La guerra in Ucraina richiama in causa la questione delle radici spirituali e culturali del Continente
di Renato Veneruso
U’krajina: ai confini. E’ questa la traduzione dell’etimo slavo che indica i territori che sono stati, invero, il cuore della prima Rus’, la Russia di Kiev, che si costituì come nazione cristiana nel 987 all’esito della conversione del principe Vladimir (nomen non omen, in questo caso!), indotto alla conversione dalla moglie bizantina, e con lui -come usava ai tempi- di tutti i sudditi, che erano il popolo discendente dalla migrazione, lungo il corso del Volga, dei varieghi dall’antica Scandinavia, il cui colore biondo dei capelli diede il nome di ‘russo’ alla nazione.
Dopo lo scisma della Chiesa d’Oriente, consumatosi sul Filioque del Credo latino (che predica il ‘procedere’ dello Spirito Santo anche dal Figlio, così in qualche modo subordinando -secondo gli orientali- la terza persona della Trinità) nel 1054 e, soprattutto, dopo l’invasione mongola delle terre russe nel XIII secolo e la conseguente decadenza di Kiev, costretta ad offrire il tributo ai tartari invasori (nihil sub sole novi?), il principato ortodosso spostò la propria capitale e, quindi, il centro prima a Novgorod e, poi, a Mosca, quindi molto più ad ovest (San Pietroburgo).
L’Ucraina diventa, così, terra di confine fra Occidente ed Oriente, tra l’Europa cattolica (poi anche protestante) e quella ortodossa, contesa fra quello che sarà l’impero zarista e quello asburgico, ma sempre nel cuore dell’Europa.
Come, infatti, insegnato da san Giovanni Paolo II, il Papa polacco che riporta i confini orientali dell’Europa agli Urali, ricomprendendovi appunto anche la Russia, nella lettera enciclica del 1985 Slavorum Apostoli, l’Europa cristiana è tale grazie ai due polmoni rappresentati dall’Occidente, il cui santo patrono è Benedetto, e dall’Oriente, i cui santi patroni sono gli evangelizzatori Cirillo e Metodio. Ma l’Europa è una, e l’Ucraina ne rappresenta, per tali evidenti ragioni storiche e geografiche, il centro.
Se si tiene conto di tale indispensabile premessa, sarà più agevole comprendere la tragedia culturale ed istituzionale, oltre che umana e sociale, dell’attuale conflitto, il cui portato geopolitico tanto risente dei contrasti di cui nei secoli questa terra è stata, spesso involontaria, protagonista.
Sarà, altresì, più facile capire anche perché l’Europa, intesa come UE – Unione Europea, abbia reagito con invero inusuale compattezza a fronte delle emergenze imposte dall’‘operazione speciale’ di Putin in Ucraina e perché, all’interno della UE, siano stati soprattutto i “Paesi di Visegrad” (Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia) a manifestare il maggiore impegno a favore degli ucraini aggrediti, fino al punto che i rispettivi premier hanno fisicamente portato la loro solidarietà a Zelensky a Kiev, raggiunta via treno sotto le bombe russe.
Tra tali Paesi spicca, in particolare, lo straordinario esempio di solidarietà della Polonia nell’accoglienza offerta ai profughi ucraini, che, letteralmente a milioni, stanno fuggendo dal proprio Paese attraverso la frontiera polacca.
La stessa Polonia accusata dal Parlamento di Bruxelles di violare le regole del cd. ‘stato di diritto’, che per questo si è vista sospendere dalla Commissione europea l’erogazione iniziale dei contributi del NEXT Generation UE, in realtà colpevole solo di declinare il proprio ordinamento giuridico con il richiamo ai valori tradizionali della propria identità nazionale.
L’apparente paradosso risiede, allora, nella circostanza che, a fronte del sussulto di unità europea derivante dalla crisi della guerra ai suoi confini, che non solo la lambisce ma rischia di degenerare in un conflitto ben più ampio che la coinvolga direttamente, tale rinnovata unione di intenti a livello di istituzioni europee non si accompagni al superamento dell’avversione ideologica, invece niente affatto tramontata, nei confronti di quegli Stati membri che vengono presentati come “euroscettici” e che, invece, stanno appunto dando il maggiore esempio di coerenza con la storia europea, pretendendo di riaffermare che l’Europa è una dall’Atlantico agli Urali.
E’ in effetti chiaro, tranne a chi voglia continuare a leggere la storia con le lenti deformanti dell’ideologia, che la disponibilità, concreta e straordinaria, di Varsavia in tale opera nasce non tanto e non solo dalla preoccupazione di avere il tradizionale invasore russo alle porte (la Polonia è antica nazione, rimasta senza Stato dalla fine del XVIII secolo fino alla fine della Prima guerra mondiale e, poi, di fatto, soggiogata all’Unione Sovietica comunista per 45 anni, dalla fine della Seconda guerra mondiale alla caduta del muro di Berlino nel 1989), quanto dalla capacità di riconoscere, negli ucraini che fuggono, i fratelli europei cui era stata riservata la loro stessa sorte e che nuovamente si vuole privare, dopo l’indipendenza acquisita nel 1991, della libertà di aderire a quell’Europa di cui sono culturalmente e geneticamente sempre stati parte.
E’ giusto e lodevole, dunque, che la responsabilità di ampliare le istituzioni europee verso est ricada sui Paesi orientali dell’Unione, che a loro si è recentemente allargata. Quei Paesi sono in grado di apprezzare di più i valori autenticamente ed identitariamente europei perché anch’essi li hanno visti conculcare per molto tempo.
Quanto, poi, insufficiente sia stato offrire alla stessa Russia “de sovietizzata” (Russia anch’essa, seppure a diverso titolo, parte della medesima Europa) solo il modello ‘McDonald’s’ del turbo-capitalismo degli anni ’90, e quanto la crisi antropologica della fine del comunismo meritasse di essere curata, non con la narrazione della fine della Storia, bensì con il recupero della storia europea e dei suoi valori massacrati dalla modernità (da ultimo anche sovietica), è altra questione, che forse sarebbe il caso di approfondire per darsi risposte più articolate rispetto ad una mera diagnosi psichiatrica alla domanda sul perché l’orso russo abbia ripreso le sembianze dell’aggressore.
Martedì, 22 marzo 2022