Giovanni Cantoni, Cristianità n. 215-216 (1993)
Da un articolo di padre Giuseppe De Rosa S.J. elementi per mettere a fuoco lo stato attuale del problema politico dei cattolici italiani.
Dire che la vita della nazione italiana è immersa nella confusione e in essa va sprofondando significa affermare l’ovvio, quindi — di fatto — non portare alcun particolare contributo al chiarimento, che non sia quello dell’enunciazione di un asserto socialmente condiviso. Né migliora la qualità del contributo articolare la descrizione della confusione in culturale, politica, sociale ed economica. Ma quando, nel dibattito generale o settoriale, si fanno singole asserzioni vere, immediatamente almeno un aspetto della situazione si illumina, e questo accade non solamente quando vengono affermate verità di principio, ma anche quando sono presentate verità di fatto.
1. In questa prospettiva va dato merito a padre Giuseppe De Rosa S.J., un merito conquistato dal noto pubblicista gesuita con un articolo comparso nel marzo del 1993 con il titolo impegnativo Sì, una nuova Dc sta già rifondandosi (1). Perché il vero affermato appaia con la massima chiarezza, comincio da quanto è tanto discutibile da rasentare il falso, cioè dal “falsosimile”, dalla descrizione favolistica della storia della Repubblica Italiana e del suo rapporto con il regime dei partiti politici.
Infatti, l’articolo si apre con un esame del sistema politico italiano, nel quale i partiti avrebbero avuto “[…] una profonda evoluzione che ne ha praticamente cambiato la natura: da partiti di opinione, scarsamente organizzati, che si facevano vivi in pratica solo nei momenti elettorali, sono divenuti partiti fortemente organizzati, burocratici e di apparato, e quindi bisognosi di grandi risorse per vivere; da partiti di élites sono divenuti partiti di massa, e quindi bisognosi di un ampio consenso, per acquistare e mantenere il quale hanno dovuto essere larghi di favori a fasce sempre più ampie di cittadini; da organizzatori del consenso per determinare la politica nazionale sono divenuti praticamente i padroni della vita politica italiana con l’occupazione delle istituzioni e con la lottizzazione di tutte le cariche pubbliche. In tal modo, la Repubblica italiana è divenuta una Repubblica partitocratica. Il “sistema dei partiti” è divenuto il “sistema della partitocrazia””.
Dunque, in illo tempore se non in principio — la descrizione ha un andamento quasi da narrazione mitologica —, vi erano delle specie di “comitati elettorali”… Mi fermo subito e chiedo: era di questo genere anche il Partito Comunista Italiano? O si è trattato di una realtà così irrilevante per la storia politica italiana, al punto che il maggior partito comunista d’Occidente non merita menzione di sorta? Oppure ha almeno la “responsabilità” di essere stato modello di “partito fortemente organizzato, burocratico e di apparato” e di aver indotto gli altri raggruppamenti politici, con la sua sola presenza, a imitarlo, fosse anche per contrastarlo? Comunque, è possibile — e lecito — tentare di descrivere — sia pure a linee grandissime — la storia del sistema dei partiti nell’Italia repubblicana, e omettere il partito comunista?
Proseguo. Poi, sono venuti i “partiti di massa, e quindi bisognosi di un ampio consenso”. Mi fermo di nuovo e chiedo: solo i “partiti di massa” sono “bisognosi di un ampio consenso”? I partiti di élite possono prescindere dall’ampiezza del consenso? Ma, i partiti vengono detti “di massa” perché raccolgono un consenso ampio, appunto “di massa”, o perché sono caratterizzati da una forte organizzazione, da una struttura burocratizzata e da un vasto apparato? Oppure si tratta addirittura di due generi di partiti, quelli di élite e quelli di massa? Gli interrogativi non si esauriscono: infatti, dei “partiti di massa, e quindi bisognosi di un ampio consenso”, padre Giuseppe De Rosa S.J scrive che, “[…] per acquistare e mantenere il quale [consenso] hanno dovuto essere larghi di favori a fasce sempre più ampie di cittadini”. Dunque, i partiti di élite, essendo misteriosamente non “bisognosi di un ampio consenso”, non sono costretti a “essere larghi di favori a fasce sempre più ampie di cittadini”, mentre per i partiti di massa questa necessità sarebbe strutturale? Il tipo ideale è dunque il partito di élite, perché può permettersi di non essere largo di favori verso fasce sempre più ampie di cittadini; ma come farà mai a guidare la nazione, privo di un ampio consenso? Non sarà piuttosto che i partiti di élite diventano di massa, cioè raccolgono un ampio consenso, perché sono larghi di favori verso fasce sempre più ampie di cittadini?
Comunque sia, “approfittando di questa condizione di privilegio, del fatto, cioè, di avere in mano tutte le leve del potere politico ed economico, sia a livello nazionale, sia a livello locale, i partiti — a seconda del potere che avevano, e dunque chi più, chi meno — hanno prevaricato, abusando del proprio potere a spese dello Stato, e quindi a danno dei cittadini”. Segue una fenomenologia della prevaricazione, conclusa da una considerazione almeno ambigua, secondo cui “il sistema della partitocrazia è durato per molto tempo: ha suscitato, sì, critiche e mugugni, ma è stato praticamente accettato da gran parte dei cittadini che ne traevano vantaggio”: la prevaricazione consentita è meno prevaricazione? “Furto comune, mezzo gaudio”? Che ne è degli “emarginati dal furto”, come si potrebbero eufemisticamente definire gli “onesti” per rapporto alla centralità del furto stesso?
Quindi, l’articolista passa alla descrizione delle conseguenze della situazione scandalosa evidenziata dall’operato della magistratura, cioè alla squalifica che, dai partiti, si rovescia sulla politica in sé, e così via.
Finalmente, padre Giuseppe De Rosa S.J. si dilunga nella descrizione di un presunto rinnovamento della Democrazia Cristiana — sotto la guida dell’attuale segretario nazionale, on. Mino Martinazzoli —, rinnovamento di cui afferma la radicalità e a proposito del quale si espone alla verifica fattuale da parte di tutti e di ciascuno. Ma in questo passaggio, l’ultimo dell’articolo, non colpiscono tanto le affermazioni relative al citato rinnovamento della DC — per la cui evidenza globale viene proposto come termine di paragone il rinnovamento messo in opera dal Partito Socialista Italiano, mentre brilla ancora una volta per la sua assenza ogni riferimento al PCI e al suo radicale mutamento… di sigla in PDS, Partito Democratico della Sinistra —, quanto le espressioni appassionate e di parte, che trovano il loro culmine nella conclusione. Infatti, in essa si afferma lapidariamente che “il problema più grave per il segretario della Dc” è “[…] quello di contrastare lo sforzo che fanno altri partiti per spingere il suo partito non solo a passare all’opposizione — ciò che poi non sarebbe un gran male, potendo un periodo di opposizione purificare la Dc da coloro che si sono aggrappati al suo carro per interessi economici e di carriera e non per servire i suoi ideali —, ma anche, e soprattutto, a divenire un partito conservatore”.
Ma, per quanto le asserzioni siano gravi, non siamo ancora sulla vetta: “In realtà, se questo tentativo, anche per colpa di taluni democristiani, dovesse riuscire, sarebbe inevitabile per molti cattolici — che non sono né vogliono essere conservatori — l’abbandono della Dc e il passaggio ad altre formazioni politiche. È questo il problema decisivo con cui Martinazzoli dovrà misurarsi e un risultato positivo non è affatto scontato. Di qui la necessità che tutti coloro che ritengono che la presenza politica del cattolicesimo democratico, per sua natura progressista e riformatore, sia necessaria per il bene dell’Italia, a motivo dei valori di cui è portatore, s’impegnino ad appoggiare lo sforzo di Martinazzoli, teso a “rifondare” la Democrazia cristiana e a farne un partito “nuovo””.
Quanto al “passare all’opposizione”, chiedo quasi con ansia: perché questa scelta, così salutare, non è stata fatta — per esempio — al momento di ratificare l’introduzione del divorzio e dell’aborto nell’ordinamento giuridico italiano? Ma, la comparsa di un personaggio nuovo, il “cattolicesimo democratico”, fa sì che, sul quesito appena formulato, se ne innesti immediatamente un altro: forse perché erano in questione soltanto il divorzio e l’aborto, non l’egemonia dei “cattolici democratici” nella DC?
L’”uomo della strada” — ma dove sono gli altri? — è certamente portato a pensare che si tratti di termini fungibili: per lui, “cattolico democratico” e “democratico cristiano” sono espressioni equipollenti, utili solo per ridurre le ripetizioni nei discorsi. Ma la cosa è meno certa di quanto egli creda, e non si tratta di un’incertezza di scarsa portata, dal momento che, mentre nell’articolo di padre Giuseppe De Rosa S.J. si immagina una DC abbandonata dai “cattolici democratici”, cioè da sé stessa, se i due termini coincidono, nel manifesto di adesione alla DC, A quanti hanno passione civile, reso noto il 31 dicembre 1992 e ampiamente ricordato dal notista gesuita, vengono richiamati in modo esclusivo “il patrimonio e l’esperienza dei cattolici democratici”. Come non chiedersi, di nuovo, quale rapporto corra fra la DC e il “cattolicesimo democratico”? Si tratta di un rapporto di coincidenza? Parrebbe di no, se i “cattolici democratici” possono lasciare la DC, così non scomparsa, ma semplicemente trasformata in un “partito conservatore”; parrebbe di sì, se nel manifesto politico proposto dall’on. Mino Martinazzoli come base per la rifondazione della DC si fa riferimento soltanto al patrimonio e all’esperienza dei “cattolici democratici”.
Per risolvere l’incertezza sarebbe indispensabile percorrere una storia lunga e ignorata, quando non nascosta, di cui mi pare comunque utile fornire un saggio, traendolo da uno studioso di parte, quindi insospettabile. Nella sua Storia della democrazia cristiana, Maurice Vaussard tratta evidentemente del Sillon, un movimento sociopolitico fondato in Francia alla fine del secolo XIX da Marc Sangnier, e a suo proposito, fra l’altro, scrive: “Sin dal 1905 Marc Sangnier teneva a far risaltare che egli andava oltre la definizione ristretta data da Leone XIII della democrazia cristiana nella sua enciclica Graves de communi. “Noi siamo democratici cristiani come tutti i cattolici che si occupano di azione popolare”, dichiarava a Roubaix il 9 marzo 1905 durante un dibattito con Jules Guesde, ma come giovani democratici francesi del XX secolo,… noi vogliamo lavorare per realizzare l’ideale che abbiamo concepito nella nostra indipendenza di cittadini”. E nel 1907 a Orléans, nel discorso di chiusura del VI Congresso nazionale del Sillon, ribadiva: “Se la democrazia del Sillon non si confonde con la democrazia cristiana la ragione è una sola: la seconda altro non rappresenta che ‘la benefica azione del cristianesimo negli ambienti popolari’, mentre la prima è una concezione propria di un paese, di un’epoca che nasce spontaneamente dal nostro spirito e che la nostra volontà si propone liberamente di realizzare”.
“Denunciando il “persistente equivoco” connaturato alla parola democrazia cristiana, a mala pena sinonimo di cattolicesimo sociale, equivoco convalidato dall’enciclica Graves de communi e poi riaffermato anche da Pio X in un suo Motu proprio, Georges Hoog giungeva sino ad opporre, nel 1910, la democrazia cristiana allo spirito democratico: “Si può essere democratici cristiani senza essere democratici”. Di conseguenza le parole perdevano il loro ovvio significato” (2).
Come si vede, si tratta di un significato ovvio perduto all’inizio del secolo XX e non ancora ritrovato, nonostante il fatto che l’ultimo testo riportato da Maurice Vaussard sia dell’aprile del 1910, e nell’agosto dello stesso anno il movimento del Sillon venga condannato da Papa san Pio X (3); comunque, a descrivere l’esito dell’ambiguità, dell’equivoco persistente, aiutano vecchie tesi di Pietro Scoppola, non tematicamente meditate, secondo cui
a. “[…] la Dc deve sapere che la tradizione cattolico-democratica non si esaurisce nella Dc, anzi non si esaurisce in nessuna esperienza partitica, come diceva De Gasperi”;
b. “Sturzo era minoritario e all’inizio anche De Gasperi. Ma nei momenti migliori il filone democratico ha egemonizzato il mondo cattolico. […] Perciò non facciamo un nostro partito, che rischierebbe di essere un partitino. […] Se devono esserci lacerazioni nella Dc, che avvengano a destra, non a sinistra”;
c. “[…] noi cattolici democratici non vogliamo offrire una zattera a tutta la Dc. Ma siamo disposti ad impegnarci per una Dc migliore, per la parte migliore, democratica, della Dc” (4).
2. Dunque, in un quadro desolante, il cui punto di partenza bisogna far decorrere dalla fine della seconda guerra mondiale o — almeno — dall’apertura a sinistra e dal V congresso della DC, che nel 1954, a Napoli, ne pose le premesse; in un quadro in cui si può verificare con estrema facilità quale squalifica abbia patito il nome cristiano da quasi mezzo secolo di gestione del potere da parte di una forza politica sedicente cristiana; in un momento in cui i nodi di questo mezzo secolo vengono al pettine non solamente in termini di maltolto, ma soprattutto di secolarizzazione della nazione — cioè per relazione non solo ai suoi beni materiali e alla sua cultura economico-finanziaria, ma a tutta la sua cultura, cioè a tutta la sua tradizione —, il peggio sarebbe che la DC diventasse un “partito conservatore” e il problema più importante sarebbe il salvataggio del “cattolicesimo democratico”.
Quindi, non il divorzio, non l’aborto, non la pornografia, non la droga, non la criminalità organizzata e la necessità di porvi rimedi adeguati costituiscono il problema dei cattolici; non la necessità di identificare — accanto e oltre l’operazione Mani Pulite — i responsabili dello sfiguramento culturale, politico e sociale, prima che economico-finanziario, del profilo istituzionale della nazione; non la necessità di ricostruire nella verità e nella chiarezza il rapporto fiduciario fra la gerarchia ecclesiastica e il popolo dei fedeli, gravemente incrinato dall’essersi fatta, la Gerarchia, in qualche modo garante di una realtà partitica in “crisi”, cioè in “giudizio”; non l’urgenza di riesaminare la relazione fra classe politica e popolo, attraverso una rivisitazione sostanziale della nozione di rappresentanza; no, niente di tutto questo, anzi: non esistono neppure i cattolici, esistono soltanto i “cattolici democratici”, coloro che, quando non hanno prodotto direttamente lo sfascio, hanno metodicamente affiancato chi lo è venuto producendo, e la loro salus deve essere affermata come suprema lex.
La passione di parte — questa è la verità di fatto inequivocamente testimoniata da padre Giuseppe De Rosa S.J. e di cui gli si deve essere ultimamente grati — acceca e spinge a enunciare con serenità formale i termini di un ricatto: “[…] se questo tentativo”, cioè il tentativo di trasformare la DC in un “partito conservatore”, “[…] anche per colpa di taluni democristiani, dovesse riuscire, sarebbe inevitabile per molti cattolici — che non sono e non vogliono essere conservatori — l’abbandono della Dc e il passaggio ad altre formazioni politiche”.
Anzitutto attiro sull’asserto l’attenzione dei componenti del Consiglio Permanente della Conferenza Episcopale Italiana, tematicamente tesi a perorare la causa dell’unità politica dei cattolici e a sollecitarne la realizzazione elettorale, come un bene in sé: dunque, un portavoce autorevole del progressismo politico cattolico, o almeno un suo fiancheggiatore, avverte — e “uomo avvisato, mezzo salvato” — che, se dovesse venir meno l’egemonia dei “cattolici democratici” nella DC, questi se ne andrebbero inevitabilmente e passerebbero ad altre formazioni politiche, ma che il tutto dovrebbe essere imputato a chi non accetta la loro egemonia, cioè la “colpa” non sarebbe dei “cattolici democratici”.
Quindi, per quanti sono stati e sono egemoni della DC e così hanno fruito e fruiscono dei vantaggi dell’unità elettorale dei cattolici, nella misura in cui si è realizzata e si realizza ancora, non la contingenza storica spinge a questa unità — come afferma la Gerarchia —, ma un titolo specifico, che vale solamente per loro, quindi costituisce propriamente un “privilegio”: apertis verbis, i cattolici hanno il dovere di essere uniti nella DC egemonizzata dai “cattolici democratici”, i “cattolici democratici” non hanno il dovere di essere uniti nello stesso partito se diventa un “partito conservatore”. Come si vede, i termini all’interno dei quali si muovono i cattolici simpliciter sono quelli di un proverbio brasiliano, con cui un padre dichiara la totale libertà ad nuptias della figlia: “Sposi chi vuole, purché sposi José”.
3. Perché questa “giustizia” caratterizzata da “due pesi e due misure”? Semplicemente perché “molti cattolici […] non sono e non vogliono essere conservatori”. Padre Giuseppe De Rosa S.J. non ha mai esaminato l’ipotesi che, se “molti cattolici […] non sono e non vogliono essere conservatori”, possono esistere altri cattolici — e di fatto esistono, pochi o molti è da verificare, comunque esistono, a meno che lo scrivente, per esempio, non sia un fantasma —, che non sono e non vogliono essere “cattolici democratici”? Di più, non lo ha mai sfiorato l’idea che questo accada non tanto perché nutrono, eventualmente, “passioni” politiche diverse da quelle dei “cattolici democratici”, ma soprattutto perché hanno fieri sospetti sull’ortodossia delle scelte sociali di questi ultimi, cioè sul fatto che “il patrimonio e l’esperienza dei cattolici democratici” siano veramente — come si afferma sempre nel manifesto martinazzoliano — “fondati sul magistero sociale della Chiesa”?
Si tratta di un’affermazione della cui gravità sono perfettamente consapevole; perciò, vorrei addurre a sostegno di essa almeno qualche elemento di prova che, se non verrà ritenuto sufficiente a supportare la tesi, nella peggiore delle ipotesi farà sì che l’affermazione audace venga derubricata da verità a dubbio, certo — comunque — non a falsità.
Allo scopo, credo superfluo segnalare la difficoltà di descrivere in modo preciso il contenuto di espressioni come “partito conservatore” e “cattolicesimo democratico, per sua natura progressista e riformatore”, ma mi pare ugualmente necessario tentare un’approssimazione. Quindi trascrivo tre affermazioni, una del sen. Francesco Cossiga da presidente della Repubblica Italiana, e le altre due dell’on. Aldo Moro, rispettivamente come presidente del Consiglio dei Ministri e in veste di presidente della DC (5).
Nel messaggio rivolto nel 1992 dal sen. Francesco Cossiga alla nazione in quanto presidente della Repubblica Italiana, si legge: “La Dc ha meriti storici grandissimi nell’aver saputo rinunciare alla sua specificità ideologica, ideale e programmatica (le leggi sul divorzio e sull’aborto sono state tutte firmate da Capi di Stato e da ministri democratici cristiani, che giustamente in quel momento hanno privilegiato l’unità politica a favore della democrazia, della libertà e dell’indipendenza), per esercitare una grande funzione nazionale di raccolta dei cittadini”.
Nella dichiarazione fatta dall’on. Aldo Moro, allora presidente del Consiglio dei Ministri, al Consiglio Nazionale della Dc, il 20 luglio 1975, si dice: “La ritrovata natura popolare del partito induce a chiudere nel riserbo della coscienza alcune valutazioni rigorose, alcune posizioni di principio che erano proprie della nostra esperienza in una fase diversa della vita sociale, ma che fanno ostacolo ora alla facilità di contatto con le masse ed alla cooperazione politica. Vi sono cose che la moderna coscienza pubblica attribuisce alla sfera privata e rifiuta siano regolate dalla legislazione ed oggetto dell’intervento dello Stato. Prevarranno dunque la duttilità e la tolleranza”.
Le domande che sorgono spontaneamente sono innumerevoli. Per esempio, ricordo anzitutto quanto afferma padre Giuseppe De Rosa S.J. relativamente al passaggio dei partiti che “[…] da partiti di élites sono divenuti partiti di massa, e quindi bisognosi di un ampio consenso, per acquistare e mantenere il quale hanno dovuto essere larghi di favori a fasce sempre più ampie di cittadini”; poi mi chiedo se, fra i favori di cui è stata larga la DC, per acquistare e mantenere un ampio consenso, condizione per diventare un partito di massa, vanno rubricati soltanto quelli economici, oppure trovano il loro posto tutt’altro che secondario anche quelli fatti “per esercitare una grande funzione nazionale di raccolta dei cittadini” — come proclama il presidente della Repubblica Italiana, Francesco Cossiga —, firmando le leggi sul divorzio e sull’aborto, e così facendosi “meriti storici grandissimi nell’aver saputo rinunciare alla sua specificità ideologica, ideale e programmatica […] a favore della democrazia, della libertà e dell’indipendenza”. Se le cose stanno in questi termini, basta “[…] purificare la Dc da coloro che si sono aggrappati al suo carro per interessi economici e di carriera, e non per servire i suoi ideali” — come scrive padre Giuseppe De Rosa S.J. —, oppure vanno messi in questione proprio questi “ideali”, così facilmente rinunciabili?
Per la stessa ragione, e sullo stesso altare, sono state sacrificate — come ebbe a dire l’on. Aldo Moro — “valutazioni rigorose, alcune posizioni di principio che erano proprie della nostra esperienza in una fase diversa della vita sociale, ma che fanno ostacolo ora alla facilità di contatto con le masse ed alla cooperazione politica”, per cui hanno prevalso “la duttilità e la tolleranza”? Infatti, “per l’aborto — dichiara lo stesso esponente democristiano nel 1978, nella riunione interpartitica che sanciva la formazione della maggioranza per il governo detto di solidarietà nazionale — la Dc si impegna a non ostacolare la maggioranza che approverà la legge”.
Questi comportamenti sono stati tenuti da cattolici “conservatori”, da “cattolici democratici” in quanto “cattolici democratici” oppure da “cattolici democratici” nonostante il “cattolicesimo democratico”?
Aiuta a rispondere al molteplice quesito una serie di affermazione dell’on. Flaminio Piccoli, enunciate in sede autorevole, cioè in occasione del XV congresso della DC, celebrato a Roma dal 2 al 6 maggio 1982:
a. “Rifiutiamo […] l’etichetta arbitraria e falsa di forza conservatrice”;
b. “chi pensasse di imprigionarci nell’angolo stagnante della conservazione, sappia che nulla ha da conservare chi tutto ha cambiato!”;
c. “la DC […] non intende essere assolutamente al centro di una riaggregazione dove il comune sentimento religioso è l’unico dato unitario e certo. Questa non è una novità nell’esperienza storica dei cattolici italiani perché già Sturzo aveva ricercato, al sostegno del suo partito, non già l’unità precostituita dei cattolici italiani ma il consenso della maggioranza dei cattolici democratici”;
d. “se c’è una “società civile” in Italia […] essa è, per tradizione incancellabile, creazione dei “cristiano-sociali”, dei “cattolici popolari”, dei “cattolici democratici”, dei “democratici cristiani””;
e. “quel grande processo di trasformazione — che in Europa è stato realizzato sotto prevalente egemonia socialdemocratica o laburista — è stato ottenuto in Italia sotto la prevalente guida di un partito democratico cristiano: è un grande fatto storico, se si pensa che il processo di modernizzazione, altrove collaudato dallo “spirito capitalistico” originario dell’”etica protestante” o da quello illuministico della rivoluzione francese o da quello socialista, marxista-leninista, della Rivoluzione d’Ottobre, in Italia affonda nella tradizione cristiana propria dei cattolici democratici” (6).
Il testo non abbisogna di commento e permette di inventariare, non per attribuzione di parte oppure indiziaria, ma per orgogliosa rivendicazione, quanto hanno operato i “cattolici democratici”, quindi di che genere sono, dal momento che operari sequitur esse, “dimmi cosa fai e ti dirò chi sei”: si può asserire tranquillamente che sono cattolici, e che i “valori” di cui intendono essere portatori sono proprio necessari per il bene dell’Italia, almeno in un’ottica cattolica?
4. A questo punto — benché la problematica evocata non si possa certo dare per esaurita, non dico per risolta —, mi si potrebbe chiedere perché non enuncio, a mia volta e per quanto valga come intimidazione, l’ipotesi di un “passaggio ad altre formazioni politiche” dei cattolici simpliciter. Non lo faccio per più ragioni:
a. anzitutto, perché non voglio dar esca alla “dottrina” degli “opposti estremismi”, una vecchia arma impropria dialettica, che fa bella mostra di sé in ogni panoplia sofistica, senza che se ne debba denunciare la detenzione;
b. in secondo luogo, perché non intendo intimidire nessuno ma, piuttosto, indicare eventualmente i rischi oggettivi presenti in una determinata situazione, dal momento che non si tratta di un’ipotesi, ma di un fatto già verificatosi e destinato a verificarsi ancora, in misura maggiore o minore, sì che l’intimidazione, per così chiamarla, è in re, è nelle cose;
c. ma, poi, me ne astengo perché si tratta di un fatto che non amo teorizzare, assolutamente non perché ritenga trattarsi di “una di quelle cose che si fanno ma non si dicono”, ma perché non vi è cattolico degno di questo nome che non senta la necessità profonda dell’unità anche politica dei cattolici, di fronte a un mondo sempre più aggressivo nei confronti della verità che professano, e che quindi non soffra la diaspora, insoddisfatto di ogni formazione partitica, cui dia il proprio suffragio per ragioni contingenti. Aggiungo: inevitabilmente insoddisfatto, perché, se la perfezione non è di questo mondo, tanto più essa è lontana da dove la fede viene strumentalizzata oppure è ignorata, trascurando evidentemente l’ipotesi che vi sia combattuta.
Quindi, non lo faccio soprattutto perché, di fronte alla drammaticità della situazione, nessuno pensi che vi sia una soluzione adeguata preconfezionata e, per l’ennesima volta, venga eluso il problema vero. Ma, qual è, a mio avviso, il problema vero?
Come prevedeva correttamente Antonio Gramsci, secondo cui “il cattolicesimo democratico fa ciò che il comunismo non potrebbe: amalgama, ordina, vivifica e si suicida” (7), i “cattolici democratici” hanno esaurito la loro funzione secolarizzatrice, cioè rivoluzionaria, e sono stati abbandonati dalla Rivoluzione dopo il 1979, cioè dopo il fallimento oggettivo del tentativo di portare al governo della Repubblica Italiana i socialcomunisti (8); dopo di allora, si sono mantenuti ancora al potere appoggiandosi sempre più sui poteri di fatto, senza particolari remore morali quanto ai rapporti necessari allo scopo; oggi, vengono “suicidati” nel corso di un importante passaggio del processo rivoluzionario, quello rappresentato emblematicamente dal 1989, l’aspetto macrostrutturale del Sessantotto, il “Sessantotto delle nazioni”, il tempo in cui i popoli si “liberano” dello Stato, perdono il loro “stato”, come nel 1968 gli individui si sono “liberati” dei loro “abiti”, hanno perduto i loro “abiti”, in tutta la gamma di significati del termine.
Perciò, in attesa della sempre auspicabile conversione dei singoli, più importante che curarsi del “suicidio” del soggetto politico da essi costituito, se non addirittura reclutare “suicidi dell’ultima ora”, è pensare all’unica soluzione vera, cioè alla soluzione nella verità, alla rinascita del movimento cattolico, preparandola — in una sofferenza operosa e sempre più consapevole dell’indispensabilità della grazia — nella scienza dei suoi difetti passati e, presumibilmente, futuri, comunque intenzionalmente esente non dai “cattolici che prediligono lecitamente il regime democratico”, ma dal morbo “cattolico democratico”, cioè dai “cattolici che fanno della democrazia un idolo” (9), allo scopo avendo ben presenti due tesi:
a. secondo la prima, enunciata da Papa Pio XII, il movimento cattolico nasce per reazione a una fase della modernità, quella costituita dalla Rivoluzione detta francese e dalla secolarizzazione della vita pubblica (10);
b. a tenore della seconda, esposta chiaramente da Papa Giovanni Paolo II, l’unità dottrinale dei cattolici ha il primato sul pluralismo (11).
Dalla prima tesi si ricava che quanto ha suscitato il movimento cattolico, cioè la necessità per “[…] la Chiesa di provvedere con i propri mezzi a garantire la sua azione, il compimento della sua missione, la difesa dei suoi diritti e la sua libertà” (12), deve sostenere la sua rinascita: infatti, il processo di secolarizzazione non solo non si è arrestato alla vita politica, ma ha proseguito la sua marcia attraverso altri aspetti della vita sociale, sì che, poiché il morbo si è rivelato non episodico, ma endemico ed epidemico, richiede una terapia adeguata.
Dalla seconda tesi si ricava come si possa — e si debba — certamente discutere circa la modalità di realizzazione dell’unità, non obbligatoriamente partitica (13), ma come sia scorretto, quindi infecondo e inefficace, ogni tentativo di fare l’unità prescindendo dalla dottrina, nel caso dalla “[…] dottrina sociale proposta dalla Chiesa [che], pertanto, deve essere fedelmente seguita, né ci potranno essere ragioni di ordine storico che possano giustificare la infedeltà alla medesima” (14).
Giovanni Cantoni
Note:
(1) Cfr. Giuseppe De Rosa S.J., Sì, una nuova Dc sta già rifondandosi, in Jesus. Supplemento di attualità e commenti a “Jesus”, anno XV, marzo 1993, pp. 24-25; tutte le citazioni senza indicazione di fonte sono tratte da questo articolo.
(2) Maurice Vaussard, Storia della democrazia cristiana, trad. it., Cappelli, Bologna 1959, pp. 84-85.
(3) Cfr. san Pio X, La concezione secolarizzata della democrazia. Lettera agli Arcivescovi e ai Vescovi francesi “Notre charge apostolique”, del 25-8-1910, Cristianità, Piacenza 1993; e la recensione redazionale in questo stesso numero di Cristianità.
(4) Pietro Scoppola, “Il futuro è di Wojtyla e Berlinguer”, intervista a cura di Fausto De Luca, in la Repubblica, 10-7-1979; cfr. Marco Invernizzi, Appunti sulla storia e sul “progetto” dei “cattolici democratici”, in Cristianità, anno XVI, n. 156-157, aprile-maggio 1988.
(5) Ricavo il bouquet di riferimenti da Francesco Migliori, del Movimento per la Vita, Quali deputati a tutela della vita?, in Avvenire, 21-3-1992, rubrica L’opinione.
(6) On. Flaminio Piccoli, Una DC più forte per una democrazia più moderna, relazione, del 2-5-1982, in Il Popolo, 3-5-1982; cfr. il mio La “democrazia compiuta” ovvero l’Italia rossa grazie alla setta democristiana, in Cristianità, anno X, n. 85, maggio 1982.
(7) Antonio Gramsci, I popolari, in L’Ordine Nuovo, anno I, n. 24, 1-11-1919, in L’Ordine Nuovo. 1919-1920, Einaudi, Torino 1954, p. 284.
(8) Cfr. il mio La “lezione italiana”. Premesse, manovre e riflessi della politica di “compromesso storico” sulla soglia dell’Italia rossa, Cristianità, Piacenza 1980.
(9) Cfr. Pio XII, Messaggio al popolo elvetico La particulière affection, del 21-9-1946, in Discorsi e Radiomessaggi di Sua Santità Pio XII, vol. VIII, p. 238.
(10) Cfr. Idem, Discorso al primo Congresso mondiale dell’Apostolato dei laici De quelle consolation, del 14-10-1951, ibid., vol. XIII, pp. 294-295.
(11) Cfr. Giovanni Paolo II, Discorso ai partecipanti a un convegno promosso dalla Conferenza Episcopale Italiana sul tema Dalla “Rerum Novarum” ad oggi: la presenza dei cristiani alla luce dell’insegnamento sociale della Chiesa, del 31-10-1981, in Insegnamenti di Giovanni Paolo II, vol. IV, 2, pp. 519-523.
(12) Pio XII, Discorso al primo Congresso mondiale dell’Apostolato dei laici De quelle consolation, cit., p. 294.
(13) Cfr. M. Invernizzi, L’Unione Elettorale Cattolica Italiana, in Cristianità, anno VIII, n. 67, novembre 1980.
(14) Cfr. Giovanni Paolo II, Discorso ai partecipanti a un convegno promosso dalla Conferenza Episcopale Italiana sul tema Dalla “Rerum Novarum” ad oggi: la presenza dei cristiani alla luce dell’insegnamento sociale della Chiesa, cit., p. 522.