Per la Cassazione, l’indottrinamento islamista non è terrorismo. La posta in gioco.
Andria, 2008. Quattro tunisini di fede islamica si mostrano attivi nell’indottrinare loro correligionari al “martirio”, e scelgono come luoghi di esercizio la moschea della città pugliese dove uno di loro predica, e un call center gestito dalla stesso. E’ giudizialmente documentato che scarichino sui loro pc scene di guerra, di attentati terroristici e istruzioni per confezionare esplosivi, per raggiungere i luoghi di combattimento, per decifrare messaggi criptati. Sono giudizialmente documentati l’inserimento in rete da parte loro di incitazioni all’odio, in particolare verso gli ebrei, e la disponibilità di documenti falsi. I quattro sono assolti in primo grado dal delitto di associazione con finalità di terrorismo, vengono condannati in appello, e quindi assolti dalla Corte di Cassazione: la motivazione di quest’ultima sentenza, decisa il 14 luglio, è stata depositata tre giorni fa; la sentenza è la n. 48001. Spiega la Cassazione che l’indottrinamento, finalizzato al reclutamento e al viaggio in territori di guerra per dare man forte alla “causa islamica” non integra atti di terrorismo, il cui compimento costituisce lo specifico del reato di associazione terroristica: sono necessari atti materiali, così si legge nella motivazione, per essere certi che quella organizzazione ha finalità terroristica, essendo irrilevanti a tale scopo il possesso di documenti falsi, i video diffusi, l’apologia del “martirio”.
Non è certamente la prima pronuncia in materia che fa discutere. Sul terrorismo internazionale – e quindi di matrice islamica – da almeno 15 anni vari gradi di giudizio “producono” decisioni che provocano perplessità. Qui però sentenzia la Corte di Cassazione: i cui provvedimenti sono certamente opinabili, come ogni atto di uomo, ma non modificabili; non fanno escludere – è capitato non di rado – che nella stessa Corte un collegio diversamente composto giunga domani per casi analoghi a soluzioni opposte. Intanto però vi è un dato obiettivo col quale fare i conti: il giudice di legittimità ha stabilito in modo definitivo che persone che svolgono l’attività prima descritta non infrangono la legge.
Detto così non è corretto. Se quei fatti fossero commessi oggi probabilmente verrebbero puniti grazie a norme introdotte nella primavera 2015, quando un decreto legge, poi convertito in legge, ha sanzionato anche la “propaganda (di) viaggi in territorio estero” con scopi di terrorismo, e la condotta di chi “fornisce istruzioni sulla preparazione o l’uso di materiali esplosivi (…) per il compimento di atti di violenza (con finalità di terrorismo”: sono i nuovi articoli 270 quater e 270 quinquies del codice penale. Disposizioni applicabili ovviamente ai fatti commessi dopo la loro entrata in vigore, mentre ai quattro di Andria sono stati processati per fatti di sette anni prima. Però la questione non è archiviabile in modo semplice, dicendo che c’era un vuoto normativo, oggi è stato riempito e in futuro non accadrà più. Non lascia tranquilla l’esperienza giudiziaria dell’ultimo quindicennio, che in svariate sentenze ha regalato jahdisti battezzati come resistenti, e quindi assolti, gruppi terroristici inseriti nelle black list dell’Onu e dell’Ue considerati alla stregua di innocenti ong, predicatori di odio e incitatori ad atti di violenza descritti come soggetti che manifestano liberamente un’opinione.
Modifiche legislative di notevole impegno, varate nel 2001, nel 2005 (il c.d. decreto Pisanu, quello di maggiore ampiezza e articolazione) e da ultimo nel 2015, hanno reso l’ordinamento italiano fra i più completi nel contrasto al terrorismo, grazie anche alla esperienza maturata nel contrasto al terrorismo interno, e probabilmente il più adeguato. La sua caratteristica è che anticipa la difesa e il contrasto giudiziario già al momento della programmazione dell’attività terroristica: e non in via obbligatoria alla programmazione dettagliata, bensì pure a quella che “si limita” a formare i “martiri”, a indottrinarli, ad addestrarli. In quest’ottica, e con riferimento al quadro normativo che valeva per il 2008, la sentenza della Cassazione depositata qualche giorno fa si pone in una linea culturale differente: quello secondo cui per configurare l’associazione terroristica è necessario essere giunti quasi alle soglie dell’attentato; il che significa discostarsi dalla strada della difesa anticipata.
L’Italia ha dalla sua anche un’ottima esperienza di prevenzione, frutto del lavoro dei servizi e della collaborazione fra di esse e le forze di polizia; può vantare una consolidata capacità di raccordo, che – ai differenza di quanto accaduto anche di recente in altre Nazioni europee – non fa disperdere né energie né informazioni. La preoccupata attenzione nei confronti di sentenze come quella della Cassazione è qualcosa di diverso dalla critica aprioristica e “sostanzialistica”: il terrorismo si fronteggia con le armi del diritto, senza scorciatoie o corto circuiti. Se però l’orientamento che si è manifestato tre giorni fa dovesse consolidarsi, insieme col tratto culturale che sembra ispirarlo, la soluzione obbligatoria è l’intensificazione della prevenzione, e in particolare dell’utilizzo dello strumento della espulsione per gravi motivi di ordine pubblico disposta dal ministro dell’Interno: è stato usato di frequente negli ultimi anni, contribuendo al quadro d’insieme di efficacia dell’ordinamento italiano. Nella scelta da parte dello Stato se sottoporre a un giudizio dall’esito incerto un soggetto che ha sicuramente – come i quattro di Andria – tenuto comportamenti prodromici all’attività terroristica – e mandarlo via il prima possibile dal territorio nazionale, il secondo tutela di più. Non del tutto: quel signore tenterà di tornare indietro, magari ci riuscirà pure. Ma per lo meno non gli si fa proseguire in Italia qualcosa di pericoloso anche per l’Italia.
La moltiplicazione di questa modalità di espulsione può porsi di traverso con processi penali in corso? Certamente, e con l’esigenza dei magistrati che li seguono di non farsi sfuggire gli indagati/imputati. Ecco, un indispensabile terreno di lavoro nell’immediato è, nel rispetto delle competenze di tutti e dell’autonomia di ciascuno, avviare sul punto un confronto istituzionale serio fra il sistema sicurezza e il sistema giustizia, e provare a raggiungere un equilibrio altrettanto serio fra le logiche che ispirano l’uno e l’altro. La posta in gioco non è chi ha ragione, e quindi quale logica deve prevalere, ma quante stragi si possono evitare. Fuori e dentro l’Italia.
Alfredo Mantovano
Tratto dal “il Foglio” del 17 novembre 2016.