di Marco Respinti
Francamente: del Festival della canzone italiana di Sanremo non c’interessa molto. Vivremmo bene, forse meglio, anche se non ci fosse. Capita però per caso (ma il caso non esiste) che uno transiti, giovedì sera, distrattamente davanti al televisore e venga catturato dai versi di una canzone strana, diversa, sostanzialmente un “parlato”. È Abbi cura di me di Simone Cristicchi.
Dice: «Non cercare un senso a tutto perché tutto ha senso, anche in un chicco di grano si nasconde l’universo perché la natura è un libro di parole misteriose dove niente è più grande delle piccole cose. È il fiore tra l’asfalto, lo spettacolo del firmamento. È l’orchestra delle foglie che vibrano al vento, è la legna che brucia che scalda e torna cenere». Poi proclama: «La vita è l’unico miracolo a cui non puoi non credere perché tutto è un miracolo tutto quello che vedi e non esiste un altro giorno che sia uguale a ieri. Tu allora vivilo adesso come se fosse l’ultimo e dai valore ad ogni singolo attimo». Più oltre incalza: «Il tempo ti cambia fuori, l’amore ti cambia dentro: basta mettersi al fianco invece di stare al centro. L’amore è l’unica strada, è l’unico motore. È la scintilla divina che custodisci nel cuore. Tu non cercare la felicità semmai proteggila». E ancora: «Ognuno combatte la propria battaglia: tu arrenditi a tutto, non giudicare chi sbaglia. Perdona chi ti ha ferito, abbraccialo adesso perché l’impresa più grande è perdonare sé stesso. Attraversa il tuo dolore, arrivaci fino in fondo, anche se sarà pesante come sollevare il mondo, e ti accorgerai che il tunnel è soltanto un ponte e ti basta solo un passo per andare oltre».
Nel ritornello torna costantemente il titolo della canzone, che è una cosa non pervenuta. Le strofe languide di tutti quei cantanti, con le loro facce da bambini e con i loro cuori infranti, ci hanno riempito le orecchie e le tasche di «ti amo» sprecati, amori insulsi, «ti voglio bene» melensi. Cristicchi scarta invece di lato e dice il contrario: «Abbi cura di me». Non sappiamo chi sia quel “tu”, e non vogliamo spingerci oltre, ma sappiamo che la cosa riguarda «me». Non sappiamo se la canzone parli a un padre o a una madre, che forse non ci sono più, che forse se ne sono andati troppo presto, oppure alla donna a cui dici «sì» in eterno, anche oltre la morte. Colpisce invece quella disarmante e disarmata invocazione di dipendenza, di legame, di oltre. Tu ‒ chi tu sia tu lo sai ‒ prenditi cura di me poiché io da solo sono nulla, pula, cenere, non esisto nemmeno. Ho bisogno di te che ti prenda cura di me. Ho bisogno semplicemente, ho bisogno. Ecco, la religione è questa. Avere bisogno di un Altro che ci compie totalmente dall’origine al destino.
Incredibile che lo schermo di Sanremo ci spiattelli in faccia una cosa così radicale, essenziale, fondamentale, eppure negletta e calpestata.
Lo spettatore casuale (ma il caso continua a non esistere) sta ancora boccheggiando per lo schiaffo subito che ne prende un altro sull’altra guancia.
Uno dei conduttori, il comico bassopiemontese ma di “scuola artistica milanese” Claudio Bisio, che non so voi ma a me fa ridere solo a guardarlo in volto come Aldo, Giovanni e Giacomo, sinistrorso e lontano così tanto da noi, ha la telecamera tutta per sé per pochi attimi. La riempie e usa i secondi per leggere alcuni messaggi di congratulazioni che arrivano dal pubblico. Ne adopera la metà per leggerne uno, inviato da Napoli da tale Salvatore. Non si fa mai, ma Bisio dice che stavolta rivelerà pure il cognome. Lo cerco ora poiché non lo ricordo più, ma il web, sempre prodigo di inutilità e veleni, stavolta, guarda un po’, è taccagno. Salvatore è un prete. Bisio legge il messaggio: «Quando hai tempo libero, vai a Messa con la tua famiglia perché dobbiamo andare in Paradiso». Non dice altro, non serve altro. Bisio è commosso. Lo ha colpito un prete ignoto perché parla del Paradiso. E risponde, in diretta tv con l’universo intero: «Ti dico la verità: sarà almeno 30 anni che non vado a Messa. Non posso prometterlo per la mia famiglia, ma io ti prometto che finito Sanremo andrò a Messa». Uno che ha l’Italia ai propri piedi, al vertice della carriera, sceglie di divulgare davanti a tutti una cosa forte così, il richiamo sereno e fermo di un sacerdote al cuore del cristianesimo, della vita intera: la Messa. E ci si impegna coram populo.
La canzone di Cristicchi eseguita pochi attimi prima ha fatto scattare la platea in piedi. In queste ore è la più ascoltata sul web, batte i mostri sacri del rock. Pare che Cristicchi ‒ già ideatore e protagonista di Magazzino 18, la pièce teatrale (e il libro, edito da Mondadori nel 2015) che denuncia le foibe comuniste mandando in bestia jet-set, ANPI, Wu Ming e compagnia cantante ‒ si sia imbattuto in una suora di clausura, abbia parlato con il Papa e presto lo intervisterà.
Ora, non è che siamo qui a canonizzare in vita Bisio e Cristicchi, per carità. Rileviamo soltanto una piccola grande cosa. I critici di professione, che debbono sempre avere qualcosa da criticare sennò non prendono lo stipendio, ci dicono, con fare saputo, che Sanremo è una bolla dorata che anestetizza, una moneta d’oro solo di cioccolato che non rappresenta affatto l’Italia reale e i cui mezzi scandalucci finti, giacché annunciati e scontati, sono il panem et circenses di un Paese che cola rapidamente a picco. Bubbole.
Sanremo è invece uno specchio fedele dell’Italia. Ci ha ammannito a lungo la propaganda LGBT come un pezzo del Paese vuole e adesso ci riporta a un senso religioso grezzo, basico, persino dozzinale che però rappresenta un pezzo d’Italia che non vuole passare, vivo persino nei personaggi più improbabili. Nel 2017 la cantante Fiorella Mannoia, di sinistra pure lei, ha portato al Festival la canzone Che sia benedetta, dove dice: «Per quanto assurda e complessa ci sembri, la vita è perfetta. Per quanto sembri incoerente e testarda, se cadi ti aspetta. Siamo noi che dovremmo imparare a tenercela stretta. Tenersela stretta. Siamo eterno, siamo passi, siamo storie. Siamo figli della nostra verità. E se è vero che c’è un Dio e non ci abbandona, che sia fatta adesso la sua volontà».
C’è qualcosa, in questa Italia piagata, che ancora insorge. E parla di miracoli, benedizioni, infinito, assoluto, Dio. L’iniziativa e il merito sono tutte di quest’ultimo, Dio, che, senza pagare il biglietto, si è accomodato in prima fila persino a Sanremo. Dio, che come diceva quel George MacDonald (1824-1905) che il suo discepolo Clive Staples Lewis (1898-1963) cita nella propria autobiografia di convertito, Sorpreso dalla gioia, è assai poco discreto. Mette trappole dappertutto.