di Oscar Sanguinetti
José nasce il 28 marzo 1913 a Sahuayo de Morelos, cittadina dello Stato di Michoacán de Ocampo e nella diocesi di Zamora, a poco più di duecento chilometri a sud-est di Guadalajara (Jalisco).
È figlio di Macario Sánchez Sánchez, un agiato allevatore, discendente di una illustre famiglia ispanica, e di María del Río Arteaga, imparentata con il futuro presidente federale Lázaro Cardénas del Río. Bambino «normale» e tranquillo, quarto di sette tra fratelli e sorelle — Macario, Miguel, María Concepción, María Luisa, Guillermo e Celia — cresce in una famiglia profondamente cattolica. La sua formazione religiosa avviene nella parrocchia di Sahuayo, dedicata a san Giacomo Apostolo «Matamoros», dove gli sono impartiti i sacramenti. Riceve la cresima a soli quattro anni — come evidentemente è l’uso del tempo e del luogo — il 12 ottobre 1917, mentre fa la sua prima comunione nel 1922 sempre a Sahuayo, dove i suoi sono rientrati nel 1921, dopo essersi temporaneamente spostati a Guadalajara, capitale dello Stato di Jalisco — allora la seconda città per popolazione del Messico —, per sfuggire ai disordini della rivoluzione che in quegli anni imperversa nello Stato di Michoacán.
L’esempio dei genitori e dei parenti — sono state conservate le fotografie di entrambe le famiglie di origine dei genitori —, l’abitudine del rosario quotidiano in famiglia e la regolare pratica dei sacramenti irrobustiranno il carattere del giovane e alimenteranno la sua spiritualità e lo porteranno a concepire l’esistenza come offerta e sacrificio.
1. La persecuzione anti-cattolica e la guerra cristera
Con l’avvento alla presidenza di Plutarco Elías Calles (1877-1945) nel 1924 la Repubblica messicana, influenzata dalla massoneria e dai gruppi laicisti, inizia l’applicazione rigorosa degli articoli anti-clericali della costituzione federale approvata, in pieno clima rivoluzionario, nel 1917. Limitazione del numero delle chiese e dei santuari; espulsione dei missionari e del clero straniero; contingentamento — leggi: drastica riduzione — del numero dei sacerdoti; statalizzazione della professione di ministro del culto e apertura delle liste anche a candidati non nominati dai vescovi; divieto di propaganda religiosa e di catechesi pubblica; favore per le confessioni protestanti. Una serie di misure restrittive o apertamente ostili che mettevano in grave difficoltà la missione evangelizzatrice della Chiesa cattolica messicana.
La reazione dei cattolici organizzati si esprime in un primo momento in forme legali: in parlamento; nelle piazze; con scioperi e forme di boicottaggio delle industrie statali, ma nulla piega la ferrea volontà del governo di assoggettare la Chiesa ed emarginare i cattolici.
I vescovi, ancorché non all’unanimità, nell’intento di persuadere il governo ad attenuare la persecuzione, decidono allora di adottare una misura clamorosa e inusitata: la sospensione del culto pubblico sine die. Il primo di agosto, data di entrata in vigore della cosiddetta «Legge Calles» — in realtà un decreto-legge — l’eucaristia è riposta in luogo sicuro; le messe sono annullate; ogni altra forma di culto — processioni, confessioni, celebrazione dei riti battesimali, crismali e matrimoniali — cancellata. I vescovi pensano di poter continuare a celebrare il culto in forma privata, nelle case religiose, nei seminari, nelle famiglie.
Ma sottovalutano gravemente due cose: la reazione del governo massonizzato e il popolo.
Il primo reagisce allo sciopero del culto in maniera violenta, applicando alla lettera il dettato della legge. Espropria così ogni chiesa o tempio, li sottrae al clero ministrante, li chiude, affidandone la gestione amministrativa a commissioni laicali di sua fiducia. Non solo: dà inizio alla caccia al prete per limitarne con la forza l’entità numerica prevista dai regolamenti. Chi si oppone alle truppe federali viene arrestato e non di rado ucciso.
L’altro, il popolo, ossia il laicato non controllato dalle organizzazioni di azione cattolica, più forti nelle città, ovvero i contadini — la maggioranza della popolazione —, i pastori, gli allevatori, ceti profondamente immersi nella dimensione religiosa plasmata dal cattolicesimo tridentino conciliato con la cultura popolare india, reagisce in maniera illegale impugnando le armi per difendere i templi attaccati dalle truppe federali.
Scoppia così una guerra civile che durerà quattro lunghi anni e coinvolgerà quasi metà del territorio repubblicano, specialmente gli Stati della fascia centrale: una vicenda che passerà alla storia come «guerra dei cristeros» o, più di recente, come «Cristiada». Gl’insorti cattolici delle zone rurali — cui si affiancheranno sul campo o nelle retrovie anche numerosi cattolici, uomini e donne, delle città — diventeranno un vero e proprio esercito che sconfiggerà a più riprese i federali e le milizie irregolari filo-governative più spesso in imboscate e rapide incursioni, ma anche in vere e proprie battaglie campali. La guerra sarà spietata: non si faranno prigionieri, i governativi impiccheranno e fucileranno i prigionieri e i loro sostenitori: numerosi saranno gli episodi di martirio. Quando il movimento cristero è al suo apogeo, nel 1929, però i vescovi, con il consenso di Roma, e la mediazione statunitense, rimuoveranno il divieto di celebrazione del culto, il governo restituirà le chiese al clero e il culto riprenderà ovunque. La decisione taglierà le gambe al movimento armato che dovrà consegnare le armi e disperdersi, colpito ovunque e per anni dalle vendette sommarie, pubbliche o private, del governo.
2. A Sahuayo, fra i cristeros
Sahuayo è una delle prime città in cui scoppiano moti di autodifesa religiosa. Il 4 agosto, le autorità danno esecuzione al decreto Calles chiudendo i templi «in sovrappiù», cioè, vista l’irrisorietà delle «quote» stabilite d’autorità, praticamente tutti. La cittadina di José conta ben tre chiese, fra parrocchie e santuari, e ben presto vedrà arrivare i soldati intenzionati a sequestrarle e a chiuderle. José può assistere di persona agli scontri fra militari e popolani davanti ai templi, al termine dei quali diversi dei contendenti rimangono distesi sul selciato e i primi cattolici — è quasi certo che siano stati i cattolici, pare due donne, i primi a sparare contro i federali — devono darsi alla macchia.
Nelle settimane successive José comprende che la situazione della patria e della Chiesa è grave e che occorre lo sforzo di tutti, materiale e non, per uscirne. Chiede allora ai genitori il permesso di raggiungere sulle montagne i fratelli Macario e Miguel, passati nelle fila dei cristeros, ma riceve un tondo diniego. Però il giovane non si arrende e mesi dopo, nell’estate del 1927, forse per intercessione della madre María — a lei dirà: «Mamá, nunca como ahora es tan fácil ganarnos el cielo» («Mai come oggi è facile guadagnarsi il cielo») —, donna di viva fede e di alto spirito di sacrificio, alla fine ottiene il permesso dal padre di raggiungere il reggimento cristero comandato dal concittadino Ignacio Sánchez Ramírez (1900-1928), dove già militano i fratelli per chiedere di entrarvi. Il generale, però, al corrente della volontà del padre, lo rimanda a casa: troppo giovane e del tutto inadatto al combattimento.
Ma José non demorde: poco dopo, insieme all’amico José Trinidad «Trino» Flores Espinosa, di nascosto parte di nuovo per le montagne e, dopo una lunga marcia, raggiunge sulla lontana Sierra del Tigre il reparto comandato dal generale Prudencio Mendoza, che, alla fine, di fronte all’ardente volontà del giovane di militare a tutti i costi fra i soldati di Cristo Re, si persuade ad ammetterlo. Entra così nei ranghi dell’8° reggimento della Divisione Sud Jalisco, comandato da Luis Guízar Morfín, di Cotija, ma non gli è consentito di combattere. Viene invece adibito ai servizi più umili dell’accampamento: oliare le armi, procurare la legna, cucinare, governare i cavalli, fare le pulizie, ma José non si lamenta. Al campo ha modo di partecipare alle frequenti liturgie celebrate dai sacerdoti clandestini, che assistono spiritualmente e volontariamente l’Esercito Liberatore. Solo dopo diversi mesi di attesa e di tirocinio gli viene concesso di partecipare ai combattimenti come alfiere del reggimento e come trombettiere del generale.
3. La cattura
Il 6 febbraio 1928, mentre si sposta da un rancho a un altro, sulle alture nei pressi di Cotija, il reparto cristero di cui fa parte viene sorpreso in una imboscata da un reparto federale guidato dal brigadiere generale José Anacleto Guerrero Guajardo (1892-1980) e deve ritirarsi combattendo. Durante lo sganciamento, probabilmente un proiettile di mitragliatrice atterra il cavallo del generale cristero e José non esita a offrire la propria cavalcatura al generale affinché possa mettersi in salvo. I cristeros appiedati, fra cui José, vengono poi facilmente accerchiati e catturati: José dirà poi: «Non mi sono arreso: ho solo finito le cartucce!». Mentre gli adulti, come da regola, sono immediatamente passati per le armi, José e Lorenzo, un altro giovane in forza al reparto, di origine india, sono imprigionati nella caserma di Cotija, dove José subisce un primo interrogatorio da parte dello stesso generale Guerrero, che lo ammonisce sulle conseguenze della scelta di prendere le armi contro il governo. Subito dopo, il 7 febbraio, Guerrero Guajardo fa trasferire i ragazzi a Sauhayo, nell’intento di farli ritrattare, una volta trovatisi a confronto con i familiari e con i compaesani. Vengono incarcerati nei locali della chiesa parrocchiale, che il notabile o «cacique» locale, nonché fanatico di Calles, il deputato al Congresso Rafael Picazo Sánchez (1893-1931), dopo le requisizioni dei primi di agosto 1926 ha trasformato in stalla e in pollaio, dove alleva alcuni galli da combattimento, uno «sport» — con relative scommesse — molto diffuso in Messico. I gendarmi di Sauhayo — una piccola accolita di soggetti più simili ai «bravi» manzoniani — sorvegliano l’improvvisata prigione e cercano in tutti i modi di persuadere i due giovani a rinnegare la loro scelta di combattere con i cristeros e d’indurli a inneggiare al governo e di condannare gl’insorti, prima in maniera scherzosa, poi con modi sempre più seri e minacciosi. Picazo è legato alla famiglia Sánchez, è un loro vicino di casa e il giovanetto è suo figlioccio, probabilmente di prima comunione. Sulle prime Picazo, anche se l’affronto inflitto da José a lui, capo dei «callisti» di Sahuayo, non è piccolo, sembra non volere uccidere il piccolo cristero e, purché rinneghi la sua militanza, si dice disposto a fornire a José un salvacondotto per gli Stati Uniti; in alternativa, se lo desidera, si offre di farlo entrare nel collegio militare federale. Ma il giovane rifiuta con sdegno entrambe le proposte.
Molti testimoni del suo martirio dichiarano che nella notte dell’8 febbraio, turbato nel vedere la chiesa del suo battesimo trasformata in un pollaio e in una stalla, nonostante l’avviso del compagno di sventura, Lorenzo — José può muoversi libero nell’ampio spazio del tempio —, José uccide tre dei pennuti da combattimento del padrino e, non contento di questo, gli acceca anche il cavallo. Il giorno successivo, informato del fatto, Picazo va letteralmente in bestia: non solo José ha rifiutato il perdono e la libertà, ma si è permesso di danneggiare dei beni ai quali Picazo tiene davvero molto. Il giovane ha una certa confidenza con lui e, quando il padrino lo affronta, non esita ad apostrofarlo con sdegno e a rimproverargli senza mezzi termini di aver commesso un sacrilegio, trasformando la chiesa in una dimora di animali. A questo punto uno dei guardaspalle di Picazo colpisce il piccolo con un forte manrovescio, che gli butta giù diversi denti, come accerterà l’esame necroscopico al momento dell’esumazione.
4. Il martirio
Picazo decide allora di liberarsi dei due ostaggi. Lo stesso giorno i gendarmi al servizio di Picazo impiccano a un albero di cedro della piazza principale il giovane indio Lorenzo, costringendo José ad assistere piangendo al supplizio. Il ragazzo appeso all’albero non è morto e, quando viene staccato dal capestro, portato al camposanto municipale e lì abbandonato, aiutato dal custode Luis Gómez, si rianima e riesce fortunosamente a mettersi in salvo e a raggiungere i cristeros: da allora in poi sarà chiamato, non più Lorenzo, ma Lázaro, come il redivivo del Vangelo, amico di Gesù. Di lui non si saprà più nulla.
Il padre di José — che con la madre, temendo vendette, visto che ben tre dei loro figli sono passati con i cristeros, si è trasferito a Guadalajara —, a questo punto, saputo dell’arresto e appreso della piega tragica che le cose stanno prendendo, cerca di riscattare il figlio offrendo una somma di denaro a Picazo, che però esige una cifra esorbitante — cinquemila pesos in oro — per liberare il ragazzo. Don Macario cerca di mettere assieme la somma, ma riesce a raccoglierla tutta e a metterla a disposizione di Picazo solo dopo che José è stato ucciso. Saputo della trattativa, José, però, deciso ormai a offrirsi come vittima per Cristo Re, rifiuta irrevocabilmente di divenire oggetto di un baratto. La rabbia di Picazo contro il giovanetto che, insieme a due fratelli, ha osato impugnare le armi contro la Repubblica e offenderlo personalmente, monta ancora più furiosa e decide di dare una lezione mortale al figlioccio, senza neppure attendere il denaro di Macario Sánchez. Ma non ha il coraggio di assistere al castigo: nessun testimone infatti afferma di aver notato Picazo durante il martirio di José. Anche fra i parenti si nominano le zie e i nonni, ma non i genitori.
Nella sera di venerdì 10 febbraio 1928, intorno alle diciotto, il piccolo cristero viene trasferito dal battistero della chiesa-pollaio alla Locanda del Rifugio, dov’è acquartierato il gruppo di miliziani detto «La Acordada» al servizio di Picazo. Qui un graduato gli legge la sentenza di morte, fissata per la sera stessa. A José viene concesso di scrivere una lettera alla zia María Sánchez Olmedo. Alle venti l’altra zia, Magdalena, gli porta in segreto, insieme alla cena, la comunione.
Intorno alle ventitré José, come Gesù, finisce in balia della soldataglia, cui Picazo ha dato il via libera. I gendarmi gli tagliuzzano le piante dei piedi con un coltello — era una pratica di tortura comune allora — per indurlo ancora una volta a rinnegare la militanza cristera e inneggiare al governo di Calles, ma il giovane resiste ai tormenti continuando a gridare con tutta la voce che ha in corpo «Viva Cristo Re!». Di fronte all’ostinazione del ragazzo, i carnefici decidono di farla finita. Strattonandolo e spingendolo, a pugni e calci, conducono il giovane verso il cimitero, distante poco più di un chilometro dalla piazza principale. La marcia con i piedi feriti sul ciottolato e, in alcuni tratti, sullo sterrato delle vie cittadine provoca atroci dolori a José. A ogni insulto che patisce il giovane risponde invariabilmente e instancabilmente «Viva Cristo Re!». Picazo ha raccomandato ai suoi sgherri di fare il minor rumore possibile, ma i parenti di José e i cittadini di Sahuayo si accorgono di quanto sta accadendo e osservano di nascosto, sconvolti e impotenti, il mesto corteo, che ricorda quello della Via Crucis, ma sine populo. Arrivati al camposanto, un violento colpo infertogli con il calcio del fucile fracassa la mandibola di José e lo fa stramazzare a terra. Poi lo trascinano sull’orlo di una fossa già scavata e gli urlano per l’ultima volta di rinnegare i cristeros e inneggiare al governo. Ma il piccolo alfiere cristero, ormai convinto di stare per spiccare il volo verso il Cielo, rifiuta di nuovo. A questo punto il capo del manipolo degli aguzzini ordina di ucciderlo a coltellate per non fare rumore e per risparmiare le pallottole: un cristero non è degno di essere fucilato. José viene così trafitto da numerosi colpi di coltello e di baionetta e, a ogni pugnalata, continua a far risuonare, benché sempre più flebile, la sua giaculatoria, il suo autentico inno a Cristo Re. Forse per piegarlo, uno degli sgherri gli chiede che cosa manda a dire a suo padre prima di morire, ma José, con la poca voce che gli rimane, dice: «ci rivedremo in cielo», nulla più.
Il ragazzo, nonostante le ferite ricevute, non muore. Allora il capo-manipolo decide di farla finita e, dopo aver esclamato «razza di fanatico!», gli spara un colpo di revolver alla tempia destra: il corpo del ragazzo cade nella fossa e poco prima di mezzanotte l’anima di José è già in Paradiso. Gli assassini materiali di José pare siano stati tali Alfredo Amezcua, detto «La Aguada», quello che ha interrogato José, e Rafael Gil, detto «El Zamorano», che gli ha sparato il colpo mortale. Il corpo di José è abbandonato nella fossa sotto qualche palata di terra, in attesa di sepoltura definitiva: i pochi concittadini di José, che hanno sfidato il coprifuoco — entrato in vigore alle 21 — imbevono i loro fazzoletti nel sangue che piccolo martire ha lasciato lungo la sua Via Dolorosa. Il corpo di José, avvolto in un semplice lenzuolo da alcuni amici, sarà sepolto in forma anonima da Luis Gómez — che è l’unico teste oculare del martirio a parte i carnefici —, insieme con una bottiglia contenente un foglio di carta con il nome del defunto.
5. La santità e la canonizzazione
Si chiude così la vicenda terrena, durata solo quattrodici anni, del giovane José Sánchez del Río, martire di Cristo Re, esempio insigne di fede profonda e di elevate virtù umane e virili.
Anni dopo, nel 1954, i resti di José saranno esumati, identificati, sottoposti a esame necroscopico — la fotografia del cranio confermerà il colpo di pistola ricevuto, la mandibola fratturata e i denti caduti — e traslati nel santuario del Sacro Cuore della città natale, accanto a quelli degli altri martiri cattolici della guerra cristera. Nel 1996, a chiusura del processo di beatificazione diocesano, le reliquie di san José faranno ritorno nella sua chiesa parrocchiale e lì si trovano oggi.
Su di lui, come su tutta la vicenda della guerra cristera, scenderà il velo dell’oblìo fino a quando il Papa san Giovanni Paolo II (1978-2005), deciderà di riaprire i dossier dei martiri del XX secolo, la schiera di martiri più numerosa di ogni tempo.
La fama della morte da santo e da martire di José si espanderà così travolgente fra il popolo del Michóachan e, a misura dell’allentarsi della morsa statale sulla Chiesa, si concretizzerà nella diffusione del culto delle sue spoglie e nell’avvio del processo di beatificazione, conclusosi il 20 novembre 2005, quando José, settantasette anni dopo il suo martirio, sale alla gloria degli altari. Il 16 ottobre 2016, con la sua canonizzazione — José ha anche compiuto il miracolo prescritto: invocato dalla madre, ha guarito da una forma mortale di polmonite atipica una neonata, Ximena Guadalupe Gálvez Ávila, che ora ha sette anni, originaria della sua città, Sauhayo —, il suo culto è stato esteso alla Chiesa universale. Nella sua città natale è in via di costruzione un santuario che ne perpetuerà la memoria.
Oscar Sanguinetti
Per approfondire:
Fidel González Fernández, MCCJ, José Sánchez del Río. Il giovane martire che diede la vita per la fede, trad. it., Dominus Production edizioni, Firenze 2016.
Luis Laureán Cervantes, L.C., El niño testigo de Cristo Rey. José Sánchez del Río, mártir cristero, con una prefazione di Emilio Martínez Albesa, De Buena Tinta, Madrid 2015; trad. it., Un giovane testimone di Cristo Re: José Sánchez del Río, D’Ettoris Editori, Crotone 2017 (di imminente pubblicazione).
Oscar Sanguinetti, José Sánchez del Río: martire della libertà religiosa, in Cristianità, anno XLIV, n. 380, Piacenza aprile-giugno 2016, pp. 35-64.
Mario Arturo Iannaccone, Cristiada. L’epopea dei Cristeros in Messico, Lindau, Torino 2014.