Daniele Fazio, Cristianità n. 402 (2020)
1. L’ombra delle pandemie in Europa
La storia non si ripete mai allo stesso modo, ma ripresenta spesso ritmi analoghi. Osservare il passato serve dunque a capire il presente e ciò perché la storia è l’ambiente proprio –– ma non esclusivo –– dell’uomo; in essa, inoltre, si possono scorgere dinamiche emotive, morali e culturali che di tempo in tempo connotano costanti antropologiche.
In un’epoca di ritorno del fenomeno della pandemia, causata dal Covid-19, il riferimento a un momento analogo di diversi secoli fa viene proposto non semplicemente quale mera ricostruzione sintetica di fatti passati, ma soprattutto per comprendere, mutatis mutandis, affinità e differenze rispetto al nostro tempo.
Nella storia dell’Europa la cosiddetta «peste nera» è catalogata come un evento altamente devastante. Basti pensare che falcidiò circa un terzo della popolazione europea: secondo alcune statistiche i morti furono dai 25 ai 50 milioni. La diffusione pressoché totale del contagio rese drammaticamente visibile la morte, che riguardò ogni nucleo familiare. Ciò è rappresentato dalle tante opere artistiche che raffigurano la fine dell’esistenza terrena quale elemento macabro e improvviso che piomba su ogni uomo, di qualsiasi età ed estrazione sociale. Ne Il Trionfo della Morte, un affresco di autore sconosciuto datato 1446 e conservato a Palazzo Abatellis di Palermo, si osserva uno scheletro a cavallo: è la morte che con una falce abbatte quanti ha sotto tiro, indipendentemente dal loro stato e dalla loro condizione. La Danza macabra diventa un motivo ricorrente della pittura del tempo; in essa, scheletri rappresentanti la morte trascinano i vivi nel vortice del loro spettacolo mortifero. In questo senso, i committenti, pressoché esclusivamente ecclesiastici, cogliendo l’inquietudine dei tempi volevano comunicare visivamente ai contemporanei l’indicazione evangelica di essere pronti al passaggio all’eternità.
Tale raffigurazione della morte — scrive lo storico olandese Johan Huizinga (1872-1945) — fu «una delle grande idee culturali» (1) della fine del Medioevo. «Interveniva nella rappresentazione della morte un elemento nuovo, fantastico, impressionante, un brivido che sorgeva dalla zona della coscienza in cui si annidava l’agghiacciante terrore degli spettri. Il pensiero religioso, che dominava su tutto, convertì subito tale elemento in un “memento mori”, ma non sdegnò di servirsi della raccapricciante suggestione provocata dal carattere spettrale della rappresentazione» (2).
Gli storici della medicina hanno stabilito — almeno questa è la tesi più accreditata — che la peste si propagò tramite il famigerato batterio Yersinia pestis,veicolato dai roditori all’uomo tramite la Xenopsylla cheopis, ossia una pulce parassita (3). A quanto pare giunse in Europa tramite le navi dei mercanti genovesi e veneziani che commerciavano con l’Asia e/o attraverso una migrazione di ratti provenienti sempre dall’Oriente. Rintanata sulla pelle dei roditori, la pulce saltava anche sugli altri esseri viventi per cibarsi di sangue. La peste vide in Cina il suo esordio intorno agli anni Trenta del secolo XIV e in Europa si sviluppò soprattutto dal 1347 al 1351, vedendo il suo picco nel 1348 e comunque ricorrendo periodicamente nei diversi continenti fino al primo ventennio del Novecento, quando, in conseguenza di una ennesima ondata, in Australia il Dipartimento di sanità pubblica riuscì ad isolare l’agente patogeno responsabile dell’infezione (4). Da questo punto di vista va notato che il termine «peste» indicava sia nel Medioevo che nella Modernità tutte le malattie a carattere epidemico e contagioso: «scriveva nel ‘500 Gerolamo Mercuriale [1530-1606], professore a Padova: “pestis non est unus morbus determinatus, sed quicumque morbus potest esse pestis”» (5).
Se, da un lato, nel secolo XIV «la medicina era tanto insipiente quanto impotente: poco capiva e poco poteva» (6), dall’altro vi è da registrare che «era tuttavia dal Medioevo non pagano, ma cristiano, che venivano emergendo concetti e valori di grande rilevanza per la medicina. Già il cristianesimo dalle origini aveva influito positivamente sulla pratica del curare. Lo stesso evangelista Luca, al dire del suo contemporaneo san Paolo (Saulo di Tarso, I secolo d.C.) era un “diletto medico”, emulo di Cristo nel risanare il fisico quanto lo Spirito […]. Da un lato si affermava il concetto che il malato era un tutto unico, anima e corpo; dall’altro si affermava il valore dell’accoglienza, dell’ospitalità» (7).
2. Aspetti medici e sanitari
A quanto pare «nel grande circuito italiano della peste il punto di partenza è Messina, nel cui porto sono entrate sul finire dell’estate 12 navi, provenienti da Caffa in Crimea, base dei traffici genovesi nel Mar Nero: 12 vascelli fantasma, con le stive colme di grano ucraino infestato da topi e con a bordo cadaveri e moribondi, cioè i morti e i morenti di peste» (8). La citazione della città di Caffa non deve passare inosservata, in quanto i tartari nel 1346, tentando di espugnare tale colonia genovese in Crimea, catapultarono dentro le mura cadaveri di appestati, proprio per diffondere negli assediati il contagio e prefigurando così in qualche modo la moderna guerra batteriologica (9).
Gli epifenomeni del contagio della peste «nera», che in genere si manifestavano dopo un’incubazione fra i due e i dodici giorni, erano riducibili a tre forme: bubbonica (la più comune), polmonare e setticemica. Secondo quanto trasmessoci da uno dei più lucidi medici dell’epoca, Guy de Chauliac (ca. 1300-1368), che sopravvisse allo stesso contagio, i malati morivano nell’arco di tre o cinque giorni. Nella stragrande maggioranza dei casi comparivano bubboni nerastri su tutta la superficie del corpo e soprattutto nelle zone ascellari e inguinali. Il contagio avveniva in maniera immediata e intere famiglie perivano senza neanche l’assistenza religiosa. L’insorgenza del morbo era simile a quella dell’influenza: con febbre, dolore alle ossa, vomito, vertigini, fotosensibilità e a questi si aggiungeva anche espettorato ematico. Mentre alla peste che si manifestava con i bubboni si poteva sopravvivere, erano nettamente letali le tipologie polmonari e setticemiche, che conducevano la prima a crisi di soffocamento e la seconda a infezioni del sangue seguite dalla morte in poche ore.
Per affrontare la pandemia fu raccomandato da varie istituzioni, fra cui la facoltà medica di Parigi, una sorta di protocollo — Compendium de epidemia per collegium facultatis medicorum Parisius ordinatum (10) — che prevedeva una serie di norme su cui per diversi secoli si basarono le autorità mediche e politiche. Tali raccomandazioni annoveravano prescrizioni mediche, igieniche e dietetiche. Nelle abitazioni pubbliche e private veniva compiuta una sorta di sanificazione costante, la fumigazione, attraverso i fumi ricavati dalla combustione di incenso e di camomilla e la successiva areazione degli ambienti. Bisognava poi evitare qualsiasi contatto con l’appestato, che aveva un regime dietetico e comportamentale ben preciso: mangiare e bere con moderazione — senza una totale astinenza — evitando carni grasse e pollame; dormire poco, alzarsi all’alba e non circolare durante la notte, evitando inoltre disordini sessuali. Il malato doveva strofinare sulla sua pelle acqua di rose — oggi acqua di colonia — e aceto e portare addosso pietre preziose. Venivano anche praticati salassi nella convinzione che la sottrazione di sangue potesse estirpare il male, ma ciò aumentava semplicemente le probabilità di contagio attraverso il sangue infetto. La medicina del tempo davanti a un tale contagio si trovò sconfitta, così che «la gente medievale, invocante protezione o guarigione, dopo la peste nera e davanti alle sue recidive giustificatamente confidava più che nel sapere-potere dei medici, nel potere d’intercessione di san Sebastiano e di San Rocco» (11).
3. Provvedimenti governativi
Da parte delle autorità pubbliche, soprattutto in diverse zone del Nord Italia, furono messi in atto i primi cordoni sanitari, cioè zone d’isolamento per malati e sospettati dentro lazzaretti di frontiera. «In anticipo sul resto d’Europa nasceva in Italia un’organizzazione sanitaria d’avanguardia, esemplare per gli altri Paesi europei» (12). I primi lazzaretti furono organizzati nel Ducato di Milano, nel vescovado di Udine, nella città di Gemona e nella Repubblica di Venezia. Vennero nominati magistrati di Sanità che dovevano vigilare sul rispetto delle norme emanate. Iniziarono anche le «quarantene», ossia il blocco delle navi presso i porti d’arrivo per quaranta giorni con l’isolamento delle persone che vi erano a bordo. Fra le prime a ordinare la quarantena vi fu la Repubblica marinara di Ragusa, l’odierna Dubrovnik, nel 1377. Fu consigliato, infine, di evitare affollamenti e furono controllati gli ingressi e le uscite dalle porte delle città. Ma così come vi erano coloro che, ligi alle disposizioni, si serravano in casa, vi erano anche coloro che in spregio alle restrizioni e in modo temerario si davano a una vita sfrenata, beffeggiando la malasorte. La testimonianza letteraria più famosa della pratica dell’isolamento è senza dubbio l’opera di Giovanni Boccaccio (1313-1375), Decameron, che ha la sua premessa nella decisione di dieci giovani di sfuggire alla peste nella città di Firenze, attraverso l’abbandono del centro urbano e l’isolamento in campagna, ove appunto si raccontavano reciprocamente le novelle. Le città più popolose — come Firenze e Venezia — furono grandemente colpite, mentre in qualche modo si salvarono i centri montani e i piccoli paesi al di fuori di un circuito di comunicazione e trasporti di carattere commerciale. Il lazzaretto, comunque, divenne il luogo strategico per poter osservare la malattia e il suo decorso e per approntare, oltre le cure religiose, anche le possibili cure mediche. Furono in essi impegnati, a volte eroicamente, diversi ordini religiosi e confraternite. Il cronista fiorentino Matteo Villani (1283-1363), descrivendo la Grande Peste di Firenze, scrive: «e avveniva che chi era a servire questi malati, o infetti, di quella medesima corruzione incontinente (immediatamente) malavano, e morivano per somigliante modo» (13).
Da allora e per i secoli a venire si sviluppò il massimo interesse nell’impiantare un’organizzazione sanitaria in grado non solo di combattere i momenti di epidemia, ma anche di seguire in ogni malattia la persona, ricoverata e curata in alloggi dedicati a questa finalità: l’ospedale si trasformò quindi in un luogo di cura del malato e non in un semplice luogo di ospitalità per poveri e pellegrini. Scrive Giorgio Cosmacini: «Il lazzaretto invece era uno spazio chiuso privo di ambiguità: spazio chiuso a struttura ospedaliera, fuori dalla città ma non un’anticittà. Uno spazio creato per un tempo provvisorio, transitorio; uno spazio non semplicemente recintato, valicabile, ma addirittura sbarrato, invalicabile. Un luogo di segregazione per individui anch’essi contagiosi e pericolosi, ma con pericolosità elevatissima però non irrecuperabili in assoluto, anche se la virulenza della peste lasciava poche possibilità di recupero […] il lazzaretto era più simile all’ospedale moderno che di fatto, in un certo qual senso, anticipava» (14).
Furono istituite poi dai comuni le condotte mediche per la cura gratuita dei cittadini poveri: per esempio «nel 1461 a Bitonto risultava essere medico condotto (o medico salariato) del Comune Saladino Ferro da Ascoli [?-1463], già protomedico del Principe di Taranto, il quale percepiva, rispetto al chirurgo condotto, uno stipendio sensibilmente più alto e molti privilegi e agevolazioni fiscali» (15). Si costituirono anche uffici di sanità con protocolli di gestione e le autorità iniziarono ad esercitare seri controlli sui mercanti di cibi e tessuti.
4. Aspetti economici
La Grande Peste si sviluppa in un contesto produttivo ed economico già messo a dura prova dai cambiamenti climatici, dalle ricorrenti carestie, dalla drastica diminuzione dei prodotti agricoli e dalle ricorrenti operazioni militari appannaggio soprattutto delle compagnie di ventura, che indebolivano le città medioevali. Mentre a partire dal secolo XII e per tutto il XIII si registra un andamento netto di crescita demografica, agricola ed economica in Europa, dalla fine del XIV l’indice di sviluppo scese sempre di più. Gli effetti della peste nera incisero enormemente sui vari settori produttivi, mettendo in crisi un sistema in equilibrio che ora era chiamato a vincere la sfida di una rimodulazione. Il primo elemento da considerare è l’imponente crollo demografico che fece innalzare i prezzi a causa del minore consumo dei cereali, alimento principale della popolazione europea. Il secondo elemento riguarda la drastica diminuzione dei traffici commerciali su lunga distanza. Nel corso dei secoli precedenti aveva acquisito una rilevanza sociale di spessore la figura del mercante, ossia di colui che favoriva il commercio marittimo e terrestre fra le città. A causa dell’epidemia il settore mercantile con un circolo virtuoso di scambi anche finanziari — introduzione delle lettere di cambio e della partita doppia — subì un arresto imponente (16). Il terzo elemento riguarda la rimodulazione della grande impresa agricola. Essendo diminuita la disponibilità di manodopera, i contadini rivendicarono aumenti di salario a fronte però di uno scarso introito dovuto alla diminuita domanda di cereali e alla limitazione degli scambi. L’aumento dei costi e il calo dei profitti provocarono la caduta delle rendite signorili e ciò provocò una serie di tensioni sociali. Le rivolte più famose di contadini si registrarono in Francia nel 1358, prendendo il nome di jacquerie, e in Inghilterra nel 1381. In Francia la protesta si sviluppò anche come reazione alle devastazioni prodotte dalla guerra dei Cent’Anni (1337-1453) che vide fronteggiarsi la Francia e l’Inghilterra. Oltre la Manica la protesta dei contadini — soprattutto nelle regioni del Kent e dell’Essex — fu causata dall’inasprimento delle condizioni lavorative e dai conflitti tra signori. L’apice della rivolta vide la marcia su Londra dei contadini e ottenne dal quattordicenne re Riccardo II Plantageneto (1367-1400) l’accoglimento delle richieste dei rivoltosi, ossia l’abolizione della servitù, l’alleggerimento delle prestazioni e l’amnistia per i protagonisti delle rivolte. Tuttavia, sedati gli animi, l’esercito su ordine del re represse le frange più radicali del movimento, che peraltro avevano legami con le tesi teologiche di John Wycliffe (1331-1384) (17).
Nel contesto di riorganizzazione dell’assetto economico-agricolo nacquero forme di gestione indiretta dell’azienda agricola, quali il contratto di mezzadria o la rimodulazione della produzione che si diversificò alla ricerca di un’offerta specializzata e di pregio (vino, olio, canna da zucchero, cotone, lino, coloranti), da un lato, o più popolare e massificata (latte, burro, carne, lana) dall’altro. A seguito di ciò in Inghilterra si diffusero le enclosures, ossia recinzioni dei campi aperti adibiti ad allevamento di capi di bestiame, con il conseguente allontanamento dei contadini che da tempo sui campi aperti esercitavano diritti di pascolo e di coltivazione.
Un altro settore degno di attenzione è quello manifatturiero, diffuso soprattutto nelle grandi città come Firenze. Il calo della domanda dei beni di consumo e la limitazione degli scambi commerciali portarono a duri scontri fra lavoratori e datori di lavoro. L’episodio più consistente a Firenze fu nel 1378 quello della rivolta dei Ciompi, ossia dei lavoratori della lana, che, lavorando diciotto ore al giorno e venendo remunerati poco, innescarono tumulti di vaste proporzioni, cui si intrecciarono anche motivazioni politiche dominate dal perpetuo conflitto fra guelfi e ghibellini. Dopo alterne vicende, la corporazione dei Ciompi venne sciolta e i rivoltosi furono giustiziati.
Anche il protosistema bancario sviluppatosi durante il secolo XIV andò in crisi, con il fallimento di diverse compagnie economiche (18). La bancarotta della compagnia dei Buonaccorsi nel 1342 determinò il crollo di altre colonne economiche della Penisola: fra il 1343 e il 1346 subirono il crack finanziario le compagnie dei Bardi, dei Peruzzi, degli Acciaioli, dei Ricciardi, degli Ammannati e dei Chiarenti, creando un effetto a catena nel mondo commerciale e nei governi che trovavano nei banchieri un sostegno di natura finanziaria.
Da un punto di vista economico, dunque, l’insistente depressione portò in certi settori a una riconversione delle attività che alla fine fecero emergere anche nuovi centri economici e nuove produzioni. In altri termini con la crisi del secolo XIV, che ebbe nella peste un momento apicale, si accentuò la riorganizzazione del sistema economico feudale e si avviò una società piena di tensioni, in cui sempre più dominanti diventavano l’individuo, la borghesia e i suoi interessi a dispetto dell’organica compattezza del contesto socio-economico precedente.
5. Aspetti socio-religiosi
L’assedio della peste condusse gli uomini anche a una serie di disordini morali e sociali. Si verificarono casi di sciacallaggio alla ricerca di soldi nei vestiti dei cadaveri, liti tra famigliari per spartirsi l’eredità dei defunti e abbandoni dei contagiati da parte degli stessi parenti. Secondo Matteo Villani, soprattutto fra gli infedeli «le madri e’ padri abbandonavano i figliuoli, e i figliuoli le madri e’ padri, e l’uno fratello l’altro e gli altri congiunti, cosa crudele e meravigliosa, e molto strana della umana natura, detestata tra i fedeli cristiani nei quali, seguendo le nazioni barbare, questa crudeltà si trovò» (19). L’atmosfera del tempo viene altresì sintetizzata da Cosmacini: «fuga e aggressività erano comportamenti reattivi istintivi e inconsci, reazioni esistenziali alla paura e all’angoscia di morte. La fuga si massimizzava nell’abbandono degli appestati da parte degli stessi familiari; l’aggressività si massimizzava nell’isterìa errabonda dei flagellanti e nella caccia all’ebreo come capro espiatorio» (20).
Infatti, la reazione emotiva delle popolazioni in mancanza di chiarezza medico-scientifica sulla peste — esorcizzando in modo irrazionale il pericolo — si manifestò spesso in pratiche di caccia all’untore, sul quale scaricare le proprie paure e allontanare così il contagio. Soprattutto nell’Europa settentrionale e nelle regioni germaniche si aprì la caccia all’ebreo, accusato di essere il responsabile della diffusione del contagio, per esempio attraverso la pratica dell’avvelenamento dei pozzi cui si attingeva l’acqua. La persecuzione era istigata soprattutto da movimenti ereticali, fra cui i cosiddetti «flagellanti», che consideravano la peste una punizione divina per i peccati dell’umanità e si esibivano in plateali opere di penitenza con le quali implorare la salvezza, che coincideva spesso con l’autoconservazione dell’esistenza terrena più che con la beatitudine eterna. Tuttavia, «il capro espiatorio variava da paese a paese da epoca a epoca. In Spagna si diffuse la voce che gli avvelenatori erano, per lo più, i musulmani; in Francia gli inglesi; altrove e in altre occasioni gli avvelenatori erano i lebbrosi, oppure gli “stranieri poveri”, considerati potenziali portatori di malattie, oppure ancora coloro che si occupavano di mestieri in cui si producevano cattivi odori o rifiuti» (21).
A fronte comunque di massacri di ebrei, soprattutto in Svizzera, e di persecuzioni nelle regioni germaniche, soprattutto intorno al Reno, Papa Clemente VI (1342-1352), residente ad Avignone, intervenne — seguito da altri uomini di Chiesa — con due diverse Bolle per condannare le violenze contro le comunità ebraiche europee, facendo obbligo a tutti i vescovi di darne lettura dai pulpiti. Coadiuvato dal suo medico, il già citato Guy de Chauliac, dimostrò anche da un punto di vista razionale e di buon senso che la caccia all’untore non aveva alcuna ragion d’essere e sotto pena di scomunica vietava ogni sorta di discriminazione verso le comunità ebraiche. Da questo punto di vista, l’inquisizione agì proprio in difesa degli ebrei per sottrarli alle malevoli intenzioni delle folle, suggestionate da tesi millenariste e apocalittiche di movimenti ereticali di tipo cataro o gnostico, che poi come un fiume carsico sfoceranno nel movimento hussita in Boemia e successivamente nella Rivoluzione protestante in Europa. Non è un caso che proprio quelle zone nel secolo XVI saranno interessate dalla caccia alle streghe e dalla persecuzione anche di sacerdoti cattolici. Tutto ciò fu reso possibile pure dalla grande debolezza in quei territori sia dell’autorità ecclesiastica, sia dell’autorità pubblica dei principi tedeschi (22).
Nella bolla Quamvis perfidiam Iudeorum (23), del 4 luglio 1348, Clemente VI ribadiva che Gesù Cristo aveva scelto il popolo ebraico per nascervi e per salvare tutta l’umanità, ragion per cui il Pontefice — così come molti suoi predecessori — aveva a cuore gli ebrei e garantiva loro uno «scudo di protezione». Nella fattispecie, osservava che la peste era presente anche in luoghi dove non vi era alcuna comunità ebraica. Ricordava, inoltre, che gli stessi ebrei erano colpiti e che dunque ogni violenza nei loro confronti era ingiustificata e faceva incorrere chi se ne rendeva protagonista nella massima pena canonica. Con la bolla Inter sollicitudines (24), del 20 ottobre 1349, condannava le pratiche dei flagellanti — fatta salva quella della penitenza individuale — che, sotto l’apparenza della pietà, si inserivano in un orizzonte dottrinale confuso, quando non esplicitamente ereticale e soprattutto delegittimavano l’autorità soprannaturale della Chiesa. Anche in tale documento il Papa citava esplicitamente i disordini e le violenze consumate ai danni degli ebrei e dei cristiani da tali congreghe, ritenuti forme di religiosità superstiziose e carenti di ragionevolezza.
6. Verso la Modernità
Se il secolo XIV può essere contrassegnato dalla parola «crisi» — che tra l’atro è termine comparso e impiegato in ambito medico e solo successivamente utilizzato per indicare fenomeni storico-sociali (25) — manifestatasi in forme molteplici, il segno plastico di questa non può che essere la Grande Peste. Proprio in questo tempo mutò il volto dell’Europa. In ogni ambito l’uomo fu chiamato a cambiare direzione e segnatamente da un punto di vista storico un tale periodo avviò quello che Huizinga molto bene ha definito come «l’autunno del Medioevo» (26), gravido di un profondo cambiamento epocale. Scrive lo storico Marco Tangheroni: «gli ultimi due secoli [XIV e XV] di quell’epoca storica che siamo abituati a chiamare Medioevo possono e debbono essere visti insieme come crisi della cristianità occidentale e come origine del mondo moderno […]. Segni di crisi del Medioevo si avvertono dapprima a livello economico e sociale. Per cominciare bisogna ricordare la grande catastrofe demografica provocata dall’epidemia di peste del 1348 e dalle ricorrenti epidemie successive. […] Dal punto di vista fenomenologico ciò che mi interessa è vedere come la società, di fronte a questa enorme catastrofe abbia mostrato grossi cenni di cedimento, […] Anche i legami familiari e le solidarietà cittadine vennero meno e […] passata la peste, nei sopravvissuti si scatenò una caccia al lusso resa materialmente possibile dal concentrarsi delle fortune nelle mani di pochi» (27).
Pertanto, se l’impressione diffusa al tempo della Grande Peste fu quella di una imminente fine del mondo, certamente non si trattava della fine biblica dei tempi bensì della fine di un mondo, ossia dell’accelerazione di un ampio processo che dal Medioevo porterà all’Età moderna e che certamente, quale periodo di transizione, durerà più di un secolo, in cui si possono annoverare eventi rappresentativi con date significative che segnano il passaggio da un tipo di mentalità a un altro: dopo la peste e la crisi del secolo XIV, si succederanno la caduta di Costantinopoli ad opera dei turchi ottomani, nel 1453, l’invenzione della stampa a caratteri mobili, nel 1455, la scoperta dell’America nel 1492 e l’inizio della Rivoluzione protestante nel 1517.
Note:
(1) Johan Huizinga, L’autunno del Medioevo, tr. it., introduzione di Eugenio Garin (1909-2004), Rizzoli, Milano 1998, p. 196.
(2) Ibidem.
(3) Cfr. Gianni Iacovelli, Manuale di storia della medicina, Gerni, San Severo (Foggia) 1991.
(4) Bubonic Plague come sto Sydney in 1900, nel sito web <https://www.sydney.edu.au/medicine/museum/mwmuseum/index.php/Bubonic_Plague_comes_to_Sydney_in_1900> (gl’indirizzi Internet dell’intero articolo sono stati consultati il 26-5-2020).
(5) G. Iacovelli, op. cit., p. 42.
(6) Giorgio Cosmacini, L’arte lunga. Storia della medicina dall’antichità a oggi, Laterza, Roma-Bari 2001, p. 117.
(7) Ibid., pp. 119-120.
(8) Ibid., p. 210.
(9) Cfr. Alfredo Santoro, 1347. Untori italiani per la peste nera, in Andrea Giardina (a cura di), Storia mondiale dell’Italia, Laterza, Roma-Bari 2017, pp. 295-298.
(10) Lo scritto è di autore anonimo e può essere consultato nel sito web <http://www.manuscripta-medica.com>.
(11) G. Cosmacini, op. cit., p. 221.
(12) Ibid., p. 225.
(13) Matteo Villani, Cronica. Con la continuazione di Filippo Villani, a cura di Giuseppe Porta, Guanda, Parma 1994, I, 2, p. 6.
(14) G. Cosmacini, op. cit., p. 223-224.
(15) G. Iacovelli, op. cit., p. 33.
(16) Cfr. Henri Pirenne (1862-1935), Storia economica e sociale del Medioevo, Garzanti, Milano 1985.
(17) Cfr. Marco Tangheroni (1946-2004), Cristianità, modernità, rivoluzione. Appunti di uno storico fra «mestiere» e impegno civico-culturale, a cura di Oscar Sanguinetti con la collaborazione di Stefano Chiappalone e con un Saggio introduttivo di Giovanni Cantoni (1938-2020) e Nota previa diAndrea Bartelloni, Sugarco Edizioni, Milano 2009, p. 66.
(18) Una narrazione contemporanea alle vicende soprattutto per quanto riguarda le compagnie fiorentine è in Giovanni Villani (1280-1348), Nuova Cronica, libro XIII, cap. LV, pp. 659-660, nel sito web <https://www.liberliber.it/mediateca/libri/v/villani/nuova_cronica/pdf/nuova__p.pdf>.
(19) M. Villani, op. cit., I, 2, p. 19.
(20) G. Cosmacini, op. cit., p. 215.
(21) Francesco Agnoli, La grande storia della carità, Cantagalli, Siena 2013, pp. 44-45.
(22) Cfr. Rodney Stark, Un unico vero Dio. Le conseguenze storiche del monoteismo, trad. it.,Lindau, Torino 2009.
(23) Il testo in latino e in francese si trova nel sito web <http://www.cn-telma.fr/relmin/extrait87469>.
(24) Il testo in latino si trova in Clemente VI, Inter solicitudines, del 20-10-1349, in Registra Vaticana, 143, f. 94 v°; littere precum.
(25) Cfr. Reinhart Koselleck (1923-2006), Crisi. Per un lessico della modernità, introduzione e cura di Gennaro Imbriano e Silvia Rodeschini, postfazione di Adelino Zanini, Ombre corte, Verona 2012.
(26) Cfr. J. Huizinga, L’autunno del Medioevo, cit.
(27) M. Tangheroni, Cristianità, modernità, rivoluzione, cit., pp. 63 e 65.