Massimo Introvigne, Cristianità n. 365 (2012)
Nei due viaggi apostolici in Italia — in provincia di Arezzo, il 13 maggio 2012, e a Milano, dal 1° al 3 giugno 2012 — Papa Benedetto XVI ha offerto un’importante lezione sulla bellezza, il vero “luogo” da cui ripartire in un’epoca di crisi. Di volta in volta la bellezza dell’arte, della musica, delle istituzioni bene ordinate e delle vite sante è stata proposta a un mondo che ha bisogno non solo di denunzie della crisi e dei suoi responsabili — che non sono mancate — ma anche di speranza e di gioia.
1. Il viaggio in provincia di Arezzo. Il bello come risposta alla crisi
1.1 Arezzo. La fierezza di un’identità cristiana
Il pellegrinaggio di Papa Benedetto XVI ad Arezzo e a Sansepolcro avrebbe dovuto comportare anche una tappa al santuario di La Verna, annullata per ragioni meteorologiche, anche se il discorso preparato dal Pontefice è stato ugualmente pubblicato. Il viaggio ha attirato l’attenzione della stampa italiana quasi esclusivamente per i riferimenti alla crisi economica, mentre in realtà ha costituito un poderoso richiamo al tema delle radici cristiane. Certo, il Papa ha fatto più di un cenno — in particolare nell’omelia della Messa ad Arezzo — alla “crisi economica”(1). Ma, come aveva fatto altre volte, ne ha identificato le cause ultime in una “profonda crisi spirituale” (2), alla cui base stanno “logiche puramente materialistiche” (3) e “[…] una cultura dell’effimero, che ha illuso molti” (4).
Poiché l’uomo oggi è “chiuso nel proprio individualismo” (5) — secondo le parole del discorso preparato per La Verna —, si è determinata la carenza etica da cui è nata anche la crisi dell’economia. Ma qual è la soluzione a questi mali — e quindi alla crisi — indicata dal Pontefice? La si può riassumere in un’espressione usata ad Arezzo: “la fierezza di un’identità cristiana” (6). Occorre ricuperare — un tema carissimo a Papa Benedetto XVI come già al beato Giovanni Paolo II (1978-2005) — la consapevolezza delle radici cristiane dell’Europa, dell’Italia, di ogni nostra città e regione. Qui troveremo le soluzioni. Salutando dalla finestra dell’episcopio di Arezzo, il Pontefice ha ricordato con poche ma precise parole il nesso che intercorre fra memoria e futuro: “Chi è capace di rendere presente in modo così perfetto la cultura del passato è anche capace di aprire la cultura per il futuro perché conosce l’uomo, ama l’uomo che ha la sua grandissima dignità di essere non solo uomo, ma immagine di Dio. E questa dignità dell’uomo ci obbliga ma anche ci consola e ci incoraggia: se siamo realmente immagine di Dio, siamo anche capaci di andare avanti e di superare i problemi del presente e di aprire cammini al nuovo futuro” (7).
Questo rapporto fra radici e crisi contemporanea è stato declinato — in modi diversi ma complementari — ad Arezzo, nel discorso preparato per La Verna e a Sansepolcro. Di Arezzo il Papa ha ricordato lo straordinario contributo alle radici culturali e spirituali dell’Italia. Un primo passaggio è stato il superamento del paganesimo con san Donato [?-362], “[…] la cui testimonianza di vita, che affascinò la cristianità del Medioevo, è ancora attuale. Egli fu evangelizzatore intrepido, perché tutti si liberassero dagli usi pagani e ritrovassero nella Parola di Dio la forza per affermare la dignità di ogni persona e il vero senso della libertà” (8). Il Pontefice ricorda l’episodio dei pagani che irruppero nella chiesa dove san Donato celebrava la Messa e spezzarono in mille pezzi il calice. Tranquillamente, il santo lo ricompose e, per quanto ne mancassero dei pezzi, il vino miracolosamente rimaneva al suo interno senza versarsi. “Il calice infranto e ricomposto da san Donato, di cui parla san Gregorio Magno [590-604] (cfr Dialoghi I, 7, 3), è immagine dell’opera pacificatrice svolta dalla Chiesa dentro la società, per il bene comune”(9).
Il Pontefice ha quindi ricordato ad Arezzo che “nella vostra Cattedrale è sepolto il beato Gregorio X, Papa [1271-1276], quasi a mostrare, nella diversità dei tempi e delle culture, la continuità del servizio che la Chiesa di Cristo intende rendere al mondo” (10). Il Papa beato Gregorio X, nativo di Piacenza ma sepolto appunto ad Arezzo, interagendo con personaggi del calibro di san Tommaso d’Aquino (1225-1274) e di san Bonaventura da Bagnoregio (1221-1274), “[…] si misurò con i grandi problemi del suo tempo: la riforma della Chiesa; la ricomposizione dello scisma con l’Oriente cristiano, che tentò di realizzare con il Concilio di Lione; l’attenzione per la Terra Santa; la pace e le relazioni tra i popoli — egli fu il primo in Occidente ad avere uno scambio di ambasciatori con il Kublai Khan [1215-1294] della Cina” (11).
Infine, e benché si trattasse di un’epoca in cui già non poche nubi cominciavano ad addensarsi sulla Chiesa, il Pontefice ha ricordato le “grandi personalità del Rinascimento” (12) aretino, da Francesco Petrarca (1304-1364) a Giorgio Vasari (1511-1574). Non vennero meno in quest’epoca le devozioni di Arezzo, prima fra tutte quella alla Madonna del Conforto, e si perfezionò giuridicamente un sistema civico ed economico dotato di statuti che “[…] furono strumento per assicurare a molti i diritti inalienabili” (13). Un tema, quello dei diritti da garantire, di attualità oggi, quando è minacciata la stessa “difesa della vita, dal suo primo sorgere al suo termine naturale” (14).
1.2 La Verna. Il segno indelebile del Medioevo francescano
A La Verna, due anni prima di morire san Francesco d’Assisi (1182-1226) ricevette le stigmate. Da anni Papa Benedetto XVI è interessato alla figura del santo di Assisi e a radici dell’Italia che non sono solo cristiane ma francescane: “il Medioevo francescano — ha detto nel discorso preparato per la Verna — ha lasciato un segno indelebile” (15). “I ripetuti passaggi del Poverello d’Assisi e il suo indugiare nel vostro territorio sono un tesoro prezioso” (16): ma “unica e fondamentale fu la vicenda della Verna, per la singolarità delle stimmate impresse nel corpo del serafico Padre Francesco” (17).
Nello stesso modo, da anni il Pontefice va mettendo in guardia da interpretazioni errate, sentimentali, buoniste o meramente umanitarie del messaggio di san Francesco. Al contrario, il santo invita a “[…] recuperare la dimensione soprannaturale della vita, a sollevare gli occhi da ciò che è contingente, per tornare ad affidarci completamente al Signore” (18). A proposito del Cantico di Frate Sole, spesso sfigurato da interpretazioni che fanno di san Francesco una specie di ecologista del New Age ante litteram, il Papa ricorda che nella visione del santo di Assisi la natura senza la luce dell’amore di Dio e della croce di Cristo rimane oscura come la luna quando non riceve la luce dal sole. “Solo lasciandosi illuminare dalla luce dell’amore di Dio, l’uomo e la natura intera possono essere riscattati, la bellezza può finalmente riflettere lo splendore del volto di Cristo, come la luna riflette il sole. Sgorgando dalla Croce gloriosa, il Sangue del Crocifisso torna a vivificare le ossa inaridite dell’Adamo che è in noi, perché ciascuno ritrovi la gioia di incamminarsi verso la santità, di salire verso l’alto, verso Dio” (19).
“Non si sale a La Verna — afferma il Pontefice — senza lasciarsi guidare dalla preghiera di san Francesco [detta] dell’absorbeat“ (20), che recita: “Rapisca, ti prego o Signore, l’ardente e dolce forza del tuo amore la mente mia da tutte le cose che sono sotto il cielo, perché io muoia per amore dell’amor tuo, come tu ti sei degnato di morire per amore dell’amor mio” (21). E qui Papa Benedetto XVI torna su un tema che gli è caro: se vogliamo comprendere davvero la spiritualità di san Francesco, quindi le radici francescane dell’Italia, dobbiamo farci guidare dall’interpretazione che ne diede il suo “insigne figlio” (22) san Bonaventura da Bagnoregio, in particolare nel suo Itinerarium mentis in Deum.
Qui la via di san Francesco è riassunta in tre tappe. “Anzitutto la mente va rivolta alla Passione del Signore, perché è il sacrificio della Croce che cancella il nostro peccato, una mancanza che può essere colmata solo dall’amore di Dio” (23). “Esorto il lettore — scrive san Bonaventura — prima di tutto al gemito della preghiera per il Cristo crocifisso, il cui sangue deterge le macchie delle nostre colpe” (24).
In secondo luogo — e l’elemento è tipicamente francescano, in ciò diverso da altre scuole di spiritualità — la preghiera ha “bisogno delle lacrime” (25), espressione con cui san Bonaventura — che qui afferma di trasmetterci il più genuino insegnamento di san Francesco — allude al “[…] coinvolgimento interiore, del nostro amore che risponda all’amore di Dio” (26).
Il terzo passaggio è l’admiratio, cioè la capacità di provare “stupore davanti all’opera salvifica di Cristo” (27). L’admiratio presuppone l’umiltà. “Non è infatti con l’orgoglio intellettuale della ricerca chiusa in se stessa che è possibile raggiungere Dio, ma con l’umiltà” (28). Scrive san Bonaventura nell’Itinerarium: “[l’uomo] non creda che gli basti la lettura senza l’unzione, la speculazione senza la devozione, la ricerca senza l’ammirazione, la considerazione senza l’esultanza, l’industria senza la pietà, la scienza senza la carità, l’intelligenza senza l’umiltà, lo studio senza la grazia divina, lo specchio senza la sapienza divinamente ispirata” (29).
Così, ripete il Pontefice, san Francesco — rettamente compreso — continua a parlare “anche a noi” (30). E ci ricorda che “[…] non basta dichiararsi cristiani per essere cristiani, e neppure cercare di compiere le opere del bene” (31), il che rischierebbe di rivelarsi un mero umanitarismo. “Occorre conformarsi a Gesù, con un lento, progressivo impegno di trasformazione del proprio essere, a immagine del Signore”(32), e l’esempio che il Papa indica è quello di santa Margherita da Cortona (1247-1297), “figura poco nota di penitente francescana, capace di rivivere in se stessa con straordinaria vivacità il carisma del Poverello d’Assisi” (33).
1.3 Sansepolcro. Gerusalemme nell’Alta Valle del Tevere
La terza storia legata alle radici cristiane che Papa Benedetto XVI ha voluto raccontare nel suo pellegrinaggio è stata quella — per molti versi davvero straordinaria — della fondazione della città di Sansepolcro, di cui ricorre quest’anno il millenario. La storia inizia con due santi vissuti a cavallo dell’anno 1000, sant’Arcano e sant’Egidio. I due santi, “[…] di fronte alle grandi trasformazioni del tempo, si misero alla ricerca della verità e del senso della vita” (34). Questo loro viaggio insieme storico e simbolico li portò in Terra Santa. Qui si misero a raccogliere pietre dei luoghi del Vangelo, perché era nata in loro un’idea “speciale” (35): “costruire nell’Alta Valle del Tevere la civitas hominis a immagine di Gerusalemme” (36), una nuova città di giustizia e di pace. Questa sarebbe stata Sansepolcro, la città del Santo Sepolcro, realizzata grazie all’apporto e all’aiuto dei monaci e del “carisma benedettino” (37).
Al centro e insieme in alto misero il Duomo, secondo un “[…] progetto che segna l’urbanistica del Borgo di Sansepolcro, perché la stessa collocazione del Duomo ha una forte valenza simbolica: è il punto di riferimento, a partire dal quale ciascuno può orientarsi nel cammino, ma soprattutto nella vita; costituisce un forte richiamo a guardare in alto, a sollevarsi dalla quotidianità, per dirigere gli occhi al Cielo, in una continua tensione verso i valori spirituali e verso la comunione con Dio, che non aliena dal quotidiano, ma lo orienta e lo fa vivere in modo ancora più intenso. Questa prospettiva è valida anche oggi, per recuperare il gusto della ricerca del “vero”, per percepire la vita come un cammino che avvicina al “vero” e al “giusto”” (38).
La storia di questa città costruita intorno a una “copia in pietra del Santo Sepolcro di Gerusalemme” (39), disseminata delle pietre che i santi fondatori avevano portato dalla Terra Santa, e articolata secondo un’urbanistica sacra con al centro il Duomo, “sede della ritrovata armonia tra i momenti del culto e della vita civica” (40), non avrebbe forse tanto impressionato Papa Benedetto XVI se i fondatori non fossero stati lettori di un testo di sant’Agostino (354-430) a lui carissimo, il De civitate Dei. Non è la prima volta che il Pontefice ne ricorda la genesi e il contenuto. “Quando i Goti di Alarico [ca. 370-410] entrarono in Roma e il mondo pagano accusò il Dio dei Cristiani di non aver salvato Roma caput mundi, il Santo Vescovo di Ippona chiarì ciò che dobbiamo aspettarci da Dio, la giusta relazione tra sfera politica e sfera religiosa. Egli vede nella storia la presenza di due amori: “amore di sé”, fino all’indifferenza per Dio e per l’altro, e “amore di Dio”, che porta alla piena libertà per gli altri e ad edificare una città dell’uomo retta dalla giustizia e dalla pace (cfr La Città di Dio, XIV, 28)” (41).
I santi fondatori di Sansepolcro non pretendevano di edificare in Terra la civitas Dei — il che è tipico degli utopisti e degl’ideologi —, ma volevano costruire una civitas hominis che verso la città di Dio tendesse, in modo da non sprofondare verso quella civitas diaboli che nasce dall’amore di sé spinto fino al disprezzo di Dio. In questo senso, il messaggio che viene dalla città di Sansepolcro è anche politico. I fondatori “[…] idearono un modello di città articolato e carico di speranza per il futuro, nel quale i discepoli di Cristo erano chiamati ad essere il motore della società nella promozione della pace, attraverso la pratica della giustizia” (42). Sansepolcro è un ricordo iscritto nella storia e nella pianta di una città che “il bene comune conta di più del bene del singolo” (43), un principio che in un momento storico diverso fu riaffermato anche dalla “splendida figura del neo-beato Giuseppe Toniolo [1845-1918]“ (44).
Oggi viviamo in tempi di antipolitica, dominati dalla tentazione della “sfiducia verso l’impegno nel politico e nel sociale” (45). A questa tentazione — animati da storie come quelle di Arezzo, de La Verna, e di Sansepolcro — “[…] i cristiani, specialmente i giovani, sono chiamati a contrapporre l’impegno e l’amore per la responsabilità” (46). Ai giovani in particolare il Papa rivolge “[…] l’invito a saper pensare in grande: abbiate il coraggio di osare!” (47). Ma per osare occorre appunto un “[…] impegno a riscoprire le radici cristiane, affinché i valori evangelici continuino a fecondare le coscienze” (48). È il messaggio centrale che ci viene da questo pellegrinaggio toscano del Pontefice.
2. Il viaggio a Milano. Cercare toni “più attraenti e gioiosi”
“O amici, non questi toni, intoniamone altri di più attraenti e gioiosi”(49). Quando il 1° giugno 2012 Papa Benedetto XVI al Teatro alla Scala di Milano ha ricordato queste parole di Ludwig van Beethoven (1770-1827) nel recitativo dell’Inno alla Gioia, molti vi hanno visto un segno e un simbolo di tutta la visita apostolica del Papa nel capoluogo lombardo. Come, dopo la “terribile dissonanza” (50) che annuncia la parte finale dell’Inno alla Gioia, le parole di Beethoven “in un certo senso, “voltano pagina”” (51), così anche la Chiesa con la gioiosa visita del Pontefice a Milano ha idealmente voltato pagina dopo giornate di difficoltà e di polemiche. Certamente il Pontefice non poteva né voleva ignorare un contesto di crisi, all’esterno e all’interno della Chiesa. Tuttavia, più che un’analisi della crisi, in questo viaggio ha voluto trasmettere un messaggio di speranza, un richiamo alla bellezza che brilla di fronte al male del mondo e introduce alla verità e al bene.
2.1. La bellezza dell’arte
Bellezza, anzitutto, dell’opera d’arte, che il Papa musicologo nel dialogo con le famiglie del 2 giugno al Parco di Bresso ha evocato con riferimento alla sua giovinezza, dove in casa al sabato si preparava la Messa domenicale con particolare attenzione alla musica. “Così cominciava la domenica: entravamo già nella liturgia, in atmosfera di gioia. Il giorno dopo andavamo a Messa. Io sono di casa vicino a Salisburgo, quindi abbiamo avuto molta musica — [Wolfgang Amadeus] Mozart [1756-1791], [Franz Peter] Schubert [1797-1828], [Franz Joseph] Haydn[1732-1809] — e quando cominciava il Kyrie era come se si aprisse il cielo” (52).
Quanto alla musica di Beethoven — come aveva fatto per altri musicisti in occasione di concerti in suo onore — il Pontefice ne ha parlato alla Scala in termini non generici, e senza nascondere il fatto che l’Inno alla Gioia non è propriamente un inno cristiano. “È una visione ideale di umanità quella che Beethoven disegna con la sua musica: “la gioia attiva nella fratellanza e nell’amore reciproco, sotto lo sguardo paterno di Dio” (Luigi Della Croce). Non è una gioia propriamente cristiana quella che Beethoven canta, è la gioia, però, della fraterna convivenza dei popoli, della vittoria sull’egoismo, ed è il desiderio che il cammino dell’umanità sia segnato dall’amore, quasi un invito che rivolge a tutti al di là di ogni barriera e convinzione” (53).
Ha senso, si è chiesto Papa Benedetto XVI, celebrare la bellezza di un’opera d’arte dedicata alla gioia, in un’Italia in cui tanti piangono le vittime del terremoto? Le parole che Beethoven riprende dall’Inno alla gioia di Friedrich Schiller (1759-1805) “[…] suonano come vuote per noi, anzi, sembrano non vere. Non proviamo affatto le scintille divine dell’Elisio. Non siamo ebbri di fuoco, ma piuttosto paralizzati dal dolore per così tanta e incomprensibile distruzione che è costata vite umane, che ha tolto casa e dimora a tanti. Anche l’ipotesi che sopra il cielo stellato deve abitare un buon padre, ci pare discutibile. Il buon padre è solo sopra il cielo stellato? La sua bontà non arriva giù fino a noi?” (54). Interrogativi drammatici, che l’uomo si pone ogni volta che si trova di fronte al dolore, alla morte, ai disastri naturali. E allora la retorica di Schiller non basta.
“In quest’ora — ha detto il Pontefice — le parole di Beethoven, “Amici, non questi toni …”, le vorremmo quasi riferire proprio a quelle di Schiller. Non questi toni. Non abbiamo bisogno di un discorso irreale di un Dio lontano e di una fratellanza non impegnativa. Siamo in cerca del Dio vicino. Cerchiamo una fraternità che, in mezzo alle sofferenze, sostiene l’altro e così aiuta ad andare avanti” (55). “Noi cerchiamo un Dio che non troneggia a distanza, ma entra nella nostra vita e nella nostra sofferenza” (56). È il Dio cristiano.
2.2. La bellezza della santità
La bellezza di cui ha parlato Papa Benedetto XVI a Milano non è solo quella dell’arte. È la bellezza della vita santa, evocata sia come memoria nel ricordo dei santi milanesi sia come proposta ai ragazzi della Cresima. Già nel primo saluto a Milano in Piazza Duomo il 1° giugno, il Pontefice ha ricordato i santi che sono stati vescovi e arcivescovi di Milano: sant’Ambrogio (339/340-397), san Carlo Borromeo (1538-1584), il beato Andrea Carlo Ferrari (1850-1921), il beato Alfredo Ildefonso Schuster (1880-1954) e il servo di Dio Paolo VI (1963-1978), “[…] buono e sapiente, che, con mano esperta, seppe guidare e portare ad esito felice il Concilio Vaticano II” (57), cui Papa Benedetto XVI ha voluto affiancare un altro vescovo di Milano, Achille Ratti (1857-1939), asceso al soglio di Pietro nel 1922 con il nome di Pio XI, alla cui “[…] determinazione si deve la positiva conclusione della Questione Romana e la costituzione dello Stato della Città del Vaticano” (58).
Venuto a Milano per il VII Incontro Mondiale delle Famiglie, fra tanti santi milanesi il Papa ha pure tenuto a “[…] ricordare, proprio pensando alle famiglie, santa Gianna Beretta Molla [1922-1962], sposa e madre, donna impegnata nell’ambito ecclesiale e civile, che fece splendere la bellezza e la gioia della fede, della speranza e della carità” (59). E di tutti questi santi il Pontefice ha voluto sottolineare lo speciale legame con Roma e l’indomita fedeltà al Papa, fin da sant’Ambrogio. “Come è noto, sant’Ambrogio proveniva da una famiglia romana e ha mantenuto sempre vivo il suo legame con la Città Eterna e con la Chiesa di Roma, manifestando ed elogiando il primato del Vescovo che la presiede. In Pietro — egli afferma — “c’è il fondamento della Chiesa e il magistero della disciplina” (De virginitate, 16, 105); e ancora la nota dichiarazione: “Dove c’è Pietro, là c’è la Chiesa” (Explanatio Psalmi, 40, 30, 5). La saggezza pastorale e il magistero di Ambrogio sull’ortodossia della fede e sulla vita cristiana lasceranno un’impronta indelebile nella Chiesa universale e, in particolare, segneranno la Chiesa di Milano, che non ha mai cessato di coltivarne la memoria e di conservarne lo spirito” (60).
Ai ragazzi della Cresima il Pontefice — come aveva già fatto in Gran Bretagna, rivolgendosi agli studenti delle scuole cattoliche il 17 settembre 2010 (61) — ha chiesto di essere santi: “Siate santi! Ma è possibile essere santi alla vostra età? Vi rispondo: certamente! Lo dice anche sant’Ambrogio, grande Santo della vostra Città, in una sua opera, dove scrive: “Ogni età è matura per Cristo” (De virginitate, 40). E soprattutto lo dimostra la testimonianza di tanti Santi vostri coetanei, come Domenico Savio [1842-1857], o Maria Goretti [1890-1902]. La santità è la via normale del cristiano: non è riservata a pochi eletti, ma è aperta a tutti” (62). Si può anche ricordare a questo proposito l’impegno personale di Papa Benedetto XVI per la ripresa della causa di beatificazione di Antonietta Meo, “Nennolina” (1930-1937), proclamata venerabile nel 2007 superando obiezioni su una presunta impossibilità di diventare santi a sette anni.
Ai cresimandi il Papa ha indicato pure la via verso la bellezza della santità: i doni dello Spirito Santo, “realtà stupende” (63) e oggi tanto spesso purtroppo dimenticate. Vale dunque la pena di ricordarli. Il primo è la sapienza, “[…] che vi fa scoprire quanto è buono e grande il Signore e, come dice la parola, rende la vostra vita piena di sapore, perché siate, come diceva Gesù, “sale della terra”” (64). Il secondo è l’intelletto, “[…] così che possiate comprendere in profondità la Parola di Dio e la verità della fede” (65). Terzo: il consiglio, “[…] che vi guiderà alla scoperta del progetto di Dio sulla vostra vita, vita di ognuno di voi” (66). Quarto dono: la fortezza, “[…] per vincere le tentazioni del male e fare sempre il bene, anche quando costa sacrificio” (67). Quinto: il dono della scienza, “[…] non scienza nel senso tecnico, come è insegnata all’Università, ma scienza nel senso più profondo che insegna a trovare nel creato i segni, le impronte di Dio, a capire come Dio parla in ogni tempo e parla a me, e ad animare con il Vangelo il lavoro di ogni giorno; capire che c’è una profondità e capire questa profondità e così dare sapore al lavoro, anche quello difficile” (68). Sesto dono: la pietà, “[…] che tiene viva nel cuore la fiamma dell’amore per il nostro Padre che è nei cieli, in modo da pregarLo ogni giorno con fiducia e tenerezza di figli amati; di non dimenticare la realtà fondamentale del mondo e della mia vita: che c’è Dio e che Dio mi conosce e aspetta la mia risposta al suo progetto” (69). E il settimo dono, forse il più difficile da capire per un giovane oggi, è il timore di Dio, da non confondersi con la paura. Il “timore di Dio non indica paura, ma sentire per Lui un profondo rispetto, il rispetto della volontà di Dio che è il vero disegno della mia vita ed è la strada attraverso la quale la vita personale e comunitaria può essere buona; e oggi, con tutte le crisi che vi sono nel mondo, vediamo come sia importante che ognuno rispetti questa volontà di Dio impressa nei nostri cuori e secondo la quale dobbiamo vivere; e così questo timore di Dio è desiderio di fare il bene, di fare la verità, di fare la volontà di Dio”(70).
2.3. La bellezza del dono di sé nel sacerdozio e nella vita religiosa
Vi è una bellezza particolare anche nella vita sacerdotale. Celebrando l’ora media in Duomo a Milano con i sacerdoti, i seminaristi e le persone consacrate, Papa Benedetto XVI ha ricordato come il servo di Dio Paolo VI, allora arcivescovo di Milano, nel 1958 paragonava la vita sacerdotale a un poema: “Comincia la vita sacerdotale: un poema, un dramma, un mistero nuovo … fonte di perpetua meditazione …sempre oggetto di scoperta e di meraviglia; [il Sacerdozio] è sempre novità e bellezza per chi vi dedica amoroso pensiero … è riconoscimento dell’opera di Dio in noi (Omelia per l’Ordinazione di 46 Sacerdoti, 21 giugno 1958)” (71). E il Papa, attento alla musica, ha paragonato la vita sacerdotale e consacrata a una “sinfonia” (72), in cui tre elementi — unione personale con Dio, servizio alla Chiesa e servizio all’intera umanità — non si contrappongono ma s’incontrano armoniosamente.
Di questa bellezza della vita consacrata e sacerdotale sono parte integrante la castità e il celibato. “Senza dubbio, l’amore per Gesù vale per tutti i cristiani, ma acquista un significato singolare per il sacerdote celibe e per chi ha risposto alla vocazione alla vita consacrata: solo e sempre in Cristo si trova la sorgente e il modello per ripetere quotidianamente il “sì” alla volontà di Dio” (73). Il Papa richiama le radici della Chiesa ambrosiana, il magistero di sant’Ambrogio. “”Con quali legami Cristo è trattenuto?” — si chiedeva sant’Ambrogio, che con intensità sorprendente predicò e coltivò la verginità nella Chiesa, promuovendo anche la dignità della donna. Al quesito citato rispondeva: “Non con i nodi di corde, ma con i vincoli dell’amore e con l’affetto dell’anima” (De virginitate, 13, 77)” (74). E ancora il Pontefice cita un sermone di sant’Ambrogio alle vergini: “Cristo è tutto per noi: se desideri risanare le tue ferite, egli è medico; se sei angustiato dall’arsura della febbre, egli è fonte; se ti trovi oppresso dalla colpa, egli è giustizia; se hai bisogno di aiuto, egli è potenza; se hai paura della morte, egli è vita; se desideri il paradiso, egli è via; se rifuggi le tenebre, egli è luce; se sei in cerca di cibo, egli è nutrimento (De virginitate, 16, 99)” (75).
2.4. La bellezza del dono di sé nella famiglia
Vi è una bellezza del sacerdozio e della vita consacrata e vi è una bellezza della famiglia. Nell’omelia della Messa del 3 giugno al Parco di Bresso per il VII Incontro Mondiale delle Famiglie Papa Benedetto XVI è partito dalla bellezza della Chiesa, “la famiglia di Dio” (76), “sacrarium Trinitatis“ (77) come la definisce sant’Ambrogio con un’espressione che il Papa tiene a ricordare nel giorno della festa liturgica della Santissima Trinità, “[…] popolo che — come insegna il Concilio Vaticano II — derivala sua unità dall’unità del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo (Lumen gentium, 4)” (78). La Chiesa quando comprende la sua natura diventa “capace di riflettere la bellezza della Trinità” (79).
Ma chiamata a riflettere questa bellezza, “chiamata ad essere immagine del Dio Unico in Tre Persone non è solo la Chiesa, ma anche la famiglia, fondata sul matrimonio tra l’uomo e la donna” (80). L’amore è infatti la bellezza ultima dell’uomo. “L’amore è ciò che fa della persona umana l’autentica immagine della Trinità, immagine di Dio” (81). Questa immagine trinitaria si riflette anche nei tre significati dell’amore umano, che è tre volte fecondo: “[…] fecondo — ha detto il Pontefice agli sposi — innanzitutto per voi stessi, perché desiderate e realizzate il bene l’uno dell’altro, sperimentando la gioia del ricevere e del dare” (82). Fecondo, in secondo luogo, “nella procreazione, generosa e responsabile, dei figli, nella cura premurosa per essi e nell’educazione attenta e sapiente” (83). “È fecondo infine per la società, perché il vissuto familiare è la prima e insostituibile scuola delle virtù sociali, come il rispetto delle persone, la gratuità, la fiducia, la responsabilità, la solidarietà, la cooperazione”(84). Così la famiglia riflette anch’essa, come la Chiesa, la bellezza della Trinità.
Questa bellezza dell’amore oggi spesso è compresa in modo sentimentale o superficiale. Nel dialogo del 2 giugno il Papa ha ricordato che in molte società tradizionali e in molte zone dell’Europa, fino ai primi decenni del secolo XX — “[…] mi ricordo, ha detto, che in un piccolo paese, nel quale sono andato a scuola, era in gran parte ancora così”(85) —, il matrimonio era combinato tra le famiglie o i clan. “Ma poi, dall’Ottocento, segue l’emancipazione dell’individuo, la libertà della persona, e il matrimonio non è più basato sulla volontà di altri, ma sulla propria scelta; precede l’innamoramento, diventa poi fidanzamento e quindi matrimonio” (86). Questo sviluppo è accolto dalle nuove generazioni con grande entusiasmo. “In quel tempo — ricorda il Pontefice — tutti eravamo convinti che questo fosse l’unico modello giusto e che l’amore di per sé garantisse il “sempre”, perché l’amore è assoluto, vuole tutto e quindi anche la totalità del tempo: è “per sempre”” (87). La realtà, però, ha smentito questi entusiasmi: “[…] si vede che l’innamoramento è bello, ma forse non sempre perpetuo, così come è il sentimento: non rimane per sempre. Quindi, si vede che il passaggio dall’innamoramento al fidanzamento e poi al matrimonio esige diverse decisioni, esperienze interiori. Come ho detto, è bello questo sentimento dell’amore, ma deve essere purificato, deve andare in un cammino di discernimento, cioè devono entrare anche la ragione e la volontà; devono unirsi ragione, sentimento e volontà” (88).
È un durus sermo, quello del Papa, quando ricorda che l’essere sinceramente innamorati di per sé non fa il matrimonio. “Nel Rito del Matrimonio, la Chiesa non dice: “Sei innamorato?”, ma “Vuoi?”, “Sei deciso?”. Cioè: l’innamoramento deve divenire vero amore coinvolgendo la volontà e la ragione in un cammino, che è quello del fidanzamento, di purificazione, di più grande profondità, così che realmente tutto l’uomo, con tutte le sue capacità, con il discernimento della ragione, la forza di volontà, dice: “Sì, questa è la mia vita”” (89). “Io penso spesso — ha confidato il Pontefice — alle nozze di Cana. Il primo vino è bellissimo: è l’innamoramento. Ma non dura fino alla fine: deve venire un secondo vino, cioè deve fermentare e crescere, maturare. Un amore definitivo che diventi realmente “secondo vino” è più bello, migliore del primo vino” (90).
Testimoniare questa bellezza oggi non è facile. Come già nella visita del 3 maggio 2012 al Policlinico Gemelli (91) e nell’omelia di Pentecoste (92), il Papa nella Messa del 3 giugno è tornato sul tema — centrale nell’enciclica Caritas in veritate (93) — della tecnocrazia, del “mondo dominato dalla tecnica” (94), che crea un contesto in cui la vocazione al matrimonio cristiano “[…] non è facile da vivere” (95). Ultimamente, di fronte al mondo tentato dalla tecnocrazia la famiglia testimonia la verità che l’amore “[…] è l’unica forza che può veramente trasformare il cosmo, il mondo” (96). “Nel libro della Genesi — ha ricordato il Pontefice —, Dio affida alla coppia umana la sua creazione, perché la custodisca, la coltivi, la indirizzi secondo il suo progetto (cfr 1,27-28; 2,15). In questa indicazione della Sacra Scrittura, possiamo leggere il compito dell’uomo e della donna di collaborare con Dio per trasformare il mondo, attraverso il lavoro, la scienza e la tecnica. L’uomo e la donna sono immagine di Dio anche in questa opera preziosa, che devono compiere con lo stesso amore del Creatore” (97).
La tecnocrazia, appunto, intende la trasformazione del mondo come qualche cosa che può essere valutato solo con il criterio dell’utile. Così, “[…] nelle moderne teorie economiche, prevale spesso una concezione utilitaristica del lavoro, della produzione e del mercato. Il progetto di Dio e la stessa esperienza mostrano, però, che non è la logica unilaterale dell’utile proprio e del massimo profitto quella che può concorrere ad uno sviluppo armonico, al bene della famiglia e ad edificare una società giusta, perché porta con sé concorrenza esasperata, forti disuguaglianze, degrado dell’ambiente, corsa ai consumi, disagio nelle famiglie. Anzi, la mentalità utilitaristica tende ad estendersi anche alle relazioni interpersonali e familiari, riducendole a convergenze precarie di interessi individuali e minando la solidità del tessuto sociale” (98).
Si moltiplicano così i fallimenti, le separazioni e i divorzi. Nel dialogo del 2 giugno il Papa ha confidato che il “[…] problema dei divorziati risposati è una delle grandi sofferenze della Chiesa di oggi. E non abbiamo semplici ricette. La sofferenza è grande e possiamo solo aiutare le parrocchie, i singoli ad aiutare queste persone a sopportare la sofferenza di questo divorzio” (99). Dopo aver ribadito quanto affermato nelle sue Allocuzioni alla Rota Romana del 2007 (100) e del 2011 (101), che “[…] molto importante sarebbe, naturalmente, la prevenzione” (102), compreso un esame serio da parte dei parroci delle reali intenzioni delle coppie che si presentano per sposarsi, il Pontefice ribadisce alle coppie in situazione irregolare “[…] che la Chiesa le ama, ma esse devono vedere e sentire questo amore. Mi sembra un grande compito di una parrocchia, di una comunità cattolica, di fare realmente il possibile perché esse sentano di essere amate, accettate, che non sono “fuori”” (103). Naturalmente, la Chiesa accetta e ama le persone, non la loro irregolarità: devono essere accolte in chiesa ma “[…] non possono ricevere l’assoluzione e l’Eucaristia” (104). Ma, se pure non possono essere assolte in confessione, “[…] tuttavia un contatto permanente con un sacerdote, con una guida dell’anima, è molto importante perché possano vedere che sono accompagnati, guidati” (105). E, se pure non possono ricevere l’Eucaristia, “anche senza la ricezione “corporale” del Sacramento, possiamo essere spiritualmente uniti a Cristo nel suo Corpo. E far capire questo è importante. Che realmente trovino la possibilità di vivere una vita di fede, con la Parola di Dio, con la comunione della Chiesa e possano vedere che la loro sofferenza è un dono per la Chiesa, perché servono così a tutti anche per difendere la stabilità dell’amore, del Matrimonio; e che questa sofferenza non è solo un tormento fisico e psichico, ma è anche un soffrire nella comunità della Chiesa per i grandi valori della nostra fede. Penso che la loro sofferenza, se realmente interiormente accettata, sia un dono per la Chiesa. Devono saperlo, che proprio così servono la Chiesa, sono nel cuore della Chiesa”(106).
La mentalità utilitarista e tecnocratica, che appunto non è fra le ultime cause del fallimento di tante famiglie, tende anche a ignorare, o a vedere con sospetto — ha detto il Papa nell’omelia del 3 giugno —, che “l’uomo, in quanto immagine di Dio, è chiamato anche al riposo e alla festa”(107). Mette in crisi così la nozione della domenica come giorno del Signore e anche “giorno dell’uomo e dei suoi valori: convivialità, amicizia, solidarietà, cultura, contatto con la natura, gioco, sport” (108). La Chiesa non può accettare questa crisi: “[…] pur nei ritmi serrati della nostra epoca — invoca il Pontefice —, non perdete il senso del giorno del Signore! È come l’oasi in cui fermarsi per assaporare la gioia dell’incontro e dissetare la nostra sete di Dio” (109).
Famiglia, lavoro e festa sono per Papa Benedetto XVI “[…] tre doni di Dio, tre dimensioni della nostra esistenza che devono trovare un armonico equilibrio. Armonizzare i tempi del lavoro e le esigenze della famiglia, la professione e la paternità e la maternità, il lavoro e la festa, è importante per costruire società dal volto umano” (110). Per affermare la bellezza della famiglia occorre privilegiare “[…] sempre la logica dell’essere rispetto a quella dell’avere: la prima costruisce, la seconda finisce per distruggere” (111).
2.5. La bellezza di una società al servizio dell’uomo
Un tema caro a Papa Benedetto XVI è che vi è anche una bellezza delle istituzioni, che si manifesta quando esse sono davvero a misura d’uomo e conformi al piano di Dio. “La fede in Gesù Cristo, morto e risorto per noi, vivente in mezzo a noi — ha detto il Pontefice nel saluto del 1° giugno in Piazza Duomo — deve animare tutto il tessuto della vita, personale e comunitaria, pubblica e privata, così da consentire uno stabile e autentico “ben essere”, a partire dalla famiglia, che va riscoperta quale patrimonio principale dell’umanità, coefficiente e segno di una vera e stabile cultura in favore dell’uomo” (112).
Nell’incontro del 2 giugno con le autorità il Papa è tornato su questa bellezza delle istituzioni riferendosi ancora una volta a sant’Ambrogio. Il santo ambrosiano è fra i Padri della Chiesa pronti a ricordarci che “[…] l’istituzione del potere deriva così bene da Dio, che colui che lo esercita è lui stesso ministro di Dio (Expositio Evangelii secundum Lucam, IV, 29)”(113). “Tali parole — commenta il Pontefice — potrebbero sembrare strane agli uomini del terzo millennio, eppure esse indicano chiaramente una verità centrale sulla persona umana, che è solido fondamento della convivenza sociale: nessun potere dell’uomo può considerarsi divino, quindi nessun uomo è padrone di un altro uomo”. Allo stesso imperatore il santo scriveva: “Anche tu, o augusto imperatore, sei un uomo (Epistula51,11)” (114).
La bellezza delle istituzioni rifulge quando vi si pratica “[…] la giustizia, virtù pubblica per eccellenza, perché riguarda il bene della comunità intera” (115). Ma la giustizia da sola non basta. “Ambrogio le accompagna un’altra qualità: l’amore per la libertà, che egli considera elemento discriminante tra i governanti buoni e quelli cattivi, poiché, come si legge in un’altra sua lettera, “i buoni amano la libertà, i reprobi amano la servitù” (Epistula 40, 2)” (116). Si tratta però di comprendere la vera nozione della libertà. “La libertà non è un privilegio per alcuni, ma un diritto per tutti, un diritto prezioso che il potere civile deve garantire. Tuttavia, libertà non significa arbitrio del singolo, ma implica piuttosto la responsabilità di ciascuno” (117). S’intende così anche in quale senso sia accettabile la nozione di laicità dello Stato: nel senso di “assicurare la libertà affinché tutti possano proporre la loro visione della vita comune, sempre, però, nel rispetto dell’altro e nel contesto delle leggi che mirano al bene di tutti” (118).
Nello Stato moderno, “nella misura in cui viene superata la concezione di uno Stato confessionale” (119), è tanto più necessario, per assicurare che le leggi siano giuste, un continuo confronto con il diritto naturale: “[…] appare chiaro, in ogni caso, che le sue leggi debbono trovare giustificazione e forza nella legge naturale, che è fondamento di un ordine adeguato alla dignità della persona umana, superando una concezione meramente positivista dalla quale non possono derivare indicazioni che siano, in qualche modo, di carattere etico” (120). E di questo “ben essere” della persona, misurato dal diritto naturale, il Papa ha fornito esempi precisi secondo quelli che ha più volte chiamato i tre valori non negoziabili: il “[…] diritto alla vita, di cui non può mai essere consentita la deliberata soppressione” (121), il “servizio della famiglia, fondata sul matrimonio e aperta alla vita” (122), e il “[…] diritto primario dei genitori alla libera educazione e formazione dei figli, secondo il progetto educativo da loro giudicato valido e pertinente. Non si rende giustizia alla famiglia, se lo Stato non sostiene la libertà di educazione per il bene comune dell’intera società” (123).
In pratica, perché le leggi di uno Stato moderno siano conformi al diritto naturale, e perché esso davvero operi per il bene comune, “[…] appare preziosa una costruttiva collaborazione con la Chiesa, senza dubbio non per una confusione delle finalità e dei ruoli diversi e distinti del potere civile e della stessa Chiesa, ma per l’apporto che questa ha offerto e tuttora può offrire alla società con la sua esperienza, la sua dottrina, la sua tradizione, le sue istituzioni e le sue opere con cui si è posta al servizio del popolo” (124). Proprio “il tempo di crisi che stiamo attraversando ha bisogno, oltre che di coraggiose scelte tecnico-politiche, di gratuità” (125): di quella gratuità che trae alimento e ispirazione dal cristianesimo e dalla dottrina sociale della Chiesa.
Nel dialogo del 2 giugno, rispondendo a una coppia di sposi greci rovinati dalla crisi economica, il Pontefice ha aggiunto che “[…] dovrebbe crescere il senso della responsabilità in tutti i partiti, che non promettano cose che non possono realizzare, che non cerchino solo voti per sé, ma siano responsabili per il bene di tutti e che si capisca che politica è sempre anche responsabilità umana, morale davanti a Dio e agli uomini”(126).
E nell’incontro con gli amministratori Papa Benedetto XVI ha insistito sul fatto che, perché le istituzioni manifestino la bellezza della libertà e della giustizia, non è sufficiente che chi le guidi sia dotato di competenze tecniche. “A quanti vogliono collaborare al governo e all’amministrazione pubblica, sant’Ambrogio richiede che si facciano amare. Nell’opera De officiis egli afferma: “Quello che fa l’amore, non potrà mai farlo la paura. Niente è così utile come farsi amare” (II, 29)” (127). Oltre alla ragione della competenza è necessaria, ha detto il Papa agli amministratori pubblici, “[…] la volontà di dedicarvi al bene dei cittadini, e quindi una chiara espressione e un evidente segno di amore. Così, la politica è profondamente nobilitata, diventando una elevata forma di carità” (128).
All’udienza generale del 6 giugno 2012, tornando sul suo viaggio apostolico a Milano, Papa Benedetto XVI ne ha riassunto lo spirito nell’affermazione secondo cui “[…] l’amore è l’unica forza che può trasformare il mondo” (129), tanto in famiglia quanto nella Chiesa e nelle istituzioni. Inoltre, del suo ricco Magistero a Milano il Pontefice ha voluto sottolineare un aspetto centrale: “[…] l’importanza della “triade” famiglia, lavoro e festa. Sono tre doni di Dio, tre dimensioni della nostra esistenza che devono trovare un armonico equilibrio per costruire società dal volto umano” (130).
È stato — ha detto il Papa — un grande pellegrinaggio per la bellezza, che si è concluso “[…] testimoniando la bellezza della famiglia, speranza per l’umanità” (131): “[…] un’eloquente “epifania” della famiglia, che si è mostrata nella varietà delle sue espressioni, ma anche nell’unicità della sua identità sostanziale, quella di una comunione d’amore, fondata sul matrimonio e chiamata ad essere santuario della vita, piccola Chiesa, cellula della società” (132). Da Milano così “[…] è stato lanciato a tutto il mondo un messaggio di speranza, sostanziato di esperienze vissute: è possibile e gioioso, anche se impegnativo, vivere l’amore fedele, “per sempre”, aperto alla vita; è possibile partecipare come famiglie alla missione della Chiesa ed alla costruzione della società” (133). Con la Madonna, “Regina della famiglia” (134), con la Chiesa e con il Papa.
Note:
(1) Benedetto XVI, Omelia della Messa nel Parco “Il Prato” ad Arezzo, del 13-5-2012, in L’Osservatore Romano. Giornale quotidiano politico religioso, Città del Vaticano 14-5-2012.
(2) Ibidem.
(3) Ibidem.
(4) Ibidem.
(5) Idem, Discorso preparato per la visita al santuario di La Verna, del 13-5-2012, ibidem.
(6) Idem, Omelia della Messa nel Parco “Il Prato” ad Arezzo, cit.
(7) Idem, Saluto dalla finestra dell’Episcopio di Arezzo, del 13-5-2012, ibidem.
(8) Idem, Omelia della Messa nel Parco “Il Prato” ad Arezzo, cit.
(9) Ibidem.
(10) Ibidem.
(11) Ibidem.
(12) Ibidem.
(13) Ibidem.
(14) Ibidem.
(15) Idem, Discorso preparato per la visita al santuario di La Verna, cit.
(16) Ibidem.
(17) Ibidem.
(18) Ibidem.
(19) Ibidem.
(20) Ibidem.
(21) Cit. ibidem.
(22) Ibidem.
(23) Ibidem.
(24) Cit. ibidem.
(25) Ibidem.
(26) Ibidem.
(27) Ibidem.
(28) Ibidem.
(29) Cit. ibidem.
(30) Ibidem.
(31) Ibidem.
(32) Ibidem.
(33) Ibidem.
(34) Idem, Incontro con la cittadinanza in Piazza Torre di Berta a Sansepolcro, del 13-5-2012, ibidem.
(35) Ibidem.
(36) Ibidem.
(37) Ibidem.
(38) Ibidem.
(39) Ibidem.
(40) Ibidem.
(41) Ibidem.
(42) Ibidem.
(43) Ibidem.
(44) Ibidem. Sul beato Toniolo, cfr. Marco Invernizzi, Il beato Giuseppe Toniolo, in Cristianità, anno XL, n. 364, aprile-giugno 2012, pp. 21-27.
(45) Benedetto XVI, Incontro con la cittadinanza in Piazza Torre di Berta a Sansepolcro, cit.
(46) Ibidem.
(47) Ibidem.
(48) Ibidem.
(49) Idem, Discorso al concerto in onore del Santo Padre e delle delegazioni ufficiali dell’Incontro Mondiale delle Famiglie al Teatro alla Scala di Milano, 1°-6-2012, ibid. 3-6-2012.
(50) Ibidem.
(51) Ibidem.
(52) Idem, Festa delle Testimonianze nel Parco di Bresso, del 2-6-2012, ibid. 4/5-6-2012.
(53) Idem, Discorso al concerto in onore del Santo Padre e delle delegazioni ufficiali dell’Incontro Mondiale delle Famiglie al Teatro alla Scala di Milano, cit.
(54) Ibidem.
(55) Ibidem.
(56) Ibidem.
(57) Idem, Incontro con la cittadinanza in Piazza Duomo a Milano, del 1°-6-2012, ibid. 3-6-2012.
(58) Ibidem.
(59) Ibidem.
(60) Ibidem.
(61) Cfr. Idem, Indirizzo agli alunni durante l’incontro con il mondo dell’educazione cattolica nel campo sportivo del St Mary’s University College a Londra, del 17-9-2010. Cfr. il mio In viaggio con il beato Newman. La visita di Papa Benedetto XVI in Gran Bretagna, in Cristianità, anno XXXVIII, n. 357, luglio-settembre 2010, pp. 1-32.
(62) Benedetto XVI, Incontro con i cresimandi nello Stadio “Meazza” a San Siro, del 2-6-2012, in L’Osservatore Romano. Giornale quotidiano politico religioso, Città del Vaticano 3-6-2012.
(63) Ibidem.
(64) Ibidem.
(65) Ibidem.
(66) Ibidem.
(67) Ibidem.
(68) Ibidem.
(69) Ibidem.
(70) Ibidem.
(71) Idem, Celebrazione dell’Ora Media con clero, seminaristi e consacrati nel Duomo di Milano, 2-6-2012, ibidem.
(72) Ibidem.
(73) Ibidem.
(74) Ibidem.
(75) Ibidem.
(76) Idem, Omelia della Messa nel Parco di Bresso, del 3-6-2012, ibid. 4/5-6-2012.
(77) Ibidem.
(78) Ibidem.
(79) Ibidem.
(80) Ibidem.
(81) Ibidem.
(82) Ibidem.
(83) Ibidem.
(84) Ibidem.
(85) Idem, Festa delle Testimonianze nel Parco di Bresso, cit.
(86) Ibidem.
(87) Ibidem.
(88) Ibidem.
(89) Ibidem.
(90) Ibidem.
(91) Idem, Visita all’Università Cattolica del Sacro Cuore, in occasione del 50° Anniversario dell’istituzione della Facoltà di Medicina e Chirurgia “Agostino Gemelli”, del 3-5-2012, ibid. 4-5-2012.
(92) Idem, Omelia della Messa nella solennità di Pentecoste nella Basilica Vaticana, 27-5-2012, ibid. 28/29-5-2012.
(93) Cfr. Idem, Enciclica “Caritas in veritate” sullo sviluppo umano integrale nella carità e nella verità, del 29-6-2009; cfr. in proposito il mio “Caritas in veritate”. La dottrina sociale della Chiesa contro la tecnocrazia, in Cristianità, anno XXXVII, n. 353, luglio-settembre 2009, pp. 1-19; e più ampiamente M. Introvigne e Piermarco Ferraresi, Il Papa e Joe l’idraulico. La crisi economica e l’enciclica Caritas in veritate, Fede & Cultura, Verona 2009.
(94) Benedetto XVI, Omelia della Messa nel Parco di Bresso, cit.
(95) Ibidem.
(96) Ibidem.
(97) Ibidem.
(98) Ibidem.
(99) Idem, Festa delle Testimonianze nel Parco di Bresso, cit.
(100) Cfr. Idem, Discorso al Tribunale della Rota Romana in occasione dell’inaugurazione dell’Anno Giudiziario, del 27-1-2007, in Insegnamenti di Benedetto XVI, vol. III, 1, 2007. (Gennaio-Giugno), Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2007, pp. 117-122.
(101) Cfr. Idem, Discorso al Tribunale della Rota Romana in occasione dell’inaugurazione dell’Anno Giudiziario, del 22-1-2011, in L’Osservatore Romano. Giornale quotidiano politico religioso, Città del Vaticano 23-1-2011; cfr. il mio Sposarsi in chiesa non è un diritto, in La Bussola Quotidiana, del 24-1-2011, <http:// www.labussolaquotidiana.it/ ita/ articoli-sposarsi-in-chiesanon-un-diritto-657.htm>, visitato l’ultima volta il 29-9-2012.
(102) Benedetto XVI, Festa delle Testimonianze nel Parco di Bresso, cit.
(103) Ibidem.
(104) Ibidem.
(105) Ibidem.
(106) Ibidem.
(107) Idem, Omelia della Messa nel Parco di Bresso, cit.
(108) Ibidem.
(109) Ibidem.
(110) Ibidem.
(111) Ibidem.
(112) Idem, Incontro con la cittadinanza in Piazza Duomo a Milano, cit.
(113) Idem, Incontro con le autorità nella Sala del Trono dell’Arcivescovado di Milano, del 2-6-2012, ibid. 4/5-6-2012.
(114) Ibidem.
(115) Ibidem.
(116) Ibidem.
(117) Ibidem.
(118) Ibidem.
(119) Ibidem.
(120) Ibidem.
(121) Ibidem.
(122) Ibidem.
(123) Ibidem.
(124) Ibidem.
(125) Ibidem.
(126) Benedetto XVI, Festa delle Testimonianze nel Parco di Bresso, cit.
(127) Idem, Incontro con le Autorità nella Sala del Trono dell’Arcivescovado di Milano, cit.
(128) Ibidem.
(129) Idem, Discorso all’udienza generale, 6-6-2012, ibid. 7-6-2012.
(130) Ibidem.
(131) Ibidem.
(132) Ibidem.
(133) Ibidem.
(134) Ibidem.