di Giacomo Roggeri Mermet
Ufficiale e gentiluomo: Francesco Eugenio de Roussy de Sales (1822-1915)
«Giuro solennemente di essere fedele a Dio e alla Maestà del Re Carlo Alberto [di Savoia-Carignano; 1798-1849], come pure ai suoi successori legittimi. Giuro di non abbandonare mai, né cedere la mia bandiera e di difenderla fino alla morte. Giuro ugualmente di non appartenere ad alcuna società segreta, né di farne parte in avvenire e di denunciarne l’esistenza, se ne verrò a conoscenza. Dio mi venga in aiuto». Così, nell’agosto del 1840, nella chiesa della Beata Vergine del Carmine, a Torino, Eugène-François-Félix-Joseph, conte de Roussy de Sales, prestava giuramento insieme agli altri nuovi ufficiali, prima dell’inizio della Messa, in ginocchio, con la mano poggiata sul Vangelo, dopo essersi presentato davanti al suo colonnello e avergli consegnato la sciabola. Con questo rito solenne i nuovi ufficiali sancivano la loro fedeltà al trono e all’altare: «Era come se avessi ricevuto un altro Sacramento, che mi faceva assumere nuovi obblighi e mi poneva in stato di grazia», commenterà molti anni più tardi, nelle sue memorie.
Il conte Eugenio De Roussy de Sales era nato — penultimo di sei figli, tre femmine e tre maschi — ad Annecy in Savoia il 30 aprile 1822. Aristocratico, vocato alla vita militare e di sentimenti tradizionalmente anti-liberali, apparteneva, per parte di madre, alla famiglia che diede i natali a san Francesco di Sales (1567-1622). Educato dal 1832 al 1835 nel Collegio di Chambery dei padri della Compagnia di Gesù, conclude i suoi studi a Torino nel Collegio del Carmine, detto dei nobili, retto sempre dai padri gesuiti.
Il padre di Eugenio è il marchese Félix-Léonard: nato il 14 luglio 1785, sposa nel 1813 Pauline Aléxandrine Joséphine de Sales (1786-1852), erede del castello di Thorens, in Savoia, dove viveva la famiglia di san Francesco di Sales. Pauline era l’ultima discendente dei de Sales e il marchese Félix-Léonard ottiene, per perpetuarlo, l’aggiunta del cognome della moglie da re Vittorio Emanuele II di Savoia (1820-1878) nel 1857.
Rovesciato Re Carlo X di Borbone (1757-1836) alla fine di luglio del 1830 e passata la reggenza del trono di Francia al duca d’Orléans, Luigi Filippo (1773-1850), Félix-Léonard de Roussy «[…] considerando che l’autorità del Re è disconosciuta» dichiara «[…] di cessare, per forza di cose, dalle funzioni che gli provenivano da Sua Maestà. Gap, 6 agosto 1830», ossia dalla carica di prefetto del dipartimento delle Hautes-Alpes, conferitagli dal re restaurato.
Si ritira a vita privata ad Annecy, in Savoia, per acquistare in seguito un fondo rustico nel comune di Rivalta, a venti chilometri da Torino, in località Prabernasca, affittando anche un alloggio a Torino, in via Madonna degli Angeli, oggi via Carlo Alberto. Decide di volgersi al Piemonte «[…] dove allora regnava un sovrano assoluto amico della giustizia e nemico della rivoluzione», ossia Carlo Felice di Savoia (1765-1831), e dove il primogenito, il marchese Paul-François-Jean (1817-1880), viene assegnato al ministero degli Affari Esteri, guidato dal conte Clemente Solaro della Margarita (1792-1869), per ottenere, in seguito, un brevetto di sottotenente nel Piemonte Reale Cavalleria, a Pinerolo.
La famiglia de Roussy era imparentata con i marchesi di Cavour: Josephine Françoise Philippine de Sales (1762-1849) aveva sposato il marchese Giuseppe Filippo Benso di Cavour e di Santena (1741-1807) da cui aveva avuto un solo figlio, Michele Giuseppe Antonio (1781-1850), il padre di Gustavo (1806-1864) e di Camillo Benso (1810-1861). Philippine era quindi la nonna di Camillo ed era zia di Eugenio: questo legame di parentela porta a costanti rapporti fra i de Roussy e i Benso di Cavour, non mancando però, fra loro, gravi contrasti di indole politica. Scrive de Roussy, a questo proposito, che le opinioni politiche di Camillo Benso «[…] non erano quelle della mia famiglia, né le mie».
Eugenio de Roussy si esprimeva in consonanza con il pensiero della stragrande maggioranza della nobiltà piemontese e savoiarda, fedele alla monarchia e alle antiche tradizioni. Esemplare fu l’atteggiamento a difesa del re tenuto dai nobili che accorsero a Palazzo Reale quando, nel marzo del 1821, scoppiarono i tumulti guidati dai rivoluzionari costituzionali. I nobili costituivano la classe dirigente del regno e fornivano in massima parte i quadri dell’esercito: il moto del 1821 fu per essi un vero trauma. Fra i rivoltosi, i «ventunisti» come furono chiamati, vi era qualche nobile: furono quasi tutti sottoposti a procedimento penale e condannati.
Dopo il giuramento, Eugenio De Roussy, fu assegnato alla brigata delle Guardie di servizio al palazzo del re per passare, nel 1842 — sostenuti gli esami richiesti — nell’artiglieria con il grado di sottotenente. Nel 1845, superati gli esami, venne promosso tenente e s’iscrisse alla Scuola d’Applicazione. Partecipò valorosamente alle campagne di guerra contro l’Austria del 1848 e del 1849 per dimettersi dall’esercito nel 1856, con il grado di capitano, conseguito nel 1850. Nel 1858 si sposò con Renée Ernestine de Brosses (1837-1868). Era stato decorato con due medaglie al valor militare per il coraggio dimostrato nei fatti d’arme di Rivoli e di Volta Mantovana nel 1848; era altresì cavaliere dell’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro.
Morì il 17 maggio 1915.
Le sue memorie, redatte a partire dai settant’anni di età, riguardano gli anni che vanno dal 1840 — anno della sua nomina a ufficiale — al 1856. In esse emergono la sua natura aristocratica e la sua formazione tradizionale, il disprezzo per le idee liberali ma anche l’amore che portava per il re, per la vita militare e in particolare per l’arma di artiglieria. Più volte egli ne tesse le lodi, ricordando, fra le altre, l’eroica resistenza contro i rivoluzionari francesi: «[…] quando gli Stati sardi, dopo l’invasione della Savoia, il 22 settembre 1792, dovettero difendersi, nelle Alpi, contro le armate della Repubblica Francese, l’esercito del Re, grazie alla tenacia delle truppe e alla bontà di un’artiglieria ben comandata, seppe resistere durante gli anni 1793-1794-1795-1796» e ricorda anche con gioia come l’esercito fu riorganizzato da Vittorio Emanuele I (1759-1824) all’indomani della Restaurazione. Proseguendo nel suo racconto — e trattando della condizione politica del Regno di Sardegna dopo il 1814 — non manca un accenno di disprezzo alla costituzione dell’Associazione Agraria, unica associazione ammessa dal re al di fuori delle opere pie, ma costituita quale covo per diffondere le idee liberali. Egli così la descrive: «Quest’uovo, accuratamente covato da quelli del partito liberale, finì con lo schiudersi quattro anni dopo, [1847] prima con le Riforme e, in seguito, con la Costituzione, che pose fine al regime assoluto». Le idee nuove soffiarono in particolare a opera di «avvocati e borghesi» mentre rimanevano legati alle tradizioni «il popolo minuto, specialmente quello delle campagne» e «la nobiltà», per la quale quelle idee «sembravano delle utopie». L’entusiasmo iniziale dei rivoluzionari per l’elezione di Papa beato Pio IX (1846-1878), che egli definisce «spirito generoso, carattere cavalleresco, molto patriottico, amante del vero progresso», si manifestò nelle piazze di tutta Italia con il grido di «Viva Pio IX e di Viva il Re», grido del quale i rivoluzionari «dovevano in seguito divenire sazii». Mentre si facevano dimostrazioni a Torino e a Genova e i membri della Società Agraria «[…] si agitano terribilmente», la polizia lasciava fare per ordine del re che, all’inizio del mese di ottobre del 1847, concede quelle riforme che de Roussy, pur non condividendole, considerava «ben innocenti, se le paragoniamo alle idee d’oggi». Coglie l’occasione per ricordare quell’eminente esponente del pensiero cattolico contro-rivoluzionario che fu il conte Clemente Solaro della Margarita che, proprio a seguito della nuova politica, fu allontanato dal ministero per gli Affari Esteri (1847). Le memorie proseguono quindi con una minuziosa descrizione delle operazioni militari della prima guerra d’indipendenza, nel 1848, riferendosi in particolare a quanto da lui vissuto di persona e arricchendo le descrizioni con sue considerazioni. Così, rimprovera alla classe militare di aver pensato soltanto ad «[…] assolvere con onore il proprio dovere, non avendo altra mira che questo e il successo delle nostre armi, senza preoccuparsi, nell’adempimento del proprio compito, della questione politica, il cui aspetto era rivoluzionario»; e annota che per la «[…] maniera con la quale si è costituito il Regno d’Italia, si vede che è il frutto del tradimento e dell’ingiustizia, e ciò non gli fa un bel piedestallo». Non mancano accenni polemici rivolti all’«agitatore [Giuseppe] Mazzini [1805-1872]» e al «partito repubblicano» che aveva formato, come pure a Giuseppe Garibaldi (1807-1882). Quindi, trattando degli avvenimenti rivoluzionari in Toscana e a Roma, della fuga del Papa a Gaeta (Latina), afferma: «Quale gloria [sarebbe stata] per Carlo Alberto essere il restauratore dell’ordine in Italia e di riportare il Papa a Roma!». Invece, dopo la sconfitta di Novara, il Re abdicò e raggiunse Oporto, in Portogallo, per l’esilio.
Valoroso soldato, de Roussy era un gentiluomo fedele al re, anche se non condivideva tutti i suoi ordini. Non risparmia, comunque, critiche forti ai «governi costituzionali», nei confronti dei quali «[…] si resta colpiti dalla loro costante tendenza a pendere dalla parte del disordine, fin quando, spinti dalla democrazia, vi cadono in pieno, gettando il loro paese in abissi dai quali non riescono a risalire se non rimettendo alla loro testa quelli che comunemente si chiamano retrogradi, più giustamente conservatori, pronti a rovesciarli quando le cose cominciano a rimettersi». Non meno duramente giudica il comportamento del cugino Camillo di Cavour, che nel 1852 «[…] strinse con l’avvocato Rattazzi, capo del centro sinistra, il famoso “connubbio”, che gettò nella desolazione i vecchi amici, mentre gli apriva la strada e gli offriva i mezzi disonesti coi quali unificò l’Italia, facendo di lui il più grande degli Italiani». Avverso alle istituzioni costituzionali e in particolar modo al parlamento, fu eletto, a sua insaputa, deputato nel collegio elettorale di Saint Julien en Genevois, elezione poi annullata perché mancavano trentasei ore al compimento dei suoi trent’anni. Ricevuta la comunicazione di quanto avvenuto dal conte Gustavo di Cavour si affrettò a comunicare il suo rifiuto a una nuova candidatura, che avrebbe accettato solo se il suo posto poteva essere occupato da un esponente della sinistra, «[…] essendo dell’avviso che un asino bianco valga più di un sapiente rosso». Trovò, poi, in Carlo de Viry (1809-1888), consigliere della Corte d’Appello di Nizza, il suo sostituto. Costui venne quindi eletto con una maggioranza ancora superiore a quella di de Roussy. Si professò sempre conservatore cattolico, seguace «dell’opposizione di estrema destra». Proprio nella «politica antireligiosa del governo» che lo disgustava, va ricercato il principale motivo dell’abbandono dell’esercito, dopo sedici anni di servizio, nel 1856.
Ritornato a Thorens, il castello di sua proprietà legatogli nel 1851 dalla madre, morta l’agosto dell’anno successivo a Vichy, in Francia, egli rimase sempre della sua opinione: nelle sue memorie scrisse, a proposito dell’unificazione d’Italia parole molto gravi: «L’Italia si è fatta a forza di tradimenti sotto Vittorio Emanuele II, a lui verrà tutta la gloria, mentre il vero eroe è stato Carlo Alberto, che rischiò la vita, il suo trono e il suo regno per l’emancipazione dell’Italia dal giogo austriaco. Profondamente cattolico, se fosse stato vincitore, non si sarebbe mai impadronito degli Stati della Chiesa. Dall’alto del cielo, dove mi auguro che abbia un posto, deve maledire i framassoni che hanno avuto l’audacia di dedicargli una statua nel centro di Roma».
Giacomo Roggeri Mermet
22 ottobre 2018
Per approfondire: Luigi Mondini (a cura di), Un’immagine insolita del Risorgimento dalle Memorie del Conte Eugenio de Roussy de Sales, Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito, Roma 1977.