Giovanni Cantoni, Cristianità n. 46 (1979)
“Punti chiari” sulla “politica del confronto”
La «lunga marcia» del Partito Comunista Italiano attraverso la società e verso il governo sembra, forse, sul punto di giungere al suo termine. Infatti, la richiesta di passare dalla semplice gestione del potere reale sulla società alla titolarità del potere stesso, cioè al governo, è stata avanzata perentoriamente dal segretario del Partito Comunista, on. Enrico Berlinguer, ed è alla origine della crisi di governo e di una possibile tornata elettorale, previo scioglimento anticipato delle camere.
Quali che siano gli esiti della congiuntura politica nazionale – ricomposizione di un governo Andreotti, rinnovando o aggiornando i patti del mano 1978, oppure ricorso alle elezioni anticipate – è di interesse non volgare – per chi non si rassegni facilmente a storici e fatali eventi, o voglia almeno viverli da uomo, cioè con la massima consapevolezza – prendere visione di recenti e passate dichiarazioni dell’on. Giovanni Galloni, capogruppo democristiano a Montecitorio ed ex vicesegretario del partito.
1. Punti chiari
Rispondendo su Il Popolo, quotidiano della Democrazia Cristiana, a un articolo del direttore de L’Unità, Alfredo Reichlin, l’on. Galloni scrive che l’irrigidimento comunista – che si riassume nella formula alternativa: il PCI, o al governo, o alla opposizione – non è motivato per diverse ragioni, che passa a esporre dettagliatamente (1).
In primo luogo, il rifiuto democristiano di introdurre il Partito Comunista nella compagine governativa non implica rifiuto di dare e riconoscere potere al Partito Comunista stesso: «il peso comunista si è sentito […] sia sulle decisioni del governo che sulla formazione della volontà del Parlamento».
In secondo luogo, inoltre, tale rifiuto non comporta un giudizio di illegittimità democratica sul Partito Comunista Italiano: infatti, «la legittimità democratica del PCI […] era ed è implicita come fatto che risulta dalla storia parlamentare dell’ultimo trentennio e dalla reale e non contestata presenza comunista nella società». Il problema, ribadisce l’on. Galloni, è solo e semplicemente relativo alla titolarità del governo: «Certo – prosegue –, il discorso sarebbe diverso se noi dicessimo o avessimo detto per principio: mai il PCI al governo. Ma questo discorso, se pur l’abbiamo fatto (e non lo abbiamo certamente fatto all’inizio della esperienza democratica) è stato di gran lunga superato. La scelta se collaborare o meno con i comunisti al governo è oggi una scelta politica e non ideologica; essa deve essere valutata quindi sul terreno politico e non su quello dei principi».
In terzo luogo, infine, continua l’on. Galloni, l’irrigidimento comunista non è sufficientemente motivato perché «questa scelta politica [cioè quella relativa alla collaborazione o meno con i comunisti al governo] non l’abbiamo compiuta ora, ma l’abbiamo compiuta con Moro e fa parte integrante della sua linea». Perciò, insiste l’esponente democristiano, oggi non facciamo altro che confermare «l’orientamento di un anno fa che vedeva realizzato nella vasta maggioranza parlamentare costituitasi il massimo di solidarietà nazionale ritenuto possibile». Il non inserimento del Partito Comunista nel governo comporta, nonostante ogni apparenza contraria, un richiamo alla «linea Moro», e «non solo a parole, ma anche nel suo significato politico di superamento di ogni forma di discriminazione o di negazione della legittimità democratica del PCI, quando la mancata partecipazione di questo partito al governo viene giustificata sulla base di valutazioni intorno alla sussistenza di condizioni politiche e non ideologiche o di principio». «Il nostro punto di vista – conclude l’on. Galloni – […] è che l’anticipazione dei tempi storici prima che siano maturate le condizioni necessarie, anziché favorire un allargamento della democrazia e della partecipazione, produca il suo contrario: una rottura di gran lunga più traumatica nel Paese tra le forze costituzionali da un lato e accresciute forze extra o antiparlamentari dall’altro che potrebbero rendere più arduo il compito di battere l’eversione».
Come si può facilmente notare, la esposizione dell’esponente democristiano è perfettamente chiara e tale da rendere superfluo ogni commento: per la dirigenza della Democrazia Cristiana il Partito Comunista Italiano non è un avversario ideologico, ma soltanto, eventualmente, un concorrente politico, cui si è disposti a concedere – e di fatto si concede – il potere, ma si invita a pazientare per quanto riguarda la formalità dell’ingresso nel governo, in attesa di più felice congiuntura storica, dichiarando che più di così non si poteva fare, che non si è «pentiti per i passi in avanti già compiuti», ma prospettando e paventando i guasti che potrebbero derivare da una accelerazione sulla «linea Moro».
Chiunque avesse, più o meno ingenuamente, creduto di trovarsi di fronte a un ripensamento di tale «linea», e a un irrigidimento democristiano su una frontiera ipoteticamente dichiarata invalicabile, è adeguatamente e inconfondibilmente illuminato in proposito dalle parole del leader democristiano: tale frontiera non esiste e ogni ritardo nella realizzazione del programma è solamente prudenziale.
2. La «politica del confronto»
Del resto, in termini più sintetici e forse per questo un poco più enigmatici – ma non troppo! – si era già espresso lo stesso uomo politico in una intervista rilasciata al Corriere della Sera (2). Alla domanda: «[…] sembra che la DC, in questi ultimi tempi, si sia irrigidita. Si è modificata la linea del confronto?», rispondeva: «No, questa è un’impressione sbagliata. Il confronto infatti è valido non quando la DC è cedevole ma quando sostiene le proprie tesi con vigore ma anche con disponibilità ad arrivare all’accordo. Il confronto non vuol dire cedimento in partenza». Inoltre, richiesto di una definizione della «linea del confronto» e se fosse un «metodo», così esponeva la tesi democristiana: «Il confronto non si attua con un irrigidimento della DC sulla sua tradizione moderata ma sulla sua tradizione cattolico-democratica e popolare. Il confronto può avere momenti di asprezza ma ha un risultato positivo se è guidato, dall’interno della DC, su una linea aperta». E ancora: «No, non è solo un metodo, è una politica, una linea politica che ha un obiettivo strategico: l’allargamento della democrazia, cioè la soluzione della questione comunista in Italia in un congruo periodo di tempo».
Nessun equivoco, a questo punto, è veramente più possibile, dal momento che sia i mezzi – la lenta e prudente attuazione della «politica del confronto» – che il fine – «la soluzione della questione comunista in Italia» attraverso la consegna del governo del paese ai comunisti – sono illuminati da una luce meridiana, nella prospettiva di «cambiamento di tutti i partiti ed in modo particolare del PCI e della DC» (3).
A questo punto, quindi, è poco rilevante la eventuale rinascita della fenice-Andreotti dalle sue ceneri o il ricorso a elezioni anticipate. In ogni caso si tratta, molto semplicemente, di tappe sulla «linea Moro», con o senza verifica elettorale della realizzabilità storica del fatale compromesso: comunque, di «cedimento in arrivo»!
3. Il marx-rodanismo in letargo
Così definito l’orizzonte, a ragione qualcuno è tornato a parlare di Franco Rodano e della sua prospettiva politica (4). Infatti, nel Partito Comunista «anche gli avversari più convinti della gestione Berlinguer, della “diplomatica” linea di condotta della segreteria dopo le elezioni del 20 giugno ‘76, ritengono – questo è il punto – che la lunga marcia del Pci verso il potere comporti ancora tappe importanti da percorrersi accanto alla Dc. La rottura di questi giorni, anche se dovesse approfondirsi fino a provocare elezioni politiche anticipate, non viene considerata e desiderata come definitiva se non dagli isolati superstiti della “vecchia guardia” secchiana. Gli adoratori dell’immagine del partito pensano ad Anteo, il gigante che riacquistava forze nuove nella rotta sdraiandosi un attimo a terra: una bella campagna elettorale contro la corruttela democristiana galvanizzerà per qualche mese cellule e sezioni, dopo tanto mordere il freno […]. Il macchiavello è rompere ora con la Dc per stringere dopo le elezioni, distrutte le forze intermedie, indisturbati accordi di governo con i democristiani.
«Se queste sono le prospettive, il marx-rodanismo, mortificato dalle gelate di gennaio, viene accuratamente conservato in serra per l’immancabile rifioritura della non lontana primavera» (5).
4. «Questione comunista» e «questione democristiana»
La lettura dei fatti e le conseguenti deduzioni mi sembrano assolutamente corrette, e una conclusione si impone, almeno provvisoriamente: se «la soluzione della questione comunista in Italia» comporta, per la dirigenza democristiana, lo sviluppo della «politica del confronto», tesa a organizzare l’ingresso indolore del Partito Comunista nel governo, per gli anticomunisti alla «questione comunista» se ne prepone un’altra, la «questione democristiana», alla cui definizione – e, quindi, almeno parziale soluzione – potrebbe e dovrebbe contribuire in modo non irrilevante l’autorità ecclesiastica (6).
Nell’articolo de Il Popolo, infatti, l’on. Galloni dichiara che la Democrazia Cristiana non è disposta a mutare i propri principi. Dal momento che il partito dell’on. Galloni vanta una «ispirazione cristiana», perché non procedere a un pubblico esame di tali principi, previa una loro sempre pubblica esposizione, alla luce di quella dottrina sociale della Chiesa, la cui vigenza – né poteva essere diversamente, trattandosi di «parte integrante della concezione cristiana della vita» (7) – ci ha apertamente e non allusivamente confermato il regnante Pontefice, Giovanni Paolo II, nel discorso di Puebla? (8).
Giovanni Cantoni