Giovanni Cantoni, Cristianità n. 8 (1974)
Quando, sulla base della “lezione cilena”, la dirigenza del comunismo italiano ha lanciato il “compromesso storico”, si è potuto tra l’altro notare un atteggiamento opportunistico verso il mondo imprenditoriale, consistente in una particolare “comprensione” nei confronti dei suoi problemi congiunturali.
Tale generica comprensione si è via via venuta trasformando in attenzione e ha rivelato un piano tendente a operare nel senso di una sempre maggiore “dialettizzazione” – cioè trasformazione delle differenze in contrasti – all’interno del mondo imprenditoriale stesso.
Episodio saliente di questa manovra – settoriale ma rilevante per l’importanza del settore preso di mira – è il convegno, promosso dal Partito Comunista tramite il CESPE e l’Istituto Gramsci, sulle piccole e medie imprese, tenuto nel novembre 1974 a Milano, nella Sala della Balla del Castello Sforzesco.
Nel corso dell’assise l’on. Eugenio Peggio e l’on. Giorgio Amendola hanno detto molte cose assennate e hanno reiteratamente manifestato la loro comprensione e la loro simpatia nei confronti delle piccole e medie imprese, meravigliando sia i “loro” più sprovveduti che i propri interlocutori.
Ammesso e non concesso che sia plausibile la partecipazione di imprenditori a un convegno comunista, su quale base psicologica possono avere fatto leva le considerazioni politico-economiche che hanno mosso ad accettare l’invito?
Questo punto mi pare degno della massima attenzione, perché supera osservazioni di carattere congiunturale e raggiunge il cuore di un problema di mentalità decisivo per la nostra società.
Quanto il gergo comunista sia penetrato nel nostro mondo e lo pervada a tutti i livelli e in tutti i settori – non esclusi quelli che si qualificano come anticomunisti o che li dovrebbero essere strutturalmente, pena il suicidio – si può verificare facendo l’esperimento di sostenere in private conversazioni o in pubblici discorsi il diritto di proprietà o addirittura il capitalismo.
Immediatamente, un moto di riprovazione e di censura colpisce l’incauto e l’ignoranza – armata del gergo rosso – ne fa la “guardia bianca”, lo scherano prezzolato dei sacerdoti del dio quattrino, che come vampiri dissanguano l’umanità.
Talora però, fortunatamente, questo malocchio non provoca una totale chiusura nei confronti del malcapitato; il discorso può continuare e si può così cogliere abbastanza rapidamente che, a tutti i livelli e in tutti i settori, proprietà e capitalismo sono assunti come sinonimi o almeno come largamente equivalenti, e che vengono considerati termini chiave e peculiari della visione del mondo liberale.
Se, a chi così si esprime, si osa rispondere che la sua posizione è socialista – cioè comunista – non è raro che l’accusato si indigni e che, difendendosi, cominci a distinguere tra proprietà e capitalismo, quindi tra “piccola proprietà” e “grande capitale”, per giungere a rivelarvi che “pensa” che il comunismo sia nemico del “grande capitale”, ma non della “piccola proprietà”; che quindi – violenza a parte – abbia in sé del buono: e che perciò, da questo punto di vista, meriti di essere affiancato. Quanto poi al socialismo, basta che sia “democratico” o “nazionale” per riacquistare verginità.
Comunque – prescindendo dal fatto che è irrilevante che lo Stato sia padrone di tutto e unico operatore economico in nome del proletariato (comunismo), della maggioranza (socialismo democratico) o della nazione (socialismo nazionale) – si può facilmente notare come dai più ingenuamente si creda che il comunismo distingua tra “piccola proprietà” e “grande capitale”, e che, indifferente se non favorevole alla prima, sia avverso soprattutto al secondo.
Analogo pensiero si riscontra a proposito della borghesia, con il quale termine generalmente si pensa che i comunisti indichino non i padroni in genere, ma specificamente – posto il ragionamento precedente – i “padroni del grande capitale”. Quindi, chiunque ritenga di non poter essere ascritto a questa categoria estremamente ridotta e accusata di essere per definizione parassitaria, crede che non incomba su di lui il pericolo di essere distrutto insieme alla borghesia come classe.
Di fronte a queste “certezze” generalizzate, appare di qualche importanza mettere in luce alcuni concetti espressi da Lenin a proposito delle realtà e dei termini sopra considerati.
Lenin afferma che la “potenza [della borghesia] non consiste soltanto nella forza del capitale internazionale […], ma anche nella forza dell’abitudine, nella forza della piccola produzione; poiché, per disgrazia, la piccola produzione esiste […] in misura molto, molto grande, e la piccola produzione genera incessantemente il capitalismo e la borghesia, ogni giorno, ogni ora, in modo spontaneo e in vaste proporzioni” (1).
“Grande capitale”, dunque, e “piccola proprietà” non sono per Lenin due realtà separate, così come non li sono produttori e borghesi; ma stanno tra loro in un rapporto di causa ed effetto, in una relazione genetica. Può venire subito alla mente che lo sforzo comunista sia teso però a separarle, isolando il capitalismo dalla proprietà, ma il rapporto genetico che li lega è tale che “il capitalismo non sarebbe capitalismo – è sempre Lenin a parlare – se il proletariato “puro” non fosse circondato da una folla straordinariamente variopinta di tipi intermedi tra il proletario e il semiproletario […], tra il semiproletario e il piccolo contadino (il piccolo artigiano, il piccolo padrone in generale), tra il piccolo contadino e il contadino medio, ecc.” (2).
In queste condizioni appare chiaro come la lotta contro il capitalismo e la borghesia sia inevitabilmente lotta contro la realtà economica-sociale che li genera, “a causa della spontanea e continua ricostituzione e rinascita del capitalismo e della borghesia ad opera dei piccoli produttori” (3). È coerente, infatti, per chi non vuole le conseguenze, cioè il capitalismo e la borghesia, aspirare a distruggere le cause, cioè la proprietà e i piccoli produttori, dal momento che cause e conseguenze sono dello stesso genere.
Si rivela quindi illusoria la distinzione tra “grande capitale” e “piccola proprietà”, inseparabilmente uniti nella diagnosi e nella dottrina comunista.
A questo punto qualcuno potrà dire che però Lenin considera la potenza della borghesia anche nella “forza del capitale internazionale“, e che quindi lotta anche contro questo avversario e non solo contro la “forza della piccola produzione“.
Certo, l’osservazione è pertinente. Infatti, se – come ho detto – è irrilevante che lo Stato sia padrone di tutto e unico operatore economico in nome del proletariato, della maggioranza o della nazione, è ugualmente irrilevante che alcuni pochi siano padroni di tutto, Stato quindi compreso. Ma non è irrilevante per Lenin, che confessa apertis verbis la sua predilezione per il capitalismo monopolistico, per il gigantismo economico, e questo da due punti di vista. In primo luogo perché “vincere la grande borghesia centralizzata è mille volte più facile che “vincere” milioni e milioni di piccoli padroni” (4); in secondo luogo perché giorno verrà in cui gli esponenti del gigantismo economico, “i capitalisti e i loro governi chiuderanno gli occhi […] e […] diventeranno non solo “sordomuti”, ma anche ciechi. Essi ci apriranno crediti, che ci serviranno per sostenere i partiti comunisti nei loro paesi. Essi ci forniranno anche il materiale e la tecnologia che ci è necessaria e riorganizzeranno la nostra industria militare, che ci servirà per i nostri futuri vittoriosi attacchi ai nostri fornitori” (5).
Quindi, per ragioni derivanti dalla diagnosi della vita economica – perenne nascita del capitalismo dalla proprietà -, il comunismo si rivela avverso alla proprietà in quanto tale, che chiama capitalismo. Quando poi giunge a distinguere tra proprietà e capitalismo, per dichiarate ragioni tattiche – maggiore facilità nel colpire le concentrazioni piuttosto che le forze organicamente diffuse – preferisce quest’ultimo alla prima.
Inoltre, suscita machiavellicamente avversione nei confronti della proprietà chiamandola capitalismo e caricandola dei difetti della sua concentrazione eccessiva e del suo uso liberale, cioè sciolto da ogni vincolo morale. Fa così dimenticare che proprio questo capitalismo lo favorisce e che vuole ereditarlo, chiamando “di Stato” quello che prima è monopolio di pochi, senza chiarire che lo Stato sarà di nuovo di “pochi” travestiti da “tutti”.
In questa prospettiva, quindi, “il capitalismo si può al limite definire in base alla sua origine come l’organizzazione economica vigente vista attraverso gli occhiali del socialismo” (6).
Ma l’”organizzazione economica vigente” è costituita solamente da concentrazioni, oppure alla sua base esiste ancora una realtà che pulsa organicamente e sorgivamente? La risposta non è incerta e la domanda retorica tollera solo risposta affermativa. Esiste una realtà economica naturale, che il comunismo chiama capitalismo. La amoralità di questa vita economica produce il supercapitalismo, il gigantismo economico, che congestiona la vita economica, la esaspera e la approssima alla paralisi. Il comunismo non lotta contro la congestione della vita economica, contro la sua amoralità e la sua indipendenza da ogni legge morale; non lotta contro l’organizzazione economica vigente affetta da liberalismo. Vede piuttosto nella congestione e nel gigantismo l’approssimarsi della paralisi, della morte della realtà e della vita economica: un passaggio che affretta l’avvento dell’utopia economica, che è a sua volta strumento dell’utopia politica.
Tenta perciò di rendere solidali nella mentalità corrente proprietà, capitalismo e supercapitalismo, vita economica e malattia economica.
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“Passando, Gesù vide un uomo cieco fin dalla nascita. E i suoi discepoli gli domandarono: “Maestro, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?”. Rispose Gesù: “Né lui, né i suoi genitori, ma è così affinché siano manifestate in lui le opere di Dio”” (7).
Certo, non tutti i mali sono dovuti a colpe antecedenti, o personali o di prossimi congiunti, essendo talvolta non un castigo meritato, ma un mezzo efficace di purificazione e di grazia. Qualche volta però, come nel caso del paralitico, il rapporto tra malattia e peccato è indicato in modo esplicito. Dopo averlo guarito, infatti, Gesù “incontrò il paralitico nel tempio e gli disse: “Ecco sei guarito; non peccare più, affinché non ti capiti di peggio”” (8).
Non sarà, forse, che la guarigione dalla malattia economica sia condizionata alla conversione a una vita economica morale, in uno Stato che riconosca la regalità sociale di nostro Signore Gesù Cristo?
Non sarà assolutamente necessario rompere l’incantesimo, riacquistare la nozione di salute economica e proclamare a tutte lettere che le malattie sono mortifere, ma non sono la morte; che il malato è un vivente e che il miglior modo per conservarlo in vita è quello di liberarlo dalle malattie, ma non attraverso quella guarigione sui generis che è la morte?
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Nella prospettiva del comunismo, il “capitalismo” si rivela, in ultima analisi, una semplice categoria propagandistica, che permette all’utopia economica di colpire la realtà economica senza essere accusata troppo facilmente di irrealismo.
Inoltre, siccome, sempre secondo le categorie comuniste, l’alternativa tra proprietà privata e proprietà di Stato si enuncia come alternativa tra capitalismo e comunismo, l’unica possibilità per identificare il capitalismo come diverso dall’”organizzazione economica vigente vista attraverso gli occhiali del socialismo” – e quindi sottrarre la realtà economica all’odio e al tentativo di distruzione – sta nell’affermazione della proprietà e nella sua definizione. Infatti, solo una realtà definita tollera l’enunciazione della sua deformazione e cautela contro i propositi della sua distruzione; solo chi sostiene il diritto di proprietà e di libera iniziativa economica può identificare il capitalismo come amoralità e gigantismo economico e quindi combattere il comunismo che è morte sia della proprietà che della libera iniziativa. Perché, delle due l’una: se con il termine “capitalismo” si vuole intendere il regime di proprietà privata e di libera iniziativa, ci si deve schierare senza incertezze a difesa di tale “capitalismo”; se invece con il termine “capitalismo” si intende indicare la deformazione amorale del regime di proprietà privata e di libera iniziativa, ciò che in questo “capitalismo” è permesso e doveroso combattere è soltanto la deformazione di una realtà che al contrario va altrettanto doverosamente difesa. Chi si comporta secondo direttive diverse non combatte né il comunismo né il gigantismo economico, ma fa piuttosto il loro gioco. Anche se all’uso liberale-individualistico della proprietà propone di sostituire un uso liberale statalistico o liberale-nazionale. Chi può garantire che la moralità dello Stato o della nazione sia superiore alla moralità del singolo operatore economico? Non è forse la nazione continuità nella convivenza di singoli uomini, e lo Stato organizzazione politica di questa convivenza?
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Giunto al termine di queste considerazioni sollecitate dalla attuale politica comunista nei confronti dei piccoli e medi imprenditori, mi auguro di aver provato in modo sufficiente l’avversione del comunismo per ogni proprietà, soprattutto piccola, e quindi il carattere machiavellico del suo comportamento dissonante dalla sua dottrina. Nei discorsi pronunciati alla Sala della Balla del Castello Sforzesco, una frase merita di essere sottolineata con particolare vigore, a conferma della conclusione a cui sono giunto: si tratta di una citazione da Gramsci, tratta dalla dichiarazione programmatica approvata nel 1956 dall’VIII Congresso del PCI. Eccone il testo: “La costruzione di una società socialista deve prevedere tanto la protezione e lo sviluppo dell’artigianato, quanto la collaborazione con una piccola e media produzione che, non avendo carattere monopolistico, può trovare in un regime socialista condizioni di prosperità per lunghi periodi prima del passaggio a forme superiori, sempre sulla base del vantaggio economico e del libero consenso” (9).
Fuori dai fumi del gergo marxista, è chiaro che “la collaborazione con la piccola e la media produzione” può essere necessaria alla “costruzione di una società socialista“; ma questa collaborazione può, nella migliore delle ipotesi, durare “per lunghi periodi“, ma non sempre, essendo inevitabile e auspicabile il “passaggio a forme superiori“, cioè – posto che lo scrivente è Gramsci – al socialismo e quindi al comunismo.
Tutto essendo oltremodo chiaro, spetta ora agli imprenditori piccoli e medi provare che hanno perfettamente inteso quanto si nasconde dietro la mossa comunista, mossa certamente diabolica, ma che non si sottrae alla regola enunciata nel proverbio secondo cui “il diavolo fa le pentole ma non i coperchi”… E la prima ragione di sospetto, per chi sa ancora un po’ di vernacolo, doveva venire dal nome della sala in cui si è preparata la trappola: non si è ricordato nessuno che “balla” vuol dire “bugia”?
GIOVANNI CANTONI
Note
(1) V. I. LENIN, L’estremismo, malattia infantile del comunismo, trad. it., Editori Riuniti, Roma 1970, 2 ed., pp. 9-10.
(2) Ibid., p. 115.
(3) Ibid., p. 106.
(4) Ibid., p. 58.
(5) IDEM, Memorandum a Georgy V. Cicerin, commissario per gli affari esteri, della fine del 1920 o inizi del 1921, cit. in Strategia sovietica in tempo di pace, a cura dell’Institute for the study of conflict, Londra febbraio-marzo 1973, trad. it. in Gli Stati, Roma aprile 1973, anno II, n. 13, p. 73.
(6) L. POHLE, Kapitalismus, in Handwörterbuch der Staatswissenschaften, 4ª ed., Jena 1923, vol. V, p. 584, cit. da ALESSANDRO CAVALLI nell’Introduzione a WERNER SOMBART, Il capitalismo moderno, UTET, Torino 1967, p. 20.
(7) Gv. 9, 1-3.
(8) Ibid., 5, 14.
(9) Riporto il testo dalla nota di CESARE ZAPPULLI, Le lusinghe del PCI agli imprenditori, in Il Giornale, 5-11-1974.