nel contesto brasiliano del 1959. La bellezza della Cristianità contro la volgarità del moderno
di Massimo Introvigne
1. La bellezza di Rivoluzione e Contro-Rivoluzione
«L’espressione di [Fëdor Michajlovič] Dostoevskij [1821-1881] che sto per citare è senz’altro ardita e paradossale, ma invita a riflettere: “L’umanità può vivere – egli dice – senza la scienza, può vivere senza pane, ma soltanto senza la bellezza non potrebbe più vivere, perché non ci sarebbe più nulla da fare al mondo. Tutto il segreto è qui, tutta la storia è qui”» (1). Così Benedetto XVI nell’incontro con gli artisti nella Cappella Sistina, del 21 novembre 2009.
Di fronte all’edizione del cinquantenario, curata da Giovanni Cantoni, di Rivoluzione e Contro-Rivoluzione (2) di Plinio Corrêa de Oliveira (1908-1995) ci viene spontaneo dire che si tratta di un bel libro, di una bella iniziativa. Non abbiamo dubbi sul fatto che si tratti di un libro vero e di un libro buono: e tuttavia, figli del secolo XXI, il nostro modo di esprimerci fa anzitutto riferimento al bello. Il linguaggio non è mai casuale o irrilevante. Nel fatto che ci viene naturale parlare anzitutto di libro bello — e solo in seconda battuta, dopo avere riflettuto, di libro vero e buono — c’è tutta un’epoca, il cui spirito non possiamo fare a meno di respirare quotidianamente per quanto sul piano intellettuale ci sforziamo di criticarlo.
Seguire la pista che il nostro stesso linguaggio ci segnala significa entrare in uno dei dibattiti più vivaci della sociologia contemporanea. Oggi di ciascuno di noi si dice che «ha le sue idee», che segue le «sue» teorie — più o meno intelligenti e articolate — sulla società e sulla storia. Non è sempre stato così. In una società tradizionale quasi tutti condividono le stesse idee. C’è un pluralismo sociale — articolato in un’infinità di mestieri, professioni, condizioni — ma non c’è a rigore un pluralismo ideologico. Quest’ultimo nasce con la modernità. Nello stesso spazio geografico iniziano a coesistere teorie contraddittorie e inconciliabili: non sui dettagli, ma sull’essenziale. Emerge la società complessa, la società del pluralismo ideologico: ciascuno, appunto, «ha le sue idee». Come si formano queste idee? Come sono scelte le teorie che, più o meno consapevolmente, orientano la nostra vita?
I sociologi hanno da tempo messo in discussione l’immagine banale secondo cui ogni persona che vive nella società complessa moderna sarebbe sia capace sia disposta a esaminare le diverse idee che cercano d’imporsi alla sua attenzione — culturali, politiche, religiose —, pesarle con un severo esame dottrinale su un’ideale bilancia e scegliere quelle che sembrano più vere. In realtà, pochissimi compiono le loro scelte in questo modo, persino in materia di religione. Le scelte sono fatte in modo assai meno meditato. La fiducia, l’amicizia, il rapporto affettivo o di parentela con chi ci propone un sistema d’idee è spesso più importante del suo contenuto (3). Inoltre, nello scegliere un’idea o una teoria — che ce ne rendiamo conto o meno — non ci lasciamo attrarre solo dal suo contenuto informativo e normativo ma anche dal suo potenziale allusivo e dalla sua eleganza. Dire che un libro che propone idee — non solo un romanzo — è bello, che è bella una teoria o un’idea indica allora qualche cosa di molto importante. Le teorie non sono fotografie della realtà. Una teoria sociale non è una semplice fotografia della società. Non la rappresenta tutta. Un grande storico come Marco Tangheroni (1946-2004) — socio fondatore di Alleanza Cattolica, che di Corrêa de Oliveira fu attento e affezionato lettore — ci ricorda che anche chi ha la storia per professione «deve fare una scelta tra gli infiniti fatti: se volesse riprodurli tutti egli non sarebbe meno pazzo di un geografo che volesse riprodurre la Terra in scala 1:1 e avrebbe bisogno, pertanto, di un altro pianeta di analoghe dimensioni!» (4). Chi elabora una teoria sceglie alcuni elementi di cui propone una rappresentazione, una riduzione a unità e una spiegazione. Il risultato di questo processo è una figura che — secondo l’espressione del filosofo italiano Enrico di Robilant — rappresenta e spiega la realtà in modo non figurativo (5).
Se le figure prodotte dalle teorie non sono semplicemente figurative, e hanno un potenziale allusivo, l’attrazione che esse esercitano sull’uomo moderno non è esclusivamente di carattere cognitivo, ma implica anche un elemento estetico. Nel modello proposto da di Robilant, che cita numerosi esempi, questo non vale solo per le scienze sociali: pure teorie matematiche o fisiche si sono affermate anche per la loro singolare eleganza. Un micro-sociologo come Randall Collins, in un’opera monumentale sulla sociologia della filosofia, è arrivato alla stessa conclusione per le teorie filosofiche (6). Sull’«estetica cognitiva» applicata alla storiografia c’è una vasta letteratura (7).
Tutto questo avviene, sostiene Collins, perché nella società moderna e postmoderna sono venute meno le gerarchie capaci di certificare certe idee come superiori ad altre sulla base di un argomento di autorità. Poiché tuttavia di gerarchie l’uomo continua ad avere bisogno, queste sono ricreate attraverso rituali inconsapevoli che generano emozioni, alcune delle quali sono più forti e coinvolgenti di altre (8). Quello che apprezziamo come elegante, inoltre — suggeriscono queste analisi —, non è meramente soggettivo. La percezione che abbiamo di qualcosa come bello e armonioso è culturalmente negoziata e dipende in una certa misura da una tradizione. Esistono certo forme di bellezza universali, ma chi è stato educato in Giappone si entusiasma per elementi artistici e musicali di quel Paese che a noi almeno a una prima percezione dicono poco.
Il pensiero cattolico contro-rivoluzionario è un pensiero della crisi. Nasce appunto quando la Rivoluzione ha iniziato a distruggere le gerarchie. Senza la Rivoluzione, non ci sarebbe evidentemente bisogno di un pensiero esplicitamente contro-rivoluzionario. Questo nasce nella società complessa moderna dove ciascuno «ha le sue idee». La visione della storia della Contro-Rivoluzione, pur contestandone le premesse, entra fatalmente nel «mercato delle idee» della società complessa, dove le teorie — che non possono più contare sul solo argomento di autorità — competono fra loro cercando di presentarsi come più plausibili e attraenti di altre. Qui la teoria contro-rivoluzionaria ottiene successo — non piccolo, come la sua storia dimostra — anche per la sua intrinseca eleganza, che la carica di un potenziale allusivo capace di suscitare un apprezzamento che è anche estetico.
Corrêa de Oliveira propone lo schema di tre — poi quattro — Rivoluzioni che attaccano l’ordine naturale e cristiano cercando di spezzare prima i legami religiosi con la Riforma protestante (I Rivoluzione), poi i legami politici con la Rivoluzione francese (II Rivoluzione), quindi i legami economici con la Rivoluzione comunista (III Rivoluzione) (9), infine i legami micro-sociali della famiglia, quelli fra madre e figlio con l’aborto e perfino quelli dell’uomo con sé stesso e interni al corpo umano con la droga e l’ideologia di genere (IV Rivoluzione) (10). Il gesto del medico abortista che taglia il cordone ombelicale non per la vita ma per la morte simboleggia in un modo che più tragicamente eloquente non potrebbe essere l’opera della Rivoluzione, che non sopporta i legami e li distrugge.
Il quadro nella storia del pensiero contro-rivoluzionario pre-esiste, almeno per le prime tre Rivoluzioni, a Corrêa de Oliveira, ma egli ha il merito di averlo presentato con una chiarezza e un’eleganza per molti versi nuove. Il modo semplice e insieme profondo di presentare la storia dell’Occidente moderno ha affascinato molti, ed è passato anche nel Magistero pontificio. Papa Pio XII (1939-1958), nel suo celebre discorso Nel contemplare agli Uomini di Azione Cattolica d’Italia, del 12 ottobre 1952, si serve di una formula che descrive la sequenza dell’allontanamento dell’Occidente dalla verità cattolica precisamente attraverso tre tappe che corrispondono al protestantesimo che nega la Chiesa, al deismo illuminista e all’ateismo marxista: «Cristo sì, Chiesa no. Poi: Dio sì, Cristo no. Finalmente il grido empio: Dio è morto; anzi: Dio non è mai stato» (11).
Il regnante Pontefice Benedetto XVI non è forse lettore dei classici della scuola contro-rivoluzionaria. Lo è però, in modo costante e appassionato, di Pio XII, che con questa scuola aveva un contatto intellettuale diretto. Nel discorso di Ratisbona del 2006, Benedetto XVI parla di quattro fasi della rottura dell’armonia occidentale fra fede e ragione che si presentano come attacco alla cultura filosofica classica greca che era entrata in fecondo dialogo con il cristianesimo: quattro «deellenizzazioni» (12), che riferisce rispettivamente al fideismo protestante, al razionalismo che culmina nell’Illuminismo laicista, alle ideologie moderne e al nichilismo postmoderno. E nell’enciclica Spe salvi ripercorre le tappe della perdita della nozione cristiana di speranza, anch’essa fondata sull’armonia fra fede e ragione, articolandole nell’attacco alla ragione di Martin Lutero (1483-1546), nello scientismo illuminista che culmina con la Rivoluzione francese, nel sanguinoso mito comunista del Paradiso politico da realizzare sulla Terra, e nella disperazione postmoderna successiva alla caduta delle ideologie (13).
Certo, i Pontefici — e molti altri — hanno apprezzato questo schema per la sua capacità di capire e spiegare la storia. E tuttavia la storia è più grande di qualsiasi schema, e può essere rappresentata e ridotta a unità — senza necessariamente falsificarla — in mille modi diversi. Lo schema contro-rivoluzionario è particolarmente adatto a essere presentato all’uomo moderno per la sua chiarezza, semplicità e — appunto — eleganza. Quando si completa, come avviene in Rivoluzione e Contro-Rivoluzione, con uno schema del processo contro-rivoluzionario capace di rispettare la stessa simmetria parlare di teoria «bella» non è arbitrario, ed è anzi pienamente giustificato.
Un documento del 2006 del Pontificio Consiglio della Cultura dedicato alla bellezza, La Via pulchritudinis, ripropone una citazione dello scrittore e dissidente anti-comunista russo Aleksandr Isaevič Solženicyn (1918-2008) nel suo Discorso per la consegna del Premio Nobel per la Letteratura: «Questa antica triunità della Verità, del Bene e della Bellezza non è semplicemente una caduca formula da parata, come ci era sembrato ai tempi della nostra presuntuosa giovinezza materialistica. Se, come dicevano i sapienti, le cime di questi tre alberi si riuniscono, mentre i germogli della Verità e del Bene, troppo precoci e indifesi, vengono schiacciati, strappati e non giungono a maturazione, forse strani, imprevisti, inattesi saranno i germogli della Bellezza a spuntare e crescere nello stesso posto e saranno loro in tal modo a compiere il lavoro per tutti e tre» (14).
Questa riflessione di Solženicyn ci aiuta a superare la prospettiva della sociologia della cultura contemporanea che, per quanto interessante, non può assolutamente essere sufficiente. Alla scuola di san Tommaso d’Aquino (1225 ca.-1274) la buona dottrina sa che ultimamente il vero, il bello e il buono convertuntur. Devono convergere, o c’è qualcosa che non va. Nelle parole del teologo svizzero Hans Urs von Balthasar (1905-1988), pure ricordate dal documento La Via pulchritudinis, forse nel mondo moderno «gli argomenti in favore della verità hanno esaurito la loro forza di conclusione logica» (15) e il bene «ha perduto la sua forza di attrazione» (16), così che non resta che partire dal bello. Per non scadere in una prospettiva estetizzante che sarebbe a sua volta sovversiva, si dovrà però partire dal bello per arrivare al vero e al buono, o meglio alla convergenza di vero, bello e buono. L’uomo moderno, dopo le devastazioni della Rivoluzione, non è più capace di partire dal vero o dal buono? Benissimo — o malissimo —: parta pure dal bello. Ma purché arrivi anche al vero e al buono.
Così, che ci piaccia o no, in un mondo dove — per dirla con Solženicyn — «i germogli della Verità e del Bene, troppo precoci e indifesi, vengono schiacciati, strappati e non giungono a maturazione» (17), la filosofia e la teologia della storia di Rivoluzione e Contro-Rivoluzione ci colpiscono anzitutto, e riescono a farsi largo in un mercato di beni simbolici incredibilmente affollato — milioni di libri, migliaia di teorie —, grazie alla loro intrinseca coerenza ed eleganza. Ma questa bellezza non è fine a sé stessa. Come soleva dire Platone (427-347 a.C.), e ripete Papa Giovanni Paolo II (1978-2005), la bellezza è «veritatis splendor» (18). Il bello è la porta del vero, che conquista e spinge al buono. La convergenza dei valori non è una pia aspirazione di san Tommaso: la constatiamo nella realtà, se solo abbiamo occhi per vedere e orecchie per intendere.
Naturalmente anche tesi aberranti sono talora presentate con una certa grazia. Spesso questa deriva dalla familiarità di chi le propone con una tradizione estetica e letteraria che pure combatte, ma di cui si è in qualche modo appropriato. Così, per esempio, si afferma spesso che la propaganda a favore dell’ateismo del filosofo marxista tedesco Ernst Bloch (1885-1977) colpisce più per l’eleganza del linguaggio che per il rigore degli argomenti. L’eleganza degli scritti di Bloch è reale, ma è più poetica che architettonica e ricorda quella dei Salmi. E in effetti Bloch era stato allevato in una famiglia ebraica e conosceva molto bene la Bibbia.Pur proponendosi di combattere la religione, aveva assimilato stili e modi dalla Sacra Scrittura. Tuttavia un’elegante costruzione sofistica ci abbaglia per qualche ora, ma finisce per lasciarci l’amaro in bocca. Non ogni eleganza è un autentico splendor. Splende davvero solo l’eleganza dietro cui brilla la verità: il resto ha la luce effimera del fuoco fatuo. Chi si accosta a Rivoluzione e Contro-Rivoluzione attratto dalla sua architettura coerente ed elegante comprende ben presto che questa limpida simmetria è il riflesso di un ordine superiore, il quale — perché non dirlo? — regna anzitutto nell’anima e nella vita spirituale dell’autore. Il libro è bello perché è vero; e, in quanto vero, è buono.
2. La bellezza in Rivoluzione e Contro-Rivoluzione
La Rivoluzione, naturalmente, ha inciso anche sulla percezione del bello. La Rivoluzione, si può dire,è la via della bruttezza. Nel citato documento vaticano La Via pulchritudinis leggiamo che oggi «una certa abitudine alla bruttezza, al cattivo gusto, alla volgarità, si vede promossa sia dalla pubblicità sia da alcuni “artisti folli” che fanno dell’immondo e del brutto un valore, al fine di suscitare scandalo» (19). Incalza Benedetto XVI: «Troppo spesso, però, la bellezza che viene propagandata è illusoria e mendace, superficiale e abbagliante fino allo stordimento e, invece di far uscire gli uomini da sé e aprirli ad orizzonti di vera libertà attirandoli verso l’alto, li imprigiona in se stessi e li rende ancor più schiavi, privi di speranza e di gioia. Si tratta di una seducente ma ipocrita bellezza, che ridesta la brama, la volontà di potere, di possesso, di sopraffazione sull’altro e che si trasforma, ben presto, nel suo contrario, assumendo i volti dell’oscenità, della trasgressione o della provocazione fine a se stessa» (20). Quest’opera di sovversione non ha sempre successo, come dimostra il fascino che continuano a esercitare anche presso il pubblico moderno, pure tecnicamente «male educato», espressioni dell’arte tradizionale e cristiana. Ma questo non significa che la promozione della bruttezza non sia stata, in certe epoche storiche, al centro degli sforzi della Rivoluzione.
In Brasile un autentico assalto alla nozione tradizionale di bellezza nasce con il modernismo, versione brasiliana del futurismo lanciata con la Semana de arte moderna tenuta a San Paolo dall’11 al 18 febbraio 1922. Se non tutte le manifestazioni artistiche del modernismo sono spregevoli — e in anni successivi si vedrà di molto peggio — lo scopo è di schierarsi «contro il tradizionalismo, il “passatismo”» (21) attraverso la provocazione e lo scandalo. Nel 1928 «esce a S. Paulo la “Revista de antropofagia” con il contributo dei nomi più significativi del Modernismo brasiliano. Il Manifestoera firmato da “[José] Oswald de Andrade [1890-1954]. A Piratininga. Anno 374 dalla deglutizione del Vescovo [mons. Pedro Fernandes] Sardinha [1496-1556]”. E il Vescovo Sardinha era il prelato che nel 1554 (1554 + 374 = 1928) era stato deglutito da un antropofago caeté. Il nome del movimento nasceva da un quadro di Tarsila do Amaral [1886-1973], diventato poi celebre, che rappresentava l’indio antropofago, simbolo del nuovo Brasile modernista» (22).
Certo, il riferimento al cannibalismo è anche metaforico, nel senso che il Brasile è invitato a «deglutire» la più moderna cultura europea e ad assimilarla. Tuttavia ci sono qui due elementi importanti, che non sfuggiranno a Corrêa de Oliveira: il modernismo, nel suo tentativo di scardinare la nozione tradizionale di bellezza, esalta il brutto e il ripugnante — che cosa ci può essere di più ripugnante della «deglutizione» (23) di un cannibale? — e nel contesto brasiliano è anche «tribalista», in quanto considera la cultura selvaggia ma genuina dell’indio della foresta antropofago come superiore a quella del vescovo Sardinha che pensa di civilizzarlo.
Non è privo d’interesse notare che il modernismo artistico determina una spaccatura nell’ambito della destra brasiliana. Jackson de Figueiredo (1891-1928) — l’intellettuale decadentista convertito al cattolicesimo e alla Contro-Rivoluzione che è per alcuni versi un precursore di Corrêa de Oliveira — si schiera decisamente contro il modernismo, mentre Plínio Salgado (1895-1975), il fondatore del cosiddetto «fascismo brasiliano» delle «camicie verdi», l’Azione Integralista Brasiliana, scende in campo a favore dei modernisti. Il movimento di Salgado è anche tribalista. Il suo saluto romano, imitato dal fascismo italiano, è accompagnato dalla ripetizione della parola «Anahué», che vorrebbe riprendere un presunto grido di guerra degli indios tupi (24).
Plinio Corrêa de Oliveira dedica molte energie a cercare di convincere i vescovi brasiliani che l’Integralismo di Salgado è pericoloso per la fede cattolica (25), nonostante il rispetto che professa per la Chiesa e il fatto che per un certo periodo il segretario nazionale del partito sia un sacerdote, don Hélder Pessoa Câmara (1909-1999), più tardi vescovo ausiliare di Rio de Janeiro e poi arcivescovo di Olinda e Recife (26). La battaglia di Corrêa de Oliveira contro la «falsa destra» modernista e futurista che vuole ricostruire la società su fondamenta diverse da quelle cristiane è oggi di grande attualità, in un momento in cui anche in Italia false destre che vogliono prescindere dal cristianesimo sono riproposte da quelli che un tempo si chiamavano «spiriti forti» e che oggi forse dovremmo chiamare «spiriti fini» (27).
Negli spunti anti-tradizionali e modernisti delle «camicie verdi» c’è già un preannuncio della fase successiva del processo rivoluzionario in Brasile, il populismo, così come nel populismo c’è un preannuncio del socialismo. Tutti gli studi della situazione politica e culturale iberoamericana intorno alla seconda guerra mondiale e nei decenni successivi fanno riferimento alla categoria di «populismo» (28). La definizione della categoria si rivela però particolarmente elusiva. Anzitutto, mentre concetti come «socialismo» o «democratismo cristiano» sono definiti in prima istanza dai loro sostenitori — e solo in un secondo tempo dai critici — quasi nessun movimento si auto-proclama «populista». L’etichetta è applicata ex post da osservatori esterni, spesso critici. Si corre così il grave rischio che «populismo» — quando è applicato a qualunque esponente politico o leader culturale capace di ottenere un notevole successo e consenso personale, dal presidente della Repubblica Argentina Juan Domingo Perón (1895-1974) al presidente del Consiglio dei Ministri italiano Silvio Berlusconi (29) — rischi, a rigore, di non significare più nulla. La categoria generale di «populismo» è diventata così ambigua da far sorgere il dubbio se non sia più opportuno che la scienza politica l’abbandoni. Rimane tuttavia ineludibile come categoria storica, che designa un certo stile culturale e politico iberoamericano degli anni 1940-1960.
In generale questo populismo è l’appello al «popolo» contro le élite politiche, religiose e culturali, fondato sull’argomento che i mali del «popolo» derivano dall’eccessivo potere e dalla malizia delle élite così che, trasferendo il potere dalle élite al «popolo», tutti i problemi saranno risolti. Un elemento costitutivo del populismo iberoamericano è il «nuovismo»: il popolo, per definizione, rappresenta il nuovo e le élite rappresentano il vecchio.
La fase storica brasiliana dal 1945 al 1964 è comunemente chiamata «Repubblica populista». Quest’epoca comprende la seconda fase della carriera politica di Getúlio Dornelles Vargas (1882-1954), più volte presidente della Repubblica Federativa del Brasile, e — dopo il suo suicidio, nel 1954 — i mandati dei presidenti suoi successori — quasi tutti, suoi antichi collaboratori — nel decennio 1954-1964. A politiche economiche demagogiche — giustificate con il mito redistributivo della riforma agraria — corrisponde sul piano culturale un disprezzo per il «vecchio Brasile» e un generale involgarimento della vita sociale e culturale. Nulla testimonia meglio l’idea di fare piazza pulita della storia e di ricominciare ex novo tipica del populismo della decisione del presidente Juscelino Kubitschek (1902-1976) di costruire dal nulla una nuova capitale, Brasilia — «inaugurata» il 21 aprile 1960 —, abbandonando la capitale storica Rio de Janeiro. Qualunque cosa si pensi del valore artistico dei suoi principali edifici, Brasilia resta un simbolo della volontà della «Repubblica populista» di rompere con il passato, con la tradizione e con la storia.
Per la volgarità culturale degli anni 1950 il quadro di riferimento non può essere solo quello nazionale del populismo brasiliano, ma si deve tener conto anche della situazione internazionale. Negli Stati Uniti d’America gli anni 1950 sono quelli di una nuova popular culture generalmente considerata di livello più discutibile di quella dei decenni precedenti (30), la cui icona di riferimento è il cantante Elvis Presley (1935-1977). I miti diffusi da una Hollywood che progressivamente s’involgarisce non esauriscono peraltro la cultura statunitense dell’epoca.
Il Magistero di Papa Pio XII propone una serrata critica della sostanza del populismo, pur senza usare questo termine che, va sempre ricordato, è una costruzione ex post degli storici. La critica si fonda sulla distinzione, enunciata nel celebre Radiomessaggio natalizio ai popoli del mondo intero del 24 dicembre 1944 (31), fra il «popolo» (32), realtà positiva ma diversa e armonica, e la «moltitudine amorfa o, come suol dirsi, “massa”» (33), dove scompaiono le differenze in una falsa unità facilmente plasmabile dalla politica totalitaria. L’atteggiamento anti-populista di Pio XII emerge anche nelle ripetute allocuzioni al patriziato e alla nobiltà romana (34), dove difende il ruolo sia storico sia attuale delle élite e della loro cultura — non, evidentemente, l’eventuale manipolazione e cattivo uso di questo ruolo da parte di élite immorali e prevaricatrici — a fronte di ogni critica preconcetta di tipo populista.
Al contrario negli anni 1950 del populismo brasiliano «il vertice della Chiesa Cattolica brasiliana fu cooperatore e legittimatore» (35). La Conferenza Episcopale Brasiliana, fondata nel 1952, è la creazione del vescovo ausiliare di Rio de Janeiro mons. Câmara, il quale ne fa il primo esempio mondiale d’istituzione la cui voce sovrasta quasi completamente quella dei singoli vescovi. Fino alla morte di Pio XII nei suoi documenti il Magistero del Papa è sostanzialmente ignorato. Mons. Câmara è lo stesso sacerdote che abbiamo incontrato come segretario del partito delle «camicie verdi», e che diventerà poi una celebrità mondiale come arcivescovo di Olinda e Recife e alto protettore della «teologia della liberazione» d’ispirazione marxista (36). Sbaglia chi liquida la sua avventura nelle «camicie verdi» come un peccato di gioventù. Al contrario l’itinerario dal modernismo culturale del partito di Salgado al populismo, e dal populismo al socialismo, ha una sua coerenza interna e Câmara non è stato certo l’unico intellettuale brasiliano a percorrerlo.
Nell’Autoritratto filosofico che arricchisce — insieme a tanti altri documenti pertinenti — l’edizione italiana del cinquantenario, Corrêa de Oliveira afferma di Rivoluzione e Contro-Rivoluzione che «il suo tema non aveva relazioni prossime con una qualche problematica dell’attualità brasiliana nel 1959, anno in cui è stata pubblicata» (37). In un’attenta ricostruzione della sua genesi — anch’essa pubblicata in occasione del cinquantenario — Caio Vidigal Xavier da Silveira, uno dei collaboratori più vicini all’autore, riferisce che semmai «la redazione è legata ai viaggi che il dottor Plinio [Corrêa de Oliveira] fece in Europa nel 1950 e 1952» (38). Nel corso di questi viaggi si rese conto che alcuni interlocutori europei di scuola contro-rivoluzionaria «lo guardavano un po’ dall’alto in basso» (39): la loro genealogia intellettuale risaliva almeno al secolo XIX, mentre «il piccolo movimento brasiliano sembrava nato ieri» (40). Venne così in mente a Corrêa de Oliveira di predisporre una sorta di «biglietto da visita» (41) da lasciare a questi interlocutori: fu questa la prima idea di Rivoluzione e Contro-Rivoluzione.
Chi scrive, tuttavia, lo fa sempre in un contesto storico e geografico determinato, per quanto il suo scopo non sia quello di affrontare i problemi del contesto. E il contesto brasiliano degli anni 1950 è quello del populismo. Il gruppo di amici di Corrêa de Oliveira che aveva contrastato fin dagli anni 1920 il modernismo artistico-letterario e l’«integralismo» delle «camicie verdi» prende la guida della lotta contro il populismo. La rivista diretta da Corrêa de Oliveira, Catolicismo, costituisce di fatto negli anni 1950 il principale veicolo in Brasile della presentazione articolata e apologetica del magistero di Pio XII, e di una critica cattolica sistematica — senza che siano attaccati in esplicito né vescovi né singoli uomini politici — alle idee populiste sul piano sia culturale sia religioso e politico.
Nel clima del populismo, Catolicismo svolge un’opera sistematica di difesa del ruolo delle élite e di lotta contro l’involgarimento della cultura. Vanno in questa direzione anzitutto i commenti di Corrêa de Oliveira alle allocuzioni alla nobiltà e al patriziato romano di Pio XII (42), i quali suscitano fra l’altro l’apprezzamento di Don Pedro Henrique de Orléans e Bragança (1909-1981), capo della Casa Imperiale del Brasile, due dei cui figli diventeranno poi stretti collaboratori di Corrêa de Oliveira. Quest’ultimo — pur ribadendo l’insegnamento del Magistero cattolico secondo cui la regalità sociale di Gesù Cristo può essere perseguita attraverso qualunque forma legittima di governo — è di famiglia monarchica, partecipa a iniziative monarchiche fin dagli anni del Liceo e considera l’avversione di principio per la monarchia come un aspetto fra i più deteriori dell’odio populista per le élite. Don Pedro Henrique firma nel 1960 un’importante prefazione all’edizione francese di Rivoluzione e Contro-Rivoluzione (43),ora tradotta in italiano per l’edizione del cinquantenario curata da Cantoni (44). Sempre nel filone anti-populista di Catolicismo si situa la serie Ambientes, costumes, civilizaçoes in cui partendo da immagini, fotografie, opere artistiche, episodi storici e film il pensatore brasiliano mostra l’influsso delle tendenze, dell’ambiente, dell’arte e del gusto nella formazione della mentalità e della cultura.
L’architettura di Rivoluzione e Contro-Rivoluzione riposa su due architravi. La prima, già menzionata e per così dire orizzontale, è quella delle tre fasi della Rivoluzione, cui poi sarà aggiunta la IV Rivoluzione. La seconda, verticale, scava in profondità all’interno di ciascuna fase del processo rivoluzionario e svela come la Rivoluzione non si riduca alla sua parte più visibile, i fatti. Contrariamente a quanto afferma la teoria marxista del primato della prassi, dietro i fatti ci sono le idee. Non è la prassi a produrre le dottrine, ma sono le dottrine a produrre la prassi. Ma neppure le dottrine costituiscono la radice ultima del processo rivoluzionario. Dietro le idee vi sono quelle che il pensatore brasiliano chiama «tendenze», rappresentate principalmente dall’orgoglio e dalla sensualità. Secondo una citazione prediletta da Corrêa de Oliveira, tratta dal romanzo del 1914 Le Démon de midi di Paul Bourget (1852-1935), «bisogna vivere come si pensa se no, prima o poi, si finisce col pensare come si è vissuto» (45).
Anche questo secondo elemento architettonico dell’opera fondamentale di Corrêa de Oliveira vale sia per la Rivoluzione sia per la Contro-Rivoluzione. Il processo contro-rivoluzionario di riconquista della verità cattolica non può partire semplicemente dalla politica, ma deve rifare tutto il cammino all’inverso: restaurare buone tendenze, perché ne nascano buone idee e quindi buone pratiche tanto nella vita personale come in quella culturale, sociale e politica. Se aspetto essenziale del populismo è l’involgarimento degli ambienti e dei costumi, al cuore di Rivoluzione e Contro-Rivoluzione si situa l’idea che, nella logica del partire dalle tendenze per arrivare alle idee e ai fatti, un processo contro-rivoluzionario non potrà che muovere da una riforma dei gusti, dell’educazione, dell’arte, degli ambienti e della cultura: una riforma, in altre parole, del modo di accostarsi alla bellezza. Mentre il populismo — attaccando e deridendo le élite — proclama di volere abbassare la cultura di élite al livello della cultura di massa, la Contro-Rivoluzione secondo Corrêa de Oliveira deve piuttosto mirare a elevare la moderna cultura di massa, per quanto possibile, al livello della cultura delle élite.
Con queste riflessioni Corrêa de Oliveira s’inserisce in un dibattito culturale tipico degli anni 1950 e 1960. La discussione sul ruolo negativo o positivo della popular culture è in quegli anni al centro della riflessione della Scuola di Francoforte con i filosofi e sociologi tedeschi Theodor Wiesengrund Adorno (1903-1969) e Max Horkheimer (1895-1973), due autori letti con attenzione e ripetutamente citati — quanto all’impostazione dei problemi, e senza condividerne le soluzioni — anche dal Pontefice regnante (46). Il maggiore sociologo brasiliano del secolo XX, Gilberto de Mello Freyre (1900-1987), negli stessi anni riflette sul ruolo dell’arte, della cultura, del costume e perfino della cucina nel conferire ai popoli la loro peculiare identità e nello spiegarne scelte storiche fondamentali che rimarrebbero altrimenti incomprensibili (47). Alcune idee di Freyre sono molto lontane da Corrêa de Oliveira, ma i due pensatori si conoscevano e si stimavano. Con Adorno e Horkheimer la lontananza è ancora maggiore. Se però le risposte sono molto lontane — molti oggi direbbero che quelle di Horkheimer e Adorno sono semplicemente sbagliate (48) — sono vicine le domande: quanto influiscono sulle idee e sui fatti le tendenze, e quindi l’arte, il costume, gli ambienti? Freyre, i pensatori della Scuola di Francoforte e Corrêa de Oliveira sono d’accordo nel rispondere che influiscono molto, e che chi trascura questa influenza sbaglia.
L’edizione italiana del cinquantenario di Rivoluzione e Contro-Rivoluzione include opportunamente tra le appendici l’opera postuma, pubblicata per la prima volta nel 1998, in italiano, Note sul concetto di Cristianità (49). Qui Corrêa de Oliveira ritorna su questo aspetto essenziale di Rivoluzione e Contro-Rivoluzione: «le forme, i colori, i suoni, gli odori e i sapori» (50) e «gli oggetti di cui [l’uomo] si circonda» (51) sono elementi essenziali nella formazione delle tendenze: «Un mobile comodo è quello che serve solo al corpo: un mobile elegante è quello che serve anche all’anima. Un tessuto resistente, gradevole al tatto, adatto al clima, soddisfa il corpo. Ma l’anima ha esigenze proprie e chiede che sia bello» (52).
Secondo Cantoni, è questo «forse il principale aspetto di novità» (53) di Rivoluzione e Contro-Rivoluzione. Se la tematica delle tendenze e della loro formazione trova antecedenti remoti nel dibattito antico e medioevale sulle inclinationes e in quello sociologico sulla ritualità della vita quotidiana a partire da Émile Durkheim (1858-1917), precedenti e contesti più prossimi dicono riferimento alla polemica di de Figueiredo contro l’imbarbarimento della cultura in Brasile, al populismo degli anni 1950 e alle controversie suscitate da scelte di organismi e di dirigenze ecclesiastiche che avevano aderito toto corde al populismo.
Vidigal Xavier da Silveira sottolinea anche l’importanza di una letteratura di lingua francese nell’itinerario che porta il giovane Corrêa de Oliveira a scoprire il ruolo cruciale degli ambienti, dell’arte e delle memorie nel formare le tendenze (54). A chi conosce l’opera di Corrêa de Oliveira è noto il riferimento al romanziere belga Joris-Karl Huysmans (1848-1907) (55) il cui itinerario dal decadentismo, che nel suo caso lo aveva portato perfino a esplorare il satanismo (56), alla fede cattolica anticipa quello di de Figueiredo in Brasile. Vidigal Xavier da Silveira aggiunge il riferimento alla lettura di Marcel Proust (1871-1922) (57), le cui idee sono evidentemente lontane da Rivoluzione e Contro-Rivoluzione, ma che incuriosisce Corrêa de Oliveira per la sua capacità di mostrare come i comportamenti e le idee nascono da atmosfere cariche di simboli e di memoria.
Rivoluzione e Contro-Rivoluzione — come le appendici scelte da Cantoni per l’edizione italiana del cinquantenario confermano — non è dunque solo un bel libro: un’espressione che, come abbiamo visto, il riferimento all’estetica cognitiva permette di considerare tutt’altro che generica. È anche un libro sulla bellezza e sulla via pulchritudinis, che Corrêa de Oliveira percorre attraverso tutti i suoi sentieri (58). Dalla bellezza della natura a quella dell’arte, dalla bellezza delle vite sante — l’edizione curata da Cantoni moltiplica giustamente i documenti che ripercorrono l’epopea del santo prediletto dal pensatore brasiliano, san Luigi Maria Grignion de Montfort (1673-1716) — fino alla bellezza delle istituzioni della Cristianità.
Il tema della via pulchritudinis ha un ruolo centrale nel magistero di Benedetto XVI. A proposito, per esempio, delle «cattedrali, vera gloria del Medioevo cristiano» (59), il Pontefice ha sottolineato nel corso dell’udienza generale del 18 novembre 2009 come i capolavori del romanico mirassero a «suscitare nelle anime impressioni forti, sentimenti che potessero incitare a fuggire il vizio, il male, e a praticare la virtù, il bene» (60) e perfino a fare «gustare un anticipo della beatitudine eterna» (61). Quanto alle «cattedrali gotiche» (62), «mostravano una sintesi di fede e di arte armoniosamente espressa attraverso il linguaggio universale e affascinante della bellezza, che ancor oggi suscita stupore. […] Lo slancio verso l’alto voleva invitare alla preghiera ed era esso stesso una preghiera. […] Dalle vetrate dipinte una cascata di luce si riversava sui fedeli per narrare loro la storia della salvezza e coinvolgerli in questa storia» (63). «Possiamo comprendere meglio il senso che veniva attribuito a una cattedrale gotica, considerando il testo dell’iscrizione incisa sul portale centrale di Saint-Denis, a Parigi: “Passante, che vuoi lodare la bellezza di queste porte, non lasciarti abbagliare né dall’oro, né dalla magnificenza, ma piuttosto dal faticoso lavoro. Qui brilla un’opera famosa, ma voglia il cielo che quest’opera famosa che brilla faccia splendere gli spiriti, affinché con le verità luminose s’incamminino verso la vera luce, dove il Cristo è la vera porta”» (64). «La forza dello stile romanico e lo splendore delle cattedrali gotiche ci rammentano che la via pulchritudinis, la via della bellezza, è un percorso privilegiato e affascinante per avvicinarsi al Mistero di Dio. Che cos’è la bellezza, che scrittori, poeti, musicisti, artisti contemplano e traducono nel loro linguaggio, se non il riflesso dello splendore del Verbo eterno fatto carne? Afferma sant’Agostino [354-430]: “Interroga la bellezza della terra, interroga la bellezza del mare, interroga la bellezza dell’aria diffusa e soffusa. Interroga la bellezza del cielo, interroga l’ordine delle stelle, interroga il sole, che col suo splendore rischiara il giorno; interroga la luna, che col suo chiarore modera le tenebre della notte. Interroga le fiere che si muovono nell’acqua, che camminano sulla terra, che volano nell’aria: anime che si nascondono, corpi che si mostrano; visibile che si fa guidare, invisibile che guida. Interrogali! Tutti ti risponderanno: Guardaci: siamo belli! La loro bellezza li fa conoscere. Questa bellezza mutevole chi l’ha creata, se non la Bellezza Immutabile?” (Sermo CCXLI, 2: PL 38, 1134)» (65).
Sulla bellezza il Papa è tornato nel viaggio che ha compiuto nella Repubblica Ceca dal 26 al 28 settembre 2009. «Che cosa attira tante persone a Praga — si è chiesto il Pontefice — se non la sua bellezza?» (66). «La stupefacente bellezza delle sue chiese, del castello, delle piazze e dei ponti non possono che orientare a Dio le nostre menti. La loro bellezza esprime fede; sono epifanie di Dio che giustamente ci permettono di considerare le grandi meraviglie alle quali noi creature possiamo aspirare quando diamo espressione alla dimensione estetica e conoscitiva del nostro essere più profondo» (67).
Meditazione sulla memoria storica della cristianità e sulla bellezza, sul buono e sul bello s’incontrano a proposito del Castello di Praga, su cui il Papa torna nell’udienza del 30 settembre 2009 in Piazza San Pietro, in cui traccia un bilancio del suo viaggio nella Repubblica Ceca. «Il Castello di Praga, straordinario sotto il profilo storico e architettonico, suggerisce un’ulteriore riflessione più generale: esso racchiude nel suo vastissimo spazio molteplici monumenti, ambienti e istituzioni, quasi a rappresentare una polis, in cui convivono in armonia la Cattedrale e il Palazzo, la piazza e il giardino […] l’ambito civile e quello religioso, non giustapposti, ma in armonica vicinanza nella distinzione» (68). Vi è qui una profonda lezione sulla bellezza non solo degli edifici ma delle istituzioni dell’Europa cristiana, costruite nei secoli dall’incontro fra fede e ragione, distinte ma armonicamente vicine, che diventa incontro — non fusione, e tanto meno confusione — della Cattedrale e del Palazzo o, come si sarebbe detto in altra epoca e in altro linguaggio, dell’altare e del trono.
La bellezza della Cristianità — la bellezza delle cattedrali e dei castelli — rifulge, a vent’anni dalla fine dell’impero comunista sovietico nel 1989, sulle sinistre rovine del comunismo, esito ultimo della sanguinosa volgarità del moderno. È una riflessione che il Papa ci ha voluto proporre da Praga. È anche il cuore di Rivoluzione e Contro-Rivoluzione che ancora batte per la Chiesa, per la Cristianità e per ogni militante contro-rivoluzionario disposto a combattere la buona, la vera, la bella battaglia sotto la bandiera di Cristo Re e di Maria Regina. per la maggior gloria di Dio anche sociale.
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(1) Benedetto XVI, Incontro con gli artisti nella Cappella Sistina, del 21-11-2009.
(2) Cfr. Plinio Corrêa de Oliveira, Rivoluzione e Contro-Rivoluzione. Edizione del cinquantenario (1959-2009) con materiali della «fabbrica» del testo e documenti integrativi, a cura di Giovanni Cantoni, Sugarco, Milano 2009.
(3) Il dibattito sul tema, per quanto riguarda la conversione religiosa, inizia con un articolo del 1965 che suscita un vasto dibattito: John Lofland – Rodney Stark, Becoming a World-Saver. A Theory of Conversion to a Deviant Perspective, in American Sociological Review, vol. 30, 1965, pp. 862-875.
(4) Marco Tangheroni, Della storia. In margine ad aforismi di Nicolás Gomez Dávila, Sugarco, Milano 2008, p. 88.
(5) Cfr. Enrico di Robilant, Scelte e figure nelle teorie, in Giorgio Derossi – Marco M. Olivetti – Andrea Poma – Giuseppe Riconda (a cura di), Trascendenza Trascendentale Esperienza. Studi in onore di Vittorio Mathieu, CEDAM, Padova 1995, pp. 543-552.
(6) Cfr. Randall Collins, The Sociology of Philosophies. A Global Theory of Intellectual Change, The Belknap Press of Harvard University Press, Cambridge (Massachusetts) – Londra 2002.
(7) Cfr. per esempio Richard H. Brown – Stanford M. Lyman (a cura di), Structure, Consciousness, and History, Cambridge University Press, Cambridge 1978.
(8) Cfr. R. Collins, Interaction Ritual Chains, Princeton University Press, Princeton 2004.
(9) Sulla I, II e III Rivoluzione cfr. P. Corrêa de Oliveira, op. cit., pp. 46-51.
(10) Cfr. ibid., pp. 177-185.
(11) Pio XII, Discorso «Nel contemplare» agli uomini di Azione Cattolica d’Italia, del 12-10-1952, in Discorsi e Radiomessaggi di Sua Santità Pio XII, vol. XIV, pp. 353-362.
(12) Benedetto XVI, Discorso ai rappresentanti della scienza, Aula Magna dell’Università di Regensburg [Ratisbona], del 12-9-2006, in Insegnamenti di Benedetto XVI,vol. II, 2, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2007, pp. 257-267 [testo tedesco; traduzione italiana disponibile sul sito Internet della Santa Sede all’indirizzo abbreviato www.tinyurl.com/hmq6w].
(13) Cfr. Idem, Lettera enciclica Spe salvi sulla speranza cristiana, del 30-11-2007.
(14) Pontificio Consiglio per la Cultura, La Via pulchritudinis, Cammino privilegiato di evangelizzazione e di dialogo, documento finale dell’Assemblea Plenaria del 27-28 marzo 2006, disponibile sul sito Internet della Santa Sede all’indirizzo abbreviato http://tinyurl.com/yfzf6xl, II.3, che cita «Lezione per il Premio Nobel, in Opere, t. IX, YMCA Press, Vermont-Paris 1981, p. 9» (ibid., nota 13: il titolo è citato in italiano ma si tratta evidentemente di traduzione dall’inglese).
(15) Pontificio Consiglio per la Cultura, op. cit., II.3, che cita Hans Urs von Balthasar, Gloria. I. Gli aspetti estetici della Rivelazione, trad. it., Jaca Book, Milano 1975, pp. 10-11.
(16) Ibidem.
(17) Cfr. supra, nota 14.
(18) Cfr. Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Veritatis Splendor circa alcune questioni fondamentali dell’insegnamento morale della Chiesa, del 6-8-1993.
(19) Pontificio Consiglio per la Cultura, op. cit., II, 2.
(20) Benedetto XVI, Incontro con gli artisti nella Cappella Sistina, cit.
(21) Amina Di Munno, Letteratura e arti visive nel modernismo luso-brasiliano, in Antonella Cancellier – Renata Londero (a cura di), Atti del XIX convegno AISPI [Associazione Ispanisti Italiani], Roma, (16-18 settembre 1999), Unipress, Padova, 2001, pp. 267-274 (p. 271).
(22) Ibid., p. 272.
(23) Ibidem.
(24) Nota l’importanza del mito tribalista e indio nella costruzione dell’ideologia delle «camicie verdi» João Alfredo de Sousa Montenegro, O Integralismo no Ceará. Variações Ideológicas, Secretaria de Cultura e Desporto, Fortaleza 1986. Sui «riti» e simboli dell’Integralismo cfr. pure Hélgio Trindade, Integralismo (O fascismo brasileiro na década de 30), Difusão Européia do Livro, San Paolo 1974; e Rosa Maria Feiteiro Cavalari, Integralismo. Ideologia e organização de um partido de massa no Brasil (1932-1937), EDUSC, Bauru (San Paolo) 1999.
(25) Nel 1937 Corrêa de Oliveira scrive un ampio Relatorio Imparcial ao Episcopato Brasileiro contro l’integralismo (rimasto inedito, del cui dattiloscritto la mia collezione conserva una copia), da cui mons. Gastão Liberal Pinto (1884-1945), vescovo di São Carlos, nello Stato di San Paolo, ricava — trascrivendone integralmente numerosi paragrafi e riassumendone altri — una Carta de Dom Gastão Liberal Pinto aos Bispos do Brasil sobre o Integrismo, del 26 agosto 1937, inviata a tutti i confratelli vescovi brasiliani ma rimasta anch’essa inedita fino alla pubblicazione nel 1984 sul Boletim do CEPEHIB (Centro de Pesquisas e Estudios de Historia da Igreja no Brasil), anno VI, n. 3 (22), luglio 1984, pp. 3-9.
(26) Su queste vicende cfr. il mio Una battaglia nella notte. Plinio Corrêa de Oliveira e la crisi del secolo XX nella Chiesa, Sugarco, Milano 2008, pp. 57-60.
(27) L’allusione al presidente della Camera dei Deputati, on. Gianfranco Fini, non è casuale.
(28) Cfr., in particolare, Michael L. Conniff, Urban Politics in Brazil. The Rise of Populism, 1925-1945, University of Pittsburgh Press, Pittsburgh 1981; Idem (a cura di), Latin American Populism in Comparative Perspective, University of New Mexico Press, Albuquerque (New Mexico) 1982; Idem (a cura di), Populism in Latin America, University of Alabama Press, Tuscaloosa (Alabama) 1999.
(29) Cfr. sul punto Pierre-André Taguieff, L’Illusion populiste. Essai sur les démagogies de l’âge démocratique, Flammarion, Parigi 20072.
(30) Cfr., con riferimento specifico ai rapporti con le religioni, Robert S. Ellwood, The Fifties Spiritual Marketplace. American Religion in a Decade of Conflict, Rutgers University Press, New Brunswick (New Jersey) 1997.
(31) Ripubblicato da Alleanza Cattolica nel 1991: Pio XII, I sommi postulati morali di un retto e sano ordinamento democratico. Radiomessaggio natalizio «Benignitas et humanitas», del 24-12-1944, Cristianità, Piacenza 1991.
(32) Ibid., p. 11.
(33) Ibidem.
(34) Le allocuzioni sono raccolte e commentate in P. Corrêa de Oliveira, Nobiltà ed élites tradizionali analoghe nelle allocuzioni di Pio XII al patriziato e alla nobiltà romana, trad. it., Marzorati, Milano 1993.
(35) Così Rodrigo Coppe Caldeira, O influxo ultramontano no Brasil. O pensamento de Plínio Corrêa de Oliveira, tesi di laurea in Scienze Religiose, Universidade Federal de Juiz de Fora, Juiz de Fora (Minas Gerais) 2005, p. 78.
(36) Cfr. il mio Come i progressisti «non» vinsero al Concilio Ecumenico Vaticano II. Una recensione di «Roma, due del mattino» di mons. Hélder Câmara, in Cristianità. Organo ufficiale di Alleanza Cattolica, anno XXXVI, n. 346, marzo-aprile 2008, pp. 3-8.
(37) P. Corrêa de Oliveira, Autoritratto filosofico, in Idem, Rivoluzione e Contro-Rivoluzione. Edizione del cinquantenario (1959-2009) con materiali della «fabbrica» del testo e documenti integrativi, cit., pp. 365-426 (p. 385).
(38) Caio Vidigal Xavier da Silveira, Como nasceu a providential obra Revolução e Contra-Revolução, in Catolicismo, anno LIX, n. 706, ottobre 2009, pp. 26-34 (p. 32). Una traduzione italiana, con lievi modifiche, è stata pubblicata su Tradizione Famiglia Proprietà, anno 15, n. 3, ottobre 2009, pp. 14-19 con il titolo Come nacque Rivoluzione e Contro-Rivoluzione.
(39) Ibid., p. 33.
(40) Ibidem.
(41) Ibidem.
(42) Saranno rielaborati e raccolti più tardi nell’ultima opera dell’autore: P. Corrêa de Oliveira, Nobiltà ed élites tradizionali analoghe nelle allocuzioni di Pio XII al patriziato e alla nobiltà romana, cit.
(43) Cfr. Don Pedro Henrique di Orléans e Bragança, Préface a Plinio Corrêa de Oliveira, Révolution et Contre-Révolution, trad. francese, Éditions Catolicismo, Campos (Rio de Janeiro) 1960, pp. 11-15.
(44) Cfr. Don Pedro Henrique di Orléans e Bragança, Préface, in P. Corrêa de Oliveira, Rivoluzione e Contro-Rivoluzione. Edizione del cinquantenario (1959-2009) con materiali della «fabbrica» del testo e documenti integrativi, cit., pp. 433-437.
(45) Paul Bourget, Il demone meridiano, trad. it., Salani, Firenze 1956, p. 395.
(46) Cfr. per esempio Benedetto XVI, Lettera enciclica Spe salvi, cit., n. 42.
(47) Lo studio monumentale della transizione brasiliana dalla monarchia alla repubblica di Gilberto Freyre, Ordem e progresso. Processo de desintegração das sociedades patriarcal e semipatriarcal no Brasil sob o regime de trabalho livre. Aspectos de um quase meio século de transição do trabalho escravo para o trabalho livre; e da monarquia para a república, José Olympio, Rio de Janeiro 1957, esempio tipico del metodo del sociologo brasiliano che dà rilievo agli elementi culturali e di ambiente, e non solo a quelli economici, per spiegare i processi sociali, precede di soli due anni Rivoluzione e Contro-Rivoluzione.
(48) Cfr. il mio Brainwashing the Working Class: Vampire Comics and Criticism from Dr. Occult to Buffy, in Slayage, n. 7, dicembre 2002. La rivista è disponibile esclusivamente online: l’articolo citato si trova all’indirizzo http://slayageonline.com/essays/slayage7/Introvigne.htm.
(49) P.Corrêa de Oliveira, Note sul concetto di Cristianità. Carattere spirituale e sacrale della società temporale e sua «ministerialità», ed. it. a cura di G. Cantoni, Thule, Palermo 1998; ora in Rivoluzione e Contro-Rivoluzione. Edizione del cinquantenario (1959-2009) con materiali della «fabbrica» del testo e documenti integrativi, cit., pp. 219-242.
(50) Ibid., p. 232.
(51) Ibidem.
(52) Ibid., p. 233.
(53) G. Cantoni, Il contributo di Plinio Corrêa de Oliveira e di «Rivoluzione e Contro-Rivoluzione» allo sviluppo del pensiero e dell’azione contro-rivoluzionari, in Cristianità. Organo ufficiale di Alleanza Cattolica, anno XXXIII, n. 330-331, luglio-ottobre 2005, pp. 33-45, oggi in Idem, Per una civiltà cristiana nel terzo millennio. La coscienza della Magna Europa e il quinto viaggio di Colombo, Sugarco, Milano 2008, pp. 221-248 (p. 237).
(54) Cfr. C. Vidigal Xavier da Silveira, op. cit., p. 30.
(55) Cfr. P. Corrêa de Oliveira, Huysmans — I, in O Legionário, n. 93, 31 gennaio 1932, p. 1; Idem, Huysmans — II, in O Legionário, n. 94, 21 febbraio 1932, p. 2.
(56) Cfr. sul punto il mio I satanisti. Storia, miti e riti del satanismo, Sugarco, Milano 2010.
(57) Cfr. C. Vidigal Xavier da Silveira, op. cit., p. 30.
(58) Cfr. pure la raccolta postuma di testi sul tema di Corrêa de Oliveira di Paulo Corrêa de Brito Filho – L. Nino Daniele – Antonio Augusto Borelli Machado -José Antonio Ureta (a cura di), A Inocência Primeva e a contemplaçao sacral do Universo no pensamento de Plinio Corrêa de Oliveira, Instituto Plinio Corrêa de Oliveira, San Paolo 2008; cfr. la mia presentazione di questo testo, «Via pulchritudinis» e spiritualità della Contro-Rivoluzione. Una nuova raccolta di testi di Plinio Corrêa de Oliveira, in Cristianità. Organo ufficiale di Alleanza Cattolica, anno XXXVII, n. 351, gennaio-marzo 2009, pp. 23-38.
(59) Benedetto XVI, La Cattedrale dall’architettura romanica a quella gotica, il retroterra teologico, Udienza Generale, del 18-11-2009.
(60) Ibidem.
(61) Ibidem.
(62) Ibidem.
(63) Ibidem.
(64) Ibidem.
(65) Ibidem.
(66) Idem, Udienza generale sul Viaggio Apostolico nella Repubblica Ceca, del 30-9-2009.
(67) Idem, Incontro con le Autorità Politiche e Civili e con il Corpo Diplomatico, Palazzo Presidenziale di Praga, 26-9-2009.
(68) Idem, Udienza generale sul Viaggio Apostolico nella Repubblica Ceca, del 30-9-2009, cit.