Anche di fronte ai recenti scandali la sinistra rispolvera le tesi di Berlinguer sulla superiorità antropologica della sinistra. Gli eredi del PCI farebbero meglio, invece, ad avvedersi di come la corruzione morale che dilaga nel mondo della politica e della società non sia altro che la fedele applicazione delle loro idee
di Renato Veneruso
Un’inchiesta della magistratura belga, denominata “Qatargate”, sta agitando il mondo della sinistra, in particolare quella italiana, cui appartengono gran parte degli inquisiti. L’indagine penale ha per oggetto un’ipotesi di corruzione da parte del Qatar, che avrebbe pagato tramite l’ambasciatore del Marocco chi, in virtù del proprio mandato (ovvero della propria capacità di lobbying) di influenzare le decisioni degli organi della UE, poteva ‘ripulire’ politicamente l’immagine internazionale dell’emirato.
Il soft power dei Paesi arabi, cioè la loro influenza geopolitica e propagandistica, si nutre dei petrodollari degli emiri e spazia dal calcio alla più tradizionale attività di promozione del turismo o di attrazione della finanza e delle imprese occidentali, libere dalla normativa antiriciclaggio di casa propria, nelle nuove skylines che si affacciano sul mar arabico, ma l’accusa di ridurre in schiavitù gli immigrati avrebbe danneggiato inevitabilmente gli affari nel Golfo persico.
In assenza di condanne nette e sinceri mea culpa da parte dei rappresentanti dei partiti coinvolti, la reazione è arrivata dagli “intellettuali” della sinistra, i quali hanno individuato in una generale perdita della moralità politica la fonte della crisi di sistema che li riguarderebbe.
C’è stato chi, lamentando il favore fatto alla destra “euroscettica”, ha denunciato «la denigrazione sistematica della cultura, la demonizzazione della competenza, l’epica dell’uomo qualunque a rappresentare l’uomo qualunque» (Concita De Gregorio). Altri, come Federico Geremicca, più acutamente, hanno invece richiamato l’antica lezione di Enrico Berlinguer, segretario generale del Partito Comunista Italiano (PCI) dal (1972-1984) sulla «questione morale come tema ineludibile per il PCI e per il Paese», linea poi autorevolmente sostenuta dal direttore de ‘La Stampa’, Massimo Giannini, il quale ha dedicato il proprio fondo di domenica 18 dicembre a “La questione morale. Da Berlinguer alla ‘ditta’”.
I più anziani ricorderanno la famosa intervista resa proprio da Enrico Berlinguer al direttore de La Repubblica, Eugenio Scalfari, il 28 luglio 1981, nella quale il politico sardo, riecheggiando una precedente intervista ad Alfredo Reichlin sulle colonne del giornale di partito, L’Unità (7 novembre 1980), si lamentava del fatto che «i partiti non fanno più politica … i partiti hanno degenerato e questa è l’origine dei malanni d’Italia … I partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela … Gestiscono interessi, i più disparati, i più contraddittori, talvolta anche loschi, comunque senza alcun rapporto con le esigenze e i bisogni umani emergenti, oppure distorcendoli, senza perseguire il bene comune». Dopo avere vantato la presunta diversità del Partito comunista, in ragione della sua altrettanto presunta lotta al privilegio, Berlinguer accusava direttamente il sistema capitalistico: «Noi pensiamo che il tipo di sviluppo economico e sociale capitalistico sia causa di gravi distorsioni, di immensi costi e disparità sociali, di enormi sprechi di ricchezza». Secondo il segretario del PCI, «non basta più chiedere la caduta della pregiudiziale anticomunista. A questo punto siamo noi, insieme con la parte sana del paese, che non possiamo non porre una questione pregiudiziale: cioè la questione morale».
Berlinguer era, in realtà, preoccupato non della de-moralizzazione in sé delle istituzioni, quanto del fallimento dei propri tentativi di arrivare al potere a causa della dissoluzione degli elementi costitutivi della nazione. I mali che si volevano combattere con il comunismo erano, però, frutto della stessa cultura sovversiva propria della Rivoluzione, egemonizzata in quel momento dal medesimo Partito comunista.
La vera lezione che sembra potersi trarre dalla ‘questione morale’ del Qatargate è che una morale che ha reciso i suoi legami costitutivi con i fondamenti veritativi degenera inevitabilmente in moralismo, che culmina ai nostri giorni nella cancel culture. Solo il recupero di una morale autentica, almeno naturalmente agganciata al principio di realtà, potrà aiutare a rendere meno permeabili alla corruzione i titolari della cosa pubblica, nella consapevolezza, peraltro, della strutturale fallibilità dell’uomo post peccatum.
Mercoledì, 28 dicembre 2022