Francesco Pappalardo, Cristianità n. 259 (1996)
Sandro Petrucci, Insorgenti Marchigiani. Il Trattato di Tolentino e i moti antifrancesi del 1797, con una prefazione di Marco Tangheroni, SICO, Macerata 1996, pp. 264, £ 28.000
Il bicentenario dell’invasione francese e dell’inizio del Triennio Giacobino in Italia (1796-1799) è occasione propizia sia per rievocare e commemorare il fenomeno delle insorgenze contro-rivoluzionarie, sia per riflettere su una pagina dimenticata della storia nazionale e tentarne un’interpretazione, anche per una ricostruzione più credibile dell’identità culturale del popolo italiano. Ma questa occasione rischia di essere perduta. A Milano, nel mese di maggio del 1996, la giunta comunale leghista ha celebrato con dispendiose iniziative il secondo centenario dell’occupazione francese della città, cioè l’inizio di una politica di spoliazione e di repressione protrattasi per anni non soltanto in Lombardia ma in tutta la penisola. In Parlamento è stato presentato, da senatori «progressisti», un disegno di legge per ricordare con grandi festeggiamenti la Repubblica Napoletana, proclamata nel 1799 e annegata dopo pochi mesi in un mare di insorgenze, promosse proprio da quel popolo che francesi e giacobini pretendevano di «liberare». Vi è anche chi pensa di celebrare il trattato di Tolentino, imposto dalla Francia rivoluzionaria allo Stato Pontificio, il 19 febbraio 1797, che segna l’inizio di una «veloce ed opulenta rapina», come scrisse Alessandro Verri, letterato e romanziere lombardo.
Quest’ultima considerazione è riportata nell’opera di Sandro Petrucci, Insorgenti Marchigiani. Il Trattato di Tolentino e i moti antifrancesi del 1797, che fornisce un importante contributo alla storia delle Insorgenze in Italia (p. 12). Il volume si apre con una Prefazione (pp. 7-10) di Marco Tangheroni, professore di Storia Medievale all’Università di Pisa, che sottolinea il carattere nazionale — «Non stupisca l’uso di questo aggettivo, “nazionale”, applicato ad un’epoca in cui l’Italia non aveva una sua unità statuale» (p. 7) — delle resistenze popolari contro la Rivoluzione francese e giacobina. Le insorgenze, che si producono in tutta la penisola, sempre con gli stessi caratteri, pure in presenza di popolazioni rette da istituzioni differenti, situate in contesti geoeconomici non uniformi e con le più diverse tradizioni, testimoniano che sul finire del Settecento la nazione italiana esisteva già in termini di cultura e di omogeneità religiosa. Di fronte all’imbarazzante fenomeno della resistenza popolare sia gli storici marxisti sia quelli liberal-progressisti hanno visto venir meno i loro abituali schemi interpretativi e non hanno saputo offrire una spiegazione valida; anche la storiografia puramente «nazionalistica», che riduce le insorgenze a una reazione istintiva di fronte a stranieri troppo prepotenti, fornisce una spiegazione insufficiente. In realtà, si legge nella Prefazione, «[…] la Rivoluzione era avversata perché percepita nella sua essenza reale: straniera sì, ma non solo di lingua e di modi; straniera alle tradizioni, al costume, alle credenze, ai legittimi interessi di un popolo» (p. 8).
Sandro Petrucci nasce a Macerata nel 1959 e insegna a Civitanova Marche. Dopo la laurea in storia, conseguita all’università di Pisa nel 1984 con una tesi su Cagliari pisana. Aspetti politici, istituzionali, sociali, relatore il professor Marco Tangheroni, pubblica Re in Sardegna, a Pisa cittadini. Ricerche sui domini Sardine e pisani (Cappelli, Bologna 1988) e Storia politica ed istituzionale della Sardegna medievale (secoli XI- XIV), in AA. VV., Storia dei Sardi e della Sardegna, vol. 2, Il Medioevo dai giudicati agli Aragonesi (Jaca Book, Milano 1988, pp. 97-156); quindi il saggio La rivoluzione russa e il comunismo sovietico da Lenin a Stalin, in AA. VV., Novecento. L’Europa delle ideologie e delle guerre totali (Itaca, Faenza [Ravenna] 1994, pp. 57-72). Con Insorgenti Marchigiani. Il Trattato di Tolentino e i moti antifrancesi del 1797 — che fa ricorso a un’abbondante documentazione inedita, reperita negli archivi locali, e valorizza fonti già note, ma utilizzate finora in modo inadeguato — inizia a occuparsi della storia delle sue Marche.
L’opera si articola in un’Introduzione, intitolata Per una storia dell’Insorgenza marchigiana nel periodo repubblicano (pp. 11-25), e in due parti, Il Trattato di Tolentino (pp. 29-146) e Le insorgenze marchigiane nel febbraio-marzo 1797 (pp. 149-229), e si chiude con una nutrita Bibliografia (pp. 231-261).
L’autore delinea anzitutto la cadenza temporale del fenomeno: la fiammata del 1797, un momento breve ma intenso, come reazione all’arrivo dei francesi e alla loro politica di requisizioni; le agitazioni dei primi mesi del 1798, in risposta alle iniziative rivoluzionarie per conquistare Roma e cacciare Papa Pio VI; l’insorgenza del 1799, caratterizzata dal collegamento con l’iniziativa militare del re di Napoli, Ferdinando IV di Borbone, e dal fiorire di capi locali, anzitutto il generale Giuseppe Lahoz. Costoro provenivano in buona parte dai ceti artigiani e contadini, che non trovano una classe dirigente né nel clero né nell’aristocrazia, anche se non mancano religiosi ed elementi della piccola nobiltà di provincia postisi, con successo, a capo degli insorgenti. Lo studioso marchigiano colloca, quindi, la storia delle operazioni militari e degli avvenimenti politici che interessano lo Stato Pontificio, di cui facevano parte appunto le Marche, nel contesto storico e ideologico della Rivoluzione francese, mostrando che anche in quelle regioni le reazioni popolari, suscitate inizialmente dalle requisizioni e dai saccheggi di un’armata straniera, avevano le loro radici profonde nell’avversione ai princìpi rivoluzionari e nella fedeltà al sovrano legittimo. Gli insorgenti, con la loro sensibilità religiosa, intuivano che il Trattato di Tolentino rappresentava soltanto una tappa di un disegno più generale, mirante alla distruzione del Papato, com’era affermato nella lettera inviata in quei giorni dal Direttorio a Napoleone Bonaparte: «[…] il culto romano è quello di cui i nemici della libertà possono fare fra qualche tempo l’ uso più dannoso»; occorreva, dunque, distruggere, «se è possibile, il centro di unità della Chiesa romana» (p. 84).
Nello Stato Pontificio, così come nelle altre parti d’Italia, gli invasori francesi intraprendono una politica di sistematica depredazione, soprattutto a danno dei più poveri, sottraendo anche opere d’arte di valore inestimabile, mai più ritornate in Italia; si macchiano di sacrilegi, rapine ai danni di conventi e di santuari, nonché di persecuzioni nei confronti degli ordini religiosi; lasciano dietro di loro una sanguinosa scia di sopraffazioni e di violenze. A questo scempio, frutto di una ideologia rivoluzionaria imposta da una minoranza di intellettuali, le popolazioni reagiscono con vigore e con determinazione, aggiungendo il tributo di sangue a quello pecuniario, e mostrando che i veri patrioti, gli autentici italiani, stavano «dall’altra parte». Sandro Petrucci sottolinea l’ importanza del mutamento semantico dei termini «patria» e «patriota», «parte di uno più generale prodotto dalla Rivoluzione» (p. 22); contrappone la concezione tradizionale di patria, espressa bene da Monaldo Leopardi, il polemista marchigiano padre del più noto Giacomo — «quella terra nella quale siamo nati e in cui viviamo insieme con gli altri cittadini, avendo comuni con essi il suolo, le mura, le istituzioni, le leggi» (ibidem) —, a quella astratta dei rivoluzionari, che «[…] l’hanno nel cervello» (p. 21), come scrive François de Charette, uno dei capi dell’insorgenza vandeana; mostra che i veri difensori della patria erano gli insorgenti, bollati come «briganti» e «ribelli» da giacobini e da repubblicani, cioè dai collaborazionisti di allora, che un cronista pesarese dell’epoca apostrofava così: «Barbari, veri mostri d’iniquità! e come mentivate il nome di patrioti, se tanto odio nutrivate contro la vostra patria?» (p. 22).
Il contrasto fra i giacobini locali e il popolo era insanabile, non tanto e non solo per l’atteggiamento filofrancese dei primi, quanto e soprattutto perché i giacobini non riuscivano a frenare l’anticlericalismo loro connaturato, mentre il popolo era sensibilissimo a ogni offesa arrecata alle sue tradizioni religiose. A questo proposito è richiamata opportunamente l’importanza dell’attività pastorale e missionaria di san Leonardo da Porto San Maurizio nella preparazione del tessuto culturale e religioso dal quale nascono le insorgenze marchigiane, nello stesso modo in cui san Luigi Maria Grignion de Montfort aveva preparato la Vandea e sant’Alfonso Maria de’ Liguori aveva aperto la strada nel regno di Napoli all’epopea della Santa Fede, animata dal cardinale Fabrizio Ruffo.
L’opera di Sandro Petrucci, dunque, invita a non dimenticare la storia dell’Insorgenza e, scrive Marco Tangheroni, «[…] mostra la via da seguire per la restituzione all’Italia (e anche alle “piccole patrie” locali) della memoria storica» (p. 8), che è indispensabile per favorire una conoscenza non ideologizzata delle radici culturali dell’Italia contemporanea e per valutare correttamente il processo di formazione del paese, soprattutto i suoi nodi ancora irrisolti.
Francesco Pappalardo