
di Marco Respinti
Il 10 marzo il Partito Democratico ha celebrato le elezioni primarie in Idaho, Michigan, Mississippi, Missouri, North Dakota e Stato di Washington, e hanno concluso il voto anche i Democratici all’estero che avevano iniziato il 3. In palio erano 417 delegati alla Convention nazionale del partito che a Milwaukee, nel Wisconsin, dal 13 al 16 luglio, nominerà candidato presidenziale chi avrà conquistato almeno 1991 delegati su 3979 con il mandato di sfidare il presidente Donald J. Trump.
L’ex vicepresidente Joe Biden ha vinto in Idaho, Michigan, Mississippi e Missouri. In North Dakota ha vinto il socialista Bernie Sanders. Nello Stato di Washington la conta dei voti fotografa ancora un testa testa serratissimo. E l’esito della consultazione dei Democratici all’estero si avrà solo il 23 marzo, quando saranno state raccolte e scrutinate tutte le espressioni di voto di quel lotto.
Nel conto generale Biden conta ora su 860 delegati utili per la Convention nazionale contro i 710 di Sanders.
A parte il misto di cinismo e di buaggine dimostrata da Biden, il quale, nel discorso pronunciato a Filadelfia dopo la vittoria, ha detto che l’attuale tempo di crisi necessita di forte leadership statunitense, ovvero parole come acqua fresca, visto che, anche se dovesse vincere lui, s’insedierebbe il 20 gennaio 2021, l’ex vicepresidente ha subito teso una mano all’avversario interno Sanders. Finora lo scontro fra i due è stato aspro, ma Biden ha aperto a Sanders, giocando la carta dell’“unione fa la forza” in funzione anti-Trump. Affinché ciò accada, Sanders dovrebbe ritirarsi dalla corsa, appoggiare apertamente Biden e cercare di convogliare il più possibile i suoi sostenitori, e i suoi finanziatori, sull’ex vicepresidente. Che ciò possa accadere non è impensabile. È accaduto parecchie volte sia nel Partito Democratico sia nel Partito Repubblicano. La matematica non è ancora completamente dalla parte di Biden, ma il buon senso sì. O almeno così pensa senza dubbio Biden. Sanders, infatti, potrebbe ancora rimontare, e oramai il precedente di Trump, quattro anni, dall’altro capo dello spettro politico, spinge a non fare più previsioni troppo nette.
La decisione di Sanders potrebbe venire prima del 17 marzo, quando Arizona, Florida, Illinois, Isole Marianne Settentrionali e Ohio metteranno assegneranno 675 delegati. Perché fino ad allora Sanders può provare ad alzare il prezzo, mentre dopo una eventuale sconfitta ai punti in quella data si aprirebbe la stagione dei saldi.
Infatti, sia che Sanders rigetti l’offerta e continui la corsa, sia che invece si ritiri rifiutandosi però di appoggiare Biden, Biden sarà costretto a fare a meno di forze e di denari importanti, soprattutto quando (a quel punto sarebbe certo) conquistasse la nomination Democratica e il suo unico avversario divenisse finalmente Trump.
Sanders, che per molti versi (non tutti) resta un outsider, non è un “tesserato” Democratico e ha giocato molto anche sull’opposizione a un certo volto dell’establishment Democratico che sarebbe incarnato da Biden, potrebbe infatti decidere di voler sventolare alta una bandiera che in cuor proprio ha sempre saputo essere perdente, ma che serve per indicare la direzione alla Sinistra statunitense. Forse è proprio questo il senso della sua candidatura, quattro anni fa e ancora oggi, conscio che mai ce la farà, ma consapevole di essere in grado di imprimere accelerazioni importanti alla vita politica statunitense. Potrebbe insomma decidere di fare il guastafeste, il guastatore, il guascone, facendo un passo indietro lui per far avanzare di due il progressismo americano. Terrebbe per l’identità estremista, indebolirebbe Biden, ma punterebbe a un successo culturale decisivo. Svolgerebbe, cioè, il ruolo che Trump pensava di svolgere durante le primarie Repubblicane del 2016, soprattutto all’inizio, quando era deciso a sgretolare sia il Partito Repubblicano sia il movimento conservatore. La differenza fra un Sanders che oggi facesse così e un Trump che allora fece così è che, nel caso di Sanders oggi, la scelta è decisamente ideologica, nel caso di Trump ieri solamente pragmatica. Trump pensava cioè davvero di vincere con quella strategia, tanto quanto Sanders oggi interpreterebbe il ruolo del “povero ma bello” rivoluzionario. Poi, quattro anni fa, soprattutto verso la fine delle primarie e certamente dopo avere ottenuto la nomination del partito, Trump si rese conto che quella che pensava essere un’arma vincente lo avrebbe invece condotto alla sconfitta e strinse un patto, per amore e per forza, prima per forza e poi anche per amore, con il mondo conservatore, trasformandosi in seguito, una volta eletto, in un suo amico.
Se invece Sanders dovesse accettare oggi, o domani, il calumet della pace teso di Biden, la rotta delle elezioni americane 2020 cambierebbe. Sanders non venderebbe infatti a Biden il proprio appoggio gratuitamente. Fisserebbe un prezzo, alto (se lo fa sufficientemente in fretta). Condizionerebbe cioè la proposta politica di Biden, che non potrebbe più fingere, solo fingere, di essere moderata, sterzandola a sinistra, ancora più a sinistra, visibilmente più a sinistra. E ne otterrebbe pure quote rilevanti in un futuro ipotetico esecutivo a guida Biden.
Se si verificasse la prima ipotesi, Biden potrebbe continuare a giocare al finto moderato, additando l’“uomo nero”, anzi rosso, Sanders con disprezzo, onde cercare di vincere al centro. Se si verificasse invece la seconda possibilità, la Sinistra andrebbe al centro della scena.
In entrambi i casi è molto probabile che per Trump sia ugualmente una buona notizia. Se Sanders non si unisse a Biden, all’ex vicepresidente potrebbero infatti mancare numeri importanti per sconfiggere Trump. Se invece Sanders dovesse cedere a Biden, Trump avrebbe buon gioco a dipingere a tinte termini foschi, anzi rosse, lo stesso Biden. Vincendo comunque forse agevolmente. Ancora una volta, allora, forza Sanders.
Giovedì, 12 marzo 2020