom of Religion in Europe and the Question of New Religious Movements, in Religion-Staat-Gesellschaft. Zeitschrift für Glaubensformen und Weltanschauungen, anno 1, n. 1, Heidelberg 2000, pp. 5-21.
(13) D. Hervieu-Léger, La Religion en miettes ou la question des sectes, cit., p. 31.
(14) Ibidem.
(15) Cfr. la distinzione fra secolarizzazione come fatto e secolarismo come ideologia e come promozione attiva della secolarizzazione, nel mio Il sacro postmoderno. Chiesa, relativismo e nuova religiosità, Gribaudi, Milano 1996.
(16) D. Hervieu-Léger, La Religion en miettes ou la question des sectes, cit., p. 27.
(17) Ibidem.
(18) Ibid., p. 25; sulle difficoltà per i governi occidentali contemporanei d’identificare un interlocutore islamico come quello auspicato dalla Francia, cfr. G. Cantoni, Aspetti in ombra della legge sociale dell’islam. Per una critica della “vulgata” “islamicamente corretta”, con prefazione di Samir Khalil Samir S.J., Centro Studi Arcangelo Cammarata, San Cataldo (Caltanissetta) 2000.
(19) D. Hervieu-Léger, La Religion en miettes ou la question des sectes, cit., p. 25.
(20) Ibidem.
(21) Ibid., pp. 25-26.
(22) Ibid., p. 34.
(23) Ibidem.
(24) Ibidem.
(25) Ibid., pp. 34-35.
(26) Secondo l’Indagine Europea sui Valori (European Value Survey, EVS) del 1999, i cattolici praticanti sono intorno al 38% in Italia e solo il 10% in Francia: cfr. Salvatore Abbruzzese, Il posto del sacro, in Renzo Gubert (a cura di), La via italiana alla postmodernità. Verso una nuova architettura dei valori, Franco Angeli, Milano 2000, pp. 397-455.
(27) Cfr. D. Hervieu-Léger, La Religion en miettes ou la question des sectes, cit., pp. 37-72.
(28) Cfr. M. Introvigne e J. G. Melton, op. cit., alla quale fa riferimento anche la sociologa francese, e G. Cantoni e M. Introvigne, op. cit.
(29) D. Hervieu-Léger, La Religion en miettes ou la question des sectes, cit., p. 61.
(30) Cfr. i miei Il fantasma della libertà. Le controversie sulle “sette” e i nuovi movimenti religiosi in Europa, in Cristianità, anno XXXV, n. 264, aprile 1997, pp. 13-26; e Chi ha paura delle minoranze religiose? La costruzione sociale di un panico morale, in La Critica Sociologica, n. 127, Roma agosto-novembre 1998, pp. 1-12.
(31) D. Hervieu Léger, La Religion en miettes ou la question des sectes, cit., pp. 61-62.
(32) Ibid., p. 65.
(33) Ibid., p. 71.
(34) Ibid., p. 72.
(35) Ibid., p. 68.
(36) Ibid., p. 69.
(37) Ibidem.
(38) Cfr. ibidem.
(39) Cfr. il mio Les mouvements anti-sectes aux Etats-Unis et en France: parallèles et différences, in Christian Lerat e Bernadette Rigal-Cellard (a cura di), Les mutations transatlantiques des religions, Presses Universitaires de Bordeaux, Bordeaux 2000, pp. 349-375.
(40) Cfr. il mio L’Opus Dei e il movimento anti-sette, in Cristianità, anno XXII, n. 229, maggio 1994, pp. 3-12.
(41) Cfr. D. Hervieu Léger, La Religion en miettes ou la question des sectes, cit., pp. 73-178.
(42) Cfr. il mio “La vocazione religiosa cattolica: declino e risveglio”: un’analisi sulla base dei criteri della “rational choice”, in Cristianità, anno XXIX, n. 303, gennaio-febbraio 2001, pp. 3-5.
(43) Cfr. D. Hervieu-Léger, Religione e memoria, trad. it., il Mulino, Bologna 1996; ed Eadem, Le Pèlerin et le converti, Flammarion, Parigi 1999.
(44) Cfr. Grace Davie, Religion in Britain since 1945. Believing without belonging, Blackwell, Oxford 1994.
(45) Cfr. il mio L’esplosione delle nuove religioni, in Seminarium, anno XXXVIII, n. 4, Città del Vaticano 1998, pp. 719-749, tradotto in francese — e oggetto di un vivace dibattito in Francia — come L’explosion des “nouvelles religions”, in La Documentation Catholique, anno 81, tomo XCVI, n. 2209 (15), Parigi 1-15 agosto 1999, pp. 732-745.
(46) Cfr. l’opera — che peraltro la studiosa francese non cita — di George J. Tanabe, Practically Religious. Worldly Benefist and the Common Religion of Japan, University of Hawaii Press, Honolulu 1998.
(47) D. Hervieu-Léger, La Religion en miettes ou la question des sectes, cit., p. 97.
(48) Ibid., p. 121.
(49) Ibidem.
(50) Ibidem.
(51) Ibidem, nota 1.
(52) Ibid., p. 123.
(53) Cfr. ibid., pp. 123-124.
(54) Cfr. Frédéric Lénoir, Le Bouddhisme en France, Fayard, Parigi 1999.
(55) D. Hervieu-Léger, La Religion en miettes ou la question des sectes, cit., p. 135.
(56) Ibidem.
(57) Ibid., p. 131.
(58) Ibid., p. 137.
(59) Ibid., p. 151.
(60) Ibid., p. 152.
(61) Ibid., p. 153.
(63) Ibid., p. 160.
(64) Ibid., p. 166.
(65) Ibid., p. 169.
(66) Ibid., p. 168.
(67) Cfr. ibid., pp. 168-169.
(68) Cfr. C. Wessinger (a cura di), op. cit.
(69) Cfr. D. Hervieu-Léger, La Religion en miettes ou la question des sectes, cit., pp. 179-216.
(70) Cfr. ibid., pp. 217-219.
(71) Ibid., p. 180.
(72) Ibidem.
(73) Ibidem. Rimane aperto il problema se questa “tradizione politica francese” sia, di per sé, meritevole di difesa e di conservazione sul piano tanto di una valutazione dottrinale ed etica quanto dell’attuale contesto del diritto internazionale.
(74) Ibid., p. 183.
(75) Ibid., p. 185.
(76) Ibidem.
(77) Ibid., p. 187.
(78) Ibid., p. 194, nota 2.
(79) Cfr. ibidem.
(80) L’autrice fa particolare riferimento al processo contro alcuni scientologi francesi, celebrato in primo grado a Lione il 4 ottobre 1996, in cui hanno testimoniato diversi studiosi fra cui Bryan Wilson, Karel Dobbelaere e il sottoscritto.
(81) Ibid., p. 216.
(82) Cfr. ibid., p. 190.
(83) Bellei e altri, testo completo disponibile sul sito Internet del CESNUR. Centro Studi sulle Nuove Religioni all’indirizzo <www.c esnur.org/testi/scie_mar2000_txt.htm>.
(84) Cfr. D. Hervieu-Léger, La Religion en miettes ou la question des sectes, cit., pp. 51-52.
(85) Ibid., p. 49.
(86) Ibid., p. 48.
(87) Cfr. ibid., pp. 48-49.
(88) Cfr. ibid., p. 209.
(89) M. Introvigne, Il sacro postmoderno, Chiesa, relativismo e nuova religiosità, cit., p. 19.
(90) Ibidem.
(91) D. Hervieu-Léger, La Religion en miettes ou la question des sectes, cit., p. 67.
(92) Ibid., p. 126.
(93) E neppure condivido l’affermazione dell’Hervieu-Léger secondo cui la dichiarazione “Dominus Jesus” sarebbe formalmente in contraddizione con l’enciclica di Papa Giovanni Paolo II Ut unum sint sull’impegno ecumenico, del 25-5-1995 (cfr. ibid., p. 196, nota 1).
(94) Cfr. Harvey G. Cox, Fire from Heaven. The Rise of Pentecostal Spirituality and the Reshaping of Religion in the Twenty-First Century, Addison-Wesley, Reading (Massachussetts) 1995, pp. XV-XVI; cfr. una recensione e un commento, nel mio “Fuoco dal Cielo”: Harvey G. Cox, il pentecostalismo e la “fine” della secolarizzazione, in Cristianità, anno XXIII, n. 245, settembre 1995, pp. 5-12.
(95) Cfr. H. G. Cox, op. cit., pp. 185-186.