Enrico Chiesura, Cristianità n. 428 (2024)
Sono passati trent’anni dal conflitto tribale e dal relativo genocidio incrociato che dal 7 aprile al 15 luglio 1994 ha insanguinato il Ruanda, il piccolo Paese dell’Africa centro-orientale, causando un numero di vittime stimato fra le ottocentomila e il milione. Un anniversario passato abbondantemente sottotraccia, se rapportato all’enormità di quanto avvenuto. Enormità espressa non solo dai numeri, considerato che i morti hanno superato il 10% della popolazione totale dell’epoca, stimata in poco più di sette milioni, ma anche dal fatto che la tragedia si è consumata nello spazio di soli cento giorni, nonché dalle modalità con cui questa si è attuata. Il massacro, infatti, non è avvenuto con tecniche di eliminazione di massa come in occasione di eventi di analoga portata (1), ma su base singola, un omicidio dopo l’altro, a colpi d’arma da fuoco oppure a colpi di machete o di bastoni chiodati: tutti elementi che fanno di questo dramma un unicum e al tempo stesso qualcosa di incredibile. Come sia potuto accadere è tuttora oggetto di indagine, anche se a oggi non è stato possibile giungere a una lettura condivisa della genesi delle stragi e soprattutto delle responsabilità a esse correlate. Ciò premesso, senza la pretesa di fornire risposte che in trent’anni non sono ancora state date, proviamo quantomeno a inquadrare gli avvenimenti, cogliendo le cause più macroscopiche e remote che li hanno preparati, per indagare sulle quali è necessario tornare indietro almeno di un secolo, agli albori della colonizzazione di quest’area geografica.
Il Ruanda fa parte dei territori che, insieme al Burundi e al Tanganica — il territorio che, unito all’arcipelago di Zanzibar, ha dato origine alla Tanzania —, vennero assegnati alla Compagnia Tedesca dell’Africa Orientale (2) dalla Conferenza di Berlino (1884-1885), la convention internazionale che suggellò la spartizione del continente africano tra le principali potenze europee, dopo che l’esploratore anglo-americano Henry Morton Stanley (1841-1904) (3), primo uomo bianco a calcarne il suolo, aveva esplorato la regione nel corso della spedizione che lo aveva portato a risolvere uno degli ultimi misteri africani: le fonti e il tracciato seguito dal fiume Congo, che Stanley percorse fino alla foce. Di fatto, il controllo coloniale tedesco sulla regione fu blando e di breve durata, essenzialmente per due motivi: da una parte la reattività delle popolazioni locali, combattive e refrattarie a ogni tentativo di assoggettamento; dall’altra, lo scoppio della Grande Guerra (1914-1918), che si concluse con la sconfitta della Germania e, quindi, la perdita dei suoi possedimenti coloniali, spartiti fra le potenze vincitrici. Mentre il Tanganica, occupato già nel corso del conflitto dalle truppe del Regno Unito, venne integrato nell’Impero britannico per effetto del mandato conferitogli dalla Società delle Nazioni nel 1922, il Ruanda e il Burundi vennero assegnati al Belgio (4), che dopo tre anni ne dispose l’annessione al confinante Congo Belga (5), considerandoli una sua naturale estensione. Anche i belgi, come precedentemente i tedeschi, dovettero fare i conti con lo spirito combattivo e indipendente delle popolazioni locali, tanto da indurli in un primo momento a concedere ampia autonomia a queste ultime, astenendosi dal tentativo di imporre loro la trasformazione in una vera e propria colonia. La tolleranza durò tuttavia pochi anni, per lasciare spazio a una profonda riorganizzazione dei territori, volta ad attuarne la progressiva omologazione, secondo i canoni della colonizzazione già collaudati in Congo.
La chiave di lettura della riorganizzazione del Ruanda-Burundi è riassumibile nella formula «divide et ìmpera» (6), cioè il tentativo di scardinare la coesione sociale fra le due principali etnìe presenti nella regione: i tutsi e gli hutu (7). Operando una grossolana semplificazione, i primi erano prevalentemente allevatori-guerrieri, mentre i secondi per lo più dediti all’agricoltura: i belgi lavorarono su questa sommaria distinzione di tipo sociologico, arricchendola di ulteriori elementi, sì da scavare progressivamente un baratro fra gli uni e gli altri. Scopo finale era quello di puntare sull’etnìa tutsi, minoritaria ma socialmente più elevata, perché di fatto costituiva una sorta di élite naturale, un’aristocrazia del Paese, per farne un supporto dell’autorità belga, creando il vivaio dei quadri amministrativi necessari per il funzionamento della colonia. Presupposto dell’operazione era l’idea, sempre più diffusa a partire dal secolo XIX, che sussistesse un fondamento scientifico alla catalogazione delle razze umane.
Ciò avveniva sulla base delle fattezze fisiche, delle caratteristiche genetiche, della pigmentazione della pelle, delle capacità cognitive, delle attitudini lavorative e di ogni altro elemento utile a distinguere gli individui in categorie più o meno evolute, secondo una scala di perfezione astratta e arbitraria. In tale ottica, i tutsi risultavano più rispondenti agli stereotipi razziali secondo cui l’evoluzione di un tipo umano sarebbe direttamente proporzionale alla sua somiglianza con il tipo europeo. Ecco allora che le caratteristiche dei tutsi — alti, magri, belli, eleganti, con labbra e con nasi fini — fornivano elementi utili di contrasto, anche esteriore, rispetto agli hutu, prevalentemente bassi, tozzi, con il naso schiacciato e le labbra prominenti. Per conseguire questo obiettivo fu messa al lavoro una moltitudine di etnologi, che censirono in modo capillare la popolazione, misurarono altezze, nasi, bocche, orecchie e crani, per poi arrivare a decretare a quale etnia ciascuno appartenesse. Il successivo passaggio, avviato dal governo a partire dal 1931, fu l’inserimento dell’identità etnica nei documenti personali, né più né meno di ciò che sarebbe avvenuto di lì a poco in Germania nei confronti degli ebrei: i presupposti ideologici saranno i medesimi.
La rigida distinzione introdotta dai belgi non trovava riscontro nella precedente struttura dei regni ruandese e burundese, senza dimenticare che tutsi e hutu non erano neppure le uniche etnie presenti (8). Tuttavia, l’aspetto di contrasto più stridente con la narrazione che si voleva imporre era costituito dalla comunanza di lingua, di usi e di tradizioni, persino della medesima fede ancestrale nell’unico Dio Imana: tutti elementi che rendevano ancora più anacronistico l’intervento del colonizzatore, perché inteso a introdurre una netta separazione dove regnava una sostanziale armonia sociale. Fino ad allora, infatti, l’equilibrio fra le etnìe era garantito anche dalla cultura di appartenenza clanica (9) e dalla mobilità sociale, in forza della quale un hutu poteva trasformarsi in allevatore, acquistando terre e bestiame, mentre un tutsi poteva mettersi a lavorare la terra, anche alle dipendenze di un hutu. Nulla impediva, inoltre, le unioni interetniche, da cui nascevano soggetti le cui caratteristiche genetiche risultavano meno marcate, tanto da richiedere l’intervento di un etnologo per certificarne l’appartenenza.
Il risultato pratico del censimento attuato a partire dal 1931, con la conseguente certificazione di appartenenza etnica, fu quello di bloccare la mobilità fra i due gruppi, inchiodando ciascuno sulla base della rispettiva certificazione. Da questo momento l’amalgama fra le due etnìe sarebbe stato interdetto e l’accesso allo studio sarebbe diventato selettivo, favorendo l’alfabetizzazione dei tutsi rispetto a quella degli hutu. Inoltre, la maggioranza hutu sarebbe stata impiegata esclusivamente nel lavoro agricolo manuale, mentre ai tutsi sarebbe stato riservato l’accesso agli incarichi amministrativi coloniali. Solo gli hutu, infine, potevano essere sottoposti alla «chicotte» (10), la punizione fisica tanto efficacemente praticata da decenni in Congo in caso di infrazione alle disposizioni del regime coloniale. A rafforzare la divisione etnica concorreva la diffusione e l’insegnamento di teorie pseudo-scientifiche circa l’origine delle razze e la conseguente distinzione dei rispettivi ruoli sociali: i tutsi erano descritti dai colonizzatori come capi naturali, gli hutu come soggetti destinati per natura a essere sottomessi. Questa politica durò circa un trentennio, lo spazio di quasi due generazioni e fu sufficiente a distruggere la coesione sociale a cui queste popolazioni erano abituate da tempo immemorabile.
Tra la fine degli anni 1950 e i primi anni 1960 maturarono gli eventi che portarono all’indipendenza del Ruanda, nel contesto della generale decolonizzazione del continente africano (11), eventi che riassumiamo limitandoci a quelli essenziali.
Il primo, probabilmente il più significativo, è che l’indipendenza del Ruanda coincise con un ribaltamento dei rapporti etnici e l’affermazione della componente maggioritaria hutu, grazie al fatto che da anni questa si era organizzata politicamente, dando vita al partito Parmehutu (12). Questa nuova formazione politica era inizialmente riuscita ad imporsi nelle elezioni locali, dominandole, per poi affermarsi in quelle del 1961, alla vigilia dell’indipendenza, ottenendo 35 seggi parlamentari su 44. A quattro anni di distanza, nel 1965, il Parmehutu diventava l’unico partito legale del Paese, suggellando la propria supremazia nel nuovo Stato indipendente e ottenendo questa volta l’assegnazione di tutti i seggi dell’Assemblea Nazionale. L’ascesa progressiva degli hutu creava il presupposto, già all’indomani dell’indipendenza, per un regolamento dei conti a danno dei tutsi, a causa delle discriminazioni e dei soprusi patiti per così tanto tempo. In forza di ciò si assistette a una progressiva escalation di violenze, in cui atti di giustizia sommaria e di vera e propria vendetta personale si consumavano un po’ dappertutto, senza timore di sanzioni da parte di un regime compiacente, se non connivente. Già questi primi fatti di sangue causarono un enorme numero di vittime e l’esodo di una massa di profughi tutsi verso i Paesi confinanti, soprattutto l’Uganda e il Burundi. Quest’ultimo Paese veniva così coinvolto nel dramma, anche se questa volta, a farne le spese, sarebbero stati gli hutu. Nel 1972, infatti, un tentativo di presa di potere da parte loro, volto a replicare in Burundi una governance analoga a quella ruandese, veniva represso nel sangue, provocando la morte di un numero spaventoso di persone, stimato in circa duecentomila.
Arriviamo così al 1973, quando in Ruanda si afferma il generale hutu Juvénal Habyarimana (1937-1994) che, dopo avere guidato un colpo di Stato militare, instaurava un regime che al problema interetnico aggiungeva quello di un deficit di democrazia ancora più grave di quello precedente, reprimendo con la massima durezza qualunque forma di dissidenza, anche se proveniente dalla maggioranza hutu, cui egli stesso apparteneva. Habyarimana rimase al potere ininterrottamente ventun’anni, dal 1973 al 1994. Nel frattempo, nella confinante Uganda nasceva il Fronte Patriottico Ruandese (FPR), partito politico emanazione dei fuoriusciti tutsi, guidato da Paul Kagame (13), che il 1° ottobre 1990, dopo aver attraversato il confine, diede avvio al conflitto civile che si sarebbe formalmente concluso solo tre anni più tardi, il 3 ottobre 1993, con la firma degli accordi di Arusha (14).
Si giunge così alla vigilia della carneficina di trent’anni fa (15). Il fatto scatenante avvenne il 6 aprile 1994, quando l’aereo che trasportava il presidente Habyarimana con il suo omologo burundese Cyprien Ntaryamira (1955-1994) venne abbattuto da due missili terra-aria mentre stava per atterrare nella capitale del Ruanda, Kigali. Ancora oggi è controversa la responsabilità dell’attentato, nel quale non ci furono sopravvissuti. Secondo una commissione d’inchiesta, questa andrebbe attribuita al FPR e al suo leader Paul Kagame. Secondo altre ipotesi a lanciare il missile sarebbero stati estremisti hutu intenzionati a far naufragare gli accordi di Arusha, in base ai quali la pacificazione del Paese avrebbe dovuto essere garantita da un governo di transizione. Di sicuro ciò che seguì rispondeva a un copione preparato da tempo. Con effetto immediato, infatti, si scatenava la caccia al tutsi, capillarmente instillata dall’emittente radiofonica RTLM (16), espressione della componente hutu più estremista, facente capo all’entourage del defunto presidente e significativamente ribattezzata Radio Machete. Ad essa fecero cassa da risonanza numerosi esponenti della cultura, dello spettacolo e della comunicazione, fornendo il supporto mediatico necessario per propagare l’odio e la conseguente caccia all’uomo, attuata dall’esercito, dalle milizie Interahamwe (17), ma anche da migliaia di semplici cittadini, in un’esplosione di delirio collettivo senza uguali. La storia successiva è cronaca dell’orrore ed è inutile soffermarvisi, se non per denunciare l’imbarazzante inerzia delle istituzioni internazionali (18). Solo l’affermarsi definitivo del FPR a luglio, con la presa della capitale Kigali, consentiva, dopo poco più di tre mesi dal suo inizio, di arrestare il bagno di sangue, il cui bilancio è spaventoso. All’uccisione di tutsi e hutu moderati, il cui numero, a conti fatti, ammonta a non meno di ottocentomila persone, devono aggiungersi le mutilazioni di dita, mani, piedi, gambe. Un’esplosione di violenza a cui niente e nessuno poté sottrarsi. Nemmeno gli idoli della nazionale di calcio, in parte uccisi e in parte mutilati, con la sola eccezione del portiere Eric Eugéne Murangwa (19), salvato in extremis dall’intervento di un miliziano hutu tifoso, che lo aveva riconosciuto.
Oggi, dopo trent’anni, la sfida è quella della riconciliazione. Una sfida difficile, a cui si oppongono troppe ferite ancora aperte, emblematicamente testimoniate dall’enorme numero di vedove e orfani che le stragi — soprattutto di maschi — hanno causato. Eppure, un segno premonitore dal cielo non era mancato: quello avvenuto nel villaggio di Kibeho, nel Ruanda meridionale, fra il 28 novembre 1981 e lo stesso giorno del 1989 (20). Si tratta delle prime apparizioni mariane riconosciute dalla Chiesa nel continente africano, nelle quali la Madonna, apparendo ad alcune studentesse di un locale collegio gestito da religiose, aveva preannunciato quanto sarebbe accaduto se non fosse stato accolto il suo reiterato invito alla conversione, alla preghiera e alla penitenza, gli unici strumenti che permettono di arginare efficacemente la propagazione del male. Nonostante i reiterati inviti della Vergine, l’appello rimase inascoltato e la tragedia si compì puntualmente a cinque anni di distanza.
Kibeho non fu risparmiata dalla tragedia: in essa trovò la morte, insieme al marito, anche una delle veggenti, Marie-Claire Mukangango (1961-1994). Se in quanto accaduto non si possono cogliere elementi di speranza, questi si possono invece scorgere in quello che è avvenuto dopo. I frutti spirituali, infatti, hanno iniziato a manifestarsi solo dopo la tragedia, nel momento in cui si è preso coscienza di ciò che è avvenuto e dell’attenzione che si sarebbe dovuta riservare alle ammonizioni della Vergine. Questa constatazione ha consentito l’attuarsi di qualcosa di umanamente insperabile: l’avvio di un percorso di reale riconciliazione; la crescita di una fede risanata e vivificata nelle comunità cristiane; un processo di risveglio spirituale che oggi ha in Nostra Signora di Kibeho e nel santuario a Lei dedicato il punto di riferimento non solo per i ruandesi, ma per l’intero continente africano. È questo il frutto spirituale intravisto da don Edouard Sinayobye, poi vescovo della diocesi di Cyangugu, che, se accolto, potrà permettere la rinascita del Ruanda (21).
Enrico Chiesura
Note:
1) È il caso della deportazione di massa degli armeni attuata in Turchia nel 1915-1916 dall’Impero ottomano; della carestia artificiale, attuata negli anni 1930 in Ucraina dal regime sovietico per imporre la collettivizzazione forzata; delle camere a gas utilizzate dal regime nazionalsocialista per lo sterminio degli ebrei.
2) La colonizzazione dell’Africa conseguente la Conferenza di Berlino non venne gestita direttamente dai singoli Stati sovrani, ma attraverso la concessione in sub-appalto a ditte private come la Compagnia delle Indie, la Compagnia Francese per l’Africa Occidentale e così via.
3) La sua celebrità è collegata all’avventuroso ritrovamento del medico missionario scozzese David Livingstone (1813-1873), avvenuto il 10 novembre 1871 sulle sponde del lago Tanganica. Su di lui, cfr., fra l’altro, Laura Rossi, Il Signor Stanley e le sue tre vite, EDT, Torino 2003.
4) Il Consiglio Supremo delle Potenze Alleate diede mandato al Belgio sul «Ruanda-Burundi» al termine della guerra, nel 1918. La Società delle Nazioni ratificherà il mandato nel 1923, trasformandolo in «fiduciario» nel 1946.
5) Da decenni sotto l’influenza belga, fino al 1908 il Congo aveva costituito di fatto un possedimento personale del re Leopoldo II (1835-1909), che lo aveva governato conferendogli formalmente lo status di Stato Libero del Congo. Solo nel 1908 Leopoldo II rinunciò al controllo personale a favore del Belgio, il cui parlamento ne ratificò l’acquisizione il 15 novembre 1908.
6) Locuzione latina traducibile in «dividi e comanda», espressione che rimarca come risulti più facile controllare e governare un popolo se lo si divide, suscitando rivalità e fomentando discordie tra le sue componenti.
7) I tutsi costituiscono circa il 15% della popolazione e gli hutu l’84%.
8) A queste, infatti, va aggiunta quella dei twa (pigmei), che costituiscono circa l’1% della popolazione e che vivono, oltre che in Ruanda-Burundi, anche in Uganda e nella Repubblica Democratica del Congo.
9) L’appartenenza a un clan si fonda sul fatto di essere nati in un determinato luogo fisico, a prescindere dall’etnìa: un clan è composto indifferentemente da hutu e da tutsi. Questo elemento ha fatto sì che, nel pieno della tragedia, molti hutu abbiano prestato aiuto o rifugio a tutsi appartenenti al proprio clan, esponendosi così a condividerne in molti casi la sorte.
10) Fustigazione pubblica praticata con strumento costituito da strisce di pelle di animale (ippopotamo o rinoceronte) di particolare durezza.
11) Negli anni 1950 i primi Stati africani a ottenere l’indipendenza erano stati Egitto, Libia, Marocco, Sudan, Ghana e Guinea. Nel solo 1960 seguirono altri diciassette Stati: Benin, Burkina Faso, Camerun, Centrafrica, Ciad, Congo Brazzaville, Costa d’Avorio, Gabon, Madagascar, Mali, Mauritania, Niger, Nigeria, Repubblica Democratica del Congo, Senegal, Somalia e Togo.
12) Acronimo del Partito del Movimento per l’Emancipazione Hutu, fondato nel 1957 da Grégoire Kayibanda (1924-1976).
13) Dal 2000 Paul Kagame è ininterrottamente Presidente della Repubblica del Ruanda.
14) Arusha, città del nord della Tanzania dove furono firmati gli accordi di pace e dove più tardi, concluso il genocidio del 1994, si è insediato, su designazione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, il Tribunale penale internazionale per il Ruanda, preposto a giudicare i crimini commessi da aprile a luglio 1994. Dal 2004 Arusha è diventata anche sede della Corte Africana dei Diritti Umani.
15) Per ripercorrere le tragiche settimane in cui si è compiuto il massacro cfr. Jean Paul Habimana, Nonostante la paura. Genocidio dei tutsi e riconciliazione in Ruanda, trad. it., Terre di Mezzo Editore, Milano 2020.
16) Radio Télévision Libre des Mille Collines (Radio Televisione Libera Mille Colline).
17) In lingua kinyarwanda significa «coloro che lavorano insieme». Di fatto costituisce una milizia paramilitare i cui membri, dopo essersi macchiati di atroci responsabilità nel genocidio, sono perlopiù riparati all’estero, soprattutto nel confinante Zaire, l’attuale Repubblica Democratica del Congo fra il 1971 e il 1997. Attualmente è censita dalla maggior parte dei Paesi occidentali fra le organizzazioni terroristiche.
18) Il 23 aprile 1994, a genocidio già iniziato, con un’iniziativa del tutto sconcertante, l’ONU richiamava la maggior parte dei «caschi blu» presenti nel Paese, lasciando campo libero agli estremisti hutu, dopo che questi avevano eliminato la premier Agatha Uwilingiymana (1953-1994), hutu moderata, insieme ai dieci militari belgi dell’ONU incaricati di proteggerla, la mattina del 7 aprile.
19) Murangwa, dopo essersi nascosto sino alla fine del massacro, lasciò il Ruanda per trasferirsi prima in Belgio, poi nel Regno Unito. Oggi è impegnato nell’organizzazione Future for Hope, Peace and Unity, utilizzando il calcio come strumento per promuovere tolleranza, unità e riconciliazione fra i giovani ruandesi.
20) Sulle apparizioni di Kibeho cfr., fra l’altro, Gianni Sgreva, Le apparizioni della Madonna in Africa: Kibeho, Shalom, Camerata Picena (Ancona) 2002; Immaculée Ilibagiza, Nostra Signora di Kibeho, trad. it., San Paolo, Milano 2010.
21) Sull’argomento cfr. Edouard Sinayobye, Io sono la Madre del Verbo. Nostra Signora di Kibeho, risveglio per i nostri tempi, trad. it., Ares, Milano 2015.