Oscar Sanguinetti, Cristianità n. 420 (2023)
Nella storia del conservatorismo tradizionalista a un certo punto si crea una biforcazione fra il tradizionalismo contro-rivoluzionario e il tradizionalismo che potremmo definire «positivistico». Semplificando, il primo combatte per la restaurazione di un ordine legittimo, conforme alla legge naturale e alla tradizione, ma non vincolato da questa o da quella forma di regime né da questa o da quella dinastia; l’altro assume l’architettura dell’ordine pre-rivoluzionario, la tarda cristianità, come archetipo, come un modello di civiltà fondato su princìpi coerenti con l’antropologia naturale e, quindi, replicabile in qualunque situazione da parte di chiunque, «laico» o cattolico. Di quella grandiosa fusione fra spirito sovra-mondano e apprezzamento gioioso della realtà creata, che è stata la cristianità occidentale storica, questa filosofia politica estrae il «midollo» naturale e ne fa un format o uno specimen da cui una forza politica potrebbe trarre il suo programma, come fosse uno strumento politico buono per tutte le stagioni. In altre parole, se la cristianità si fonda sulla fede e sul diritto naturale — che non è quello di Ugo Grozio (1583-1645) e di Samuel von Pufendorf (1632-1694), basato sul principio dell’«etsi daremus Deum non esse», «anche se Dio non esistesse» —, questa forma di tradizionalismo ripropone un ordine civile giustificato nei suoi presupposti e nella sua morfologia esclusivamente da ragioni di ordine naturale, di razionalità, depurandolo dall’elemento del credere.
L’esponente forse più illustre di questa destra «positivistica» è stato lo scrittore e uomo politico francese Charles Maurras (1868-1952), un uomo dalle idee affascinanti e dalle prese di posizione radicali, le cui teorizzazioni in ambito politico hanno segnato la destra francese sino a tempi recenti. Nella sua formazione egli aveva assimilato elementi del pensiero contro-rivoluzionario francese classico — Joseph de Maistre (1753-1821), Louis de Bonald (1754-1840) e i primi pensatori cattolici «sociali», come Frédéric Le Play (1806-1882) e René de La Tour du Pin Chambly (1834-1924) —, ma subìto nel contempo anche forti influssi da parte della filosofia positivistica — così la aggettiveranno gli storici del pensiero — di Auguste Comte (1798-1857), di Hippolyte Taine (1828-1893) e di Ernest Renan (1823-1892), autori di impronta più o meno conservatrice, ma decisamente «laica». Costoro avevano studiato la Rivoluzione del 1789 confrontando il mondo da essa scaturito con quello precedente, il cosiddetto «antico regime», avevano individuato le «linee di forza» che lo avevano creato e ne avevano apprezzato la «fisiologicità» — la conformità a una corretta antropologia — delle sue istituzioni sociali. Tuttavia, le loro argomentazioni in tema di filosofia politica e il loro disegno di un mondo alternativo all’ordine liberale post-1789, pur quanto mai calzanti — e, talora, incalzanti — e pur seducenti, vedevano gli aspetti religiosi di tale ordine solo in chiave sociologica, come un annesso della cultura nazionale, sottovalutando un aspetto capitale: se una cristianità era nata, essa era stata il prodotto di uno sforzo di conversione profondo — e multiforme nella sua genesi — dei popoli europei al cristianesimo.
Sotto questo duplice ed eterogeneo influsso Maurras — che a lungo si è collocato nello schieramento «laico» della politica francese — riscopre la monarchia francese e rivaluta la sua struttura organica e decentrata, sia come modello di un ordine «naturale» e benefico, sia come paradigma antagonistico rispetto a quello della repubblica radicale, nata nel 1792, che dominava ai suoi tempi.
Maurras idealizza l’ossatura della monarchia francese, riflesso maturo — e invecchiato — della cristianità medioevale, e finisce non solo per assumerne la costituzione «fisiologica» e corporata — che pur descrive e difende polemicamente in termini corretti, quando non felici — come programma politico per la Francia del suo tempo, ma nel contempo l’associa, quando non la subordina, al nazionalismo francese, in lui mai sopito. Ma il nazionalismo del suo tempo è quello di Édouard Drumont (1844-1917), una ideologia venata di romanticismo, di incipiente razzismo e anti-semitismo — una cultura, come il nazionalismo, nata in realtà all’interno della sinistra repubblicana e socialista (1) — e di virulento revanscismo anti-germanico (2).
L’Action Française, il movimento politico-culturale che egli con altri fonda nei primi anni del Novecento, animerà anche attivisticamente l’opposizione da destra alla Terza Repubblica francese, sempre più ipotecata dal radicalismo «neo-giacobino» e dalle sinistre socialiste. Soprattutto dopo la vittoria francese nella Grande Guerra (1914-1918), l’associazione conoscerà un vasto successo popolare — la rivista omonima del movimento toccherà le centomila copie stampate —, specialmente fra i cattolici, anche se Maurras si dichiara agnostico e non credente, sebbene pare si sia convertito nell’imminenza della morte (3).
Proprio in questi anni di grande influenza sulla destra e sulla nazione francesi egli incorrerà nelle censure ecclesiastiche. Papa san Pio X (1903-1914), infatti, condannerà alcuni suoi scritti letterari già messi all’indice al momento dell’uscita, mantenendo però segreta la censura per evitare di dividere i cattolici francesi in una situazione in cui maturava sempre più chiaramente il primo conflitto mondiale. La sentenza sarà pubblicata da Papa Pio XI (1922-1939) nel 1926 e le congregazioni vaticane si incaricheranno di applicarla canonicamente, dando alimento a una campagna di rara violenza contro i suoi aderenti e simpatizzanti di cui sarà artefice la «sinistra» ecclesiale con l’appoggio della sinistra politica. Le censure contro Maurras saranno rimosse dal Papa venerabile Pio XII (1939-1958) alla vigilia della seconda guerra mondiale, nel luglio del 1939.
La vicenda non è solo un capitolo dello scontro fra Rivoluzione e Contro-Rivoluzione nella società civile e nella Chiesa, ma può essere ritenuta un esempio, un modello — fatte salve le buone intenzioni, e Maurras ne ebbe di sicuro — di apologia della cristianità europea in chiave naturalistica e a fondo strumentale, vedendola come ricetta per sanare le «patologie» sociali del Novecento senza esigere, almeno in tesi, alcun cambiamento nella mentalità e nella condotta morale dell’homo europeus.
Quello di Maurras era un errore foriero di gravi conseguenze. Pensiamo a due simboli dell’architettura sociale che affascinava lo scrittore francese: da un lato, lo splendore delle cattedrali medioevali e, dall’altro, in una prospettiva più direttamente politica, l’Allegoria ed effetti del Buono e del Cattivo Governo, il ciclo trecentesco di affreschi di Ambrogio Lorenzetti (1290 ca.-1348), conservato nel Palazzo Pubblico di Siena (4). Ecco: quello che a Maurras sfuggiva, quell’aspetto che gli rimarrà estraneo, sarà che la cattedrale e il «buon governo», come dice il noto brocardo, «simul stabunt aut simul cadent», cioè non sono pensabili autonomamente. Le cattedrali sono il frutto maturo di un «buon governo» e il buon governo ha luogo solo in una società convertita. Il cristianesimo è stato il vero fermento da cui è germinata la civiltà cristiana ed è stato altresì il «mastice» che l’ha tenuta mirabilmente insieme per oltre cinque secoli, nonostante i mille conflitti che l’hanno attraversata, e il propulsore che ne ha promosso lo sviluppo su scala globale.
La civiltà cristiana in Occidente è nata in assenza di quadri normativi esterni che non fossero spezzoni di romanità e influssi del diritto consuetudinario «barbarico». Alla sua origine non vi è stato un principio ordinatore secolare, ma è nata sostanzialmente «dal basso», seguendo il dettato della legge di natura e dei Dieci Comandamenti, illuminato e fecondato dal Vangelo di Gesù Cristo. L’«illuminismo» cristiano, caro a Joseph Ratzinger (1927-2022)-Benedetto XVI (2005-2013) (5), ha fatto da discernimento e da lievito sia nei confronti del lascito romano, sia delle nuove culture «giovani» sopravvenute, depurando entrambi dalle incrostazioni e dalle storture prodottevi dalla tradizione non cristiana e iniettando in essi lo spirito evangelico, reso ancor più efficace dall’assimilazione della cultura del logos, quella greca. Qualcuno, infatti, ha definito felicemente la cristianità — e l’Europa moderna che, pur contrapponendovisi, ne ha conservato l’eredità nelle sue vene più profonde — come la fusione di Roma, di Atene e di Gerusalemme (6), a cui mi permetterei di aggiungere un quarto locus topicus, che non è una città — quella germanica è una cultura di popoli migranti —, bensì la selva teutonica che tanto influenzerà l’architettura del «gotico fiammeggiante» delle cristianità dell’Europa settentrionale.
Ebbene, se questa civiltà durerà per almeno cinque secoli e ne impiegherà altrettanti per declinare e sparire, la sua «lunga durata» si spiega solo, ribadisco, con il fatto che la sua fonte, il suo alimento, i suoi meccanismi etici derivavano da qualcosa di «metapolitico»: dal Vangelo e dall’autorità spirituale, magisteriale e morale della Chiesa di Roma. Senza questo humus, senza questo «zoccolo duro», senza questo «concime» è impensabile che la cristianità sarebbe stata o sarebbe durata così a lungo.
Oggi, il presente appare sempre più fosco e imbarbarito e il modello della civiltà medioevale rifulge ancora più nitido per contrasto. È possibile, quindi, che qualcuno bene intenzionato — dal momento che la fede cristiana è ormai un credo di minoranza e non volendo sobbarcarsi lo sforzo spirituale e il sacrificio, non di rado anche il «costo umano», che l’edificazione della cristianità ha comportato — sia tentato di rilanciarne il modello nella stessa logica di Maurras, assumendone la medesima prospettiva riduttiva e «laica». Ma una riproposta del genere, che non metta in bilancio il ritorno al Vangelo e al «principio e fondamento» che apre e fonda gli Esercizi spirituali di sant’Ignazio di Loyola (1491-1556), è pura velleità e sforzo destinato a nullificarsi. Certo, sotto qualunque architettura politica buona si vive meglio (7), ma la vita temporale è solo, come insegnava il filosofo stoico Lucio Anneo Seneca (4 a.C.-65), l’«utero» da cui germinerà — con analoghi dolori — una vita nuova, la vita eterna. Un ordine politico conforme a natura deve rendere possibile e agevolare questa «seconda nascita», la nascita al cielo. «Queste tappe della vita mortale — scrive il filosofo stoico — sono una preparazione a quell’altra vita migliore e più lunga. L’utero materno ci ospita per nove mesi e ci prepara non per sé, ma per quel luogo in cui veniamo alla luce già capaci di respirare e di resistere all’aria aperta; allo stesso modo in questo periodo che dall’infanzia si estende alla vecchiaia maturiamo per un altro parto. Ci aspetta un’altra nascita, un altro stato di cose» (8).
Conversione e cristianità, come detto, vanno insieme: non vi sarà mai restaurazione, riforma della civiltà occidentale, se non vi saranno prima la riforma personale e uno sforzo di ascesi sociale, cioè di conformazione, in re et in spiritu, alla dottrina sociale del cattolicesimo.
Oscar Sanguinetti
Note:
1) Sul tema cfr., per esempio, Michel Dreyfus, L’antisemitismo a sinistra in Francia. Storia di un paradosso (1830-2016), nota di Vincenzo Pinto, trad. it., Free Ebrei, Torino 2018; nonché Zeev Sternhell (1935-2020), La destra rivoluzionaria. Le origini francesi del fascismo. 1885-1914, trad. it., con una nota introduttiva di Sergio Romano, Corbaccio, Milano 1997; infine, Marco Gervasoni, La Francia in nero. Storia dell’estrema destra dalla Rivoluzione a Marine Le Pen, Marsilio, Padova 2017, pp. 87-96.
2) Sul punto cfr: «Solo alla fine del XIX secolo una nuova dottrina politica s’installa nel paesaggio ideologico sotto il nome di “nazionalismo”, ma dissimulando dietro questa denominazione vaga uno strano tentativo di sintesi fra una visione tradizionalista dell’ordine sociale, una versione scientista della “teoria della razza” e una concezione cospirazionistica del nemico (ebrei, massoni, ecc.), da cui deriva l’appello xenofobo a difendere con tutti i mezzi la nazione francese minacciata, la «vieille France» (Drumont), la «France des Français» (Soury). Questa è l’immagine del nascente nazional-razzismo alla francese, un razzismo arianista integrato nel nazionalismo» (Pierre-André Taguieff, L’invention racialiste du Juif, in Raisons politiques. Études de pensée politique, anno II, n. 5, Parigi gennaio-marzo 2002, pp. 29-51; trad. red.).
3) Cfr. Paolo Ambrogio Sgarbella, La conversione di Maurras, in Vita e Pensiero, anno XXXVI, n. 10, ottobre 1953, pp. 542-545.
4) Cfr. Il «Buon Governo» negli affreschi di Ambrogio Lorenzetti della Sala dei Nove o Sala della Pace in Palazzo Pubblico a Siena, n. monografico di Cristianità, anno XXXVI, n. 345, gennaio-febbraio 2008.
5) Cfr. «E per questo dobbiamo continuare ad annunciarlo [il Vangelo] a quei regimi di terrore che sono spesso le religioni non cristiane. Dirò di più: la cultura atea dell’Occidente moderno vive ancora grazie alla libertà dalla paura dei demòni portata dal cristianesimo. […] se questa luce redentrice del Cristo dovesse spegnersi, pur con tutta la sua sapienza e con tutta la sua tecnologia, il mondo ricadrebbe nel terrore e nella disperazione» (Vittorio Messori, Rapporto sulla fede. A colloquio con il cardinale Joseph Ratzinger, Edizioni Paoline, Torino 1985, p. 145).
6) Cfr. Benedetto XVI-Joseph Ratzinger, La vera Europa. Identità e missione, introduzione di Papa Francesco, a cura di Pierluca Azzaro e Carlos Granados, Cantagalli, Siena 2021.
7) A sostegno della tesi secondo la quale il regime di governo — non la forma dello Stato o il tipo di sovranità o il metodo elettivo dei rappresentanti — non è indifferente per i cristiani, immortali rimangono le parole di Papa Pio XII: «Dalla forma data alla società, consona o no alle leggi divine, dipende e s’insinua anche il bene o il male nelle anime, vale a dire, se gli uomini chiamati tutti ad essere vivificati dalla grazia di Cristo, nelle terrene contingenze del corso della vita respirino il sano e vivido alito della verità e della virtù morale o il bacillo morboso e spesso letale dell’errore della depravazione» (Radiomessaggio per la Pentecoste 1941 nel cinquantesimo anniversario della «Rerum novarum» [di Leone XIII (1878-1903)], del 1°-6-1941, n. 3).
8) Lucio Anneo Seneca, Lettere morali a Lucilio, libro XVII, n. 23.