Roberto de Mattei, Cristianità n. 60 (1980)
Una tragedia da non dimenticare
Schiavi di Mosca e vittime di Yalta
Il dramma dei sovietici anticomunisti rimpatriati forzatamente in Russia dagli anglo-americani, al termine della seconda guerra mondiale. Un generale, incredibile silenzio – rotto solamente dal Sommo Pontefice Pio XII – ha accompagnato il mostruoso tradimento perpetrato ai danni di eroici combattenti, colpevoli di non «gradire» il regime rosso e di opporsi a esso secondo le possibilità loro offerte dalle condizioni storiche e non certo per condivisione della concezione del mondo nazional-socialista. Un terribile interrogativo sulla reale volontà degli Alleati, di ieri e di oggi, di combattere effettivamente il comunismo internazionale.
Nel suo ultimo appello al mondo libero Aleksandr Solzenicyn ha denunciato le gravi responsabilità dell’Occidente nella espansione del comunismo internazionale: «Gli errori fatali commessi dall’Occidente sul comunismo ebbero inizio nel 1918: fin da allora i governi occidentali non ne hanno visto il pericolo mortale per se stessi» (1). L’Occidente, scrive lo scrittore esule nel Vermont, ha tradito due volte il popolo russo, durante la guerra civile e durante la seconda guerra mondiale; «ora c’è l’invito aperto a un terzo tradimento. È un invito micidiale per il popolo russo e per gli altri popoli dell’Urss, ma è altrettanto micidiale per l’Occidente; sarebbe, sì, la nostra fine, ma anche la vostra» (2).
Di queste responsabilità, prima che anche l’ultimo tradimento tragicamente si consumi, è giusto parlare, soprattutto del secondo, quello su cui la storia ha ormai definitivamente sollevato il velo: l’inumano rimpatrio forzato, tra il 1944 e il 1947, di oltre due milioni di russi, prigionieri degli Alleati, in base agli accordi segreti di Yalta tra sovietici e angloamericani. «È curioso come in Occidente (dove è impossibile serbare a lungo i segreti politici: questi trapelano immancabilmente nella stampa e vengono diffusi) il segreto di questo tradimento sia stato invece mantenuto benissimo, con cura, dai governi britannico e americano; in verità è l’ultimo, o uno degli ultimi misteri della seconda guerra mondiale» (3).
L’«ultimo segreto» della seconda guerra mondiale, la tragica odissea delle «vittime di Yalta» non è più tale dopo i volumi di due storici di lingua inglese, Nicolas Bethell e Nikolai Tolstoy (4), frutto di accurate ricerche negli archivi britannici e americani e della raccolta di preziose interviste e testimonianze di prima mano. A essi attingo per descrivere un episodio che conferma quale peso di responsabilità gravi su Yalta nella storia dei sessant’anni di capitolazione dell’Occidente al comunismo.
La costituzione dell’Esercito Russo di Liberazione
«Dal Mar Baltico al Mar Nero, l’Armata rossa retrocedeva in un’unica enorme ondata, come fosse spinta dal vento, malgrado la sua superiorità numerica e l’eccellente artiglieria. Indietreggiava in una grande ondata come mai si era visto in Russia in mille anni di storia e mai era successo prima nella storia dell’umanità. In pochi mesi si arresero circa tre milioni di soldati» (5). Quale sorte attende questi soldati? Nei campi di prigionia tedeschi essi apprendono che l’Unione Sovietica, non avendo mai voluto sottoscrivere le convenzioni dell’Aja e di Ginevra che regolano il trattamento dei prigionieri di guerra, li ha deliberatamente abbandonati al loro destino. «L’Urss non riconosce i propri soldati di ieri: non ha tornaconto a mantenerli in prigionia» (6).
I motivi di questo abbandono rientrano nella più limpida logica staliniana. «Prigioniero», per Stalin, è sinonimo di «traditore». Come escludere, infatti, che i prigionieri non si fossero volontariamente lasciati catturare? In prigionia, del resto, il tradimento, anche se non deliberato, restava sempre potenziale. E ancora: i prigionieri avevano intravisto un minimo di vita europea («Ma non tutti riuscivano a raccontare che in Europa si stava malissimo: una vita insopportabile») (7); erano fuggiti, almeno per qualche tempo, alle maglie dello Stato totalitario; costituivano, quindi, possibili portatori di germi di dissenso. Essi rappresentavano per la comunità sovietica un pericoloso «rischio di sicurezza». Colpevoli o innocenti, erano condannati (8).
Tra i prigionieri dei tedeschi, i soli russi sono, dunque, condannati a vivere e a morire brutalmente. Ma i tedeschi hanno bisogno di braccia per cementare il futuro vallo atlantico, di ausiliari nei territori occupati a Est, di tecnici e di soldati: per i prigionieri russi, insomma, si apre lo spiraglio della collaborazione. «Chi non abbia patito la fame come i nostri prigionieri di guerra, chi non abbia rosicchiato pipistrelli capitati nei lager, né cotto, per mangiarle, vecchie suole di scarpa, stenterà a capire quale invincibile forza materiale acquisti qualunque appello, qualunque argomentazione se dietro a questi, di là del cancello del lager, fuma una cucina da campo e ogni uomo che abbia acconsentito può subito ingozzarsi di polenta fino a riempirsi il ventre, almeno una volta! Un’altra volta almeno nella vita!» (9).
La collaborazione, per molti, è solo il modo meno difficile di evadere dal lager, di sopravvivere. Qualcuno pensa ancora di disertare nuovamente e poter reindossare la divisa dell’Armata Rossa. Per altri, i più, la collaborazione, che non vuole significare in alcun modo filo-hitlerismo, è il modo per esprimere l’odio accumulato contro il regime sovietico nei lunghi anni di vessazione.
Lituani, ucraini, estoni, e poi caucasici, tartari, cosacchi, ingrossano a poco a poco le file della Wehrmacht (10). Ma l’avvenimento decisivo nella storia di queste unità risale al 13 luglio 1942, quando, nel distretto di Siverskij (Leningrado), si arrende ai tedeschi Andrej Andrievic Vlasov, un generale di quarant’anni, che, dopo essersi coperto di onore nella difesa di Mosca, ha perso la sua armata, accerchiata a Leningrado e lasciata morire di fame da Stalin.
Vlasov, che conosce la fragilità dell’apparato sovietico e la possibilità di innescare la guerra civile in Russia, chiede ai tedeschi la possibilità di combattere Stalin e il comunismo alla testa di un Esercito Russo di Liberazione (11). Verso la fine del 1942 ottiene la costituzione di un centro di propaganda a Dabendorf, nei pressi di Berlino, ma non riesce a vincere la diffidenza dei nazisti. La restaurazione sognata da Vlasov è, del resto, ben diversa dal futuro che per la Russia immaginano Rosenberg e Hitler. Solo verso la fine del 1944, quando l’Armata Rossa già sta sulla Vistola e sul Danubio, l’Esercito Russo di Liberazione (Russkaya Osvoboditelnaya Armiya : ROA) ottiene via libera dai tedeschi. In esso ex-ufficiali zaristi, aristocratici, emigrati, combattono accanto a ex-ufficiali dell’Armata Rossa. Nel complesso quasi un milione di uomini che condividono l’alternativa radicale di Vlasov: «Se il bolscevismo muore il popolo russo vivrà. Se il bolscevismo sopravvive, cesserà di esistere il popolo russo. L’uno o l’altro. Non c’è terza scelta» (12).
Il tradimento anglo-americano ai danni dei prigionieri sovietici
Che cosa sarebbe accaduto dei prigionieri russi che avevano scelto – o erano stati costretti – di combattere a fianco dei tedeschi? Il problema fu sollevato per la prima volta il 28 maggio 1944 in una lettera inviata a Molotov dall’ambasciatore inglese a Mosca, sir Archibald Clark Kerr. Qualche giorno dopo giunse, laconica, la risposta del ministro degli Esteri sovietico: il numero dei prigionieri russi era «del tutto insignificante», e comunque, di scarso interesse politico (13).
Il numero di russi in uniforme tedesca che gli angloamericani si trovarono di fronte la settimana successiva, sbarcando in Normandia, si rivelò, in realtà, come tutt’altro che insignificante. Dall’Olanda ai Pirenei, con la divisa della Wehrmacht combatteva e fu catturato dagli Alleati un numero di russi che rappresentava circa il dieci per cento dei Prigionieri tedeschi. Il 17 luglio, il Gabinetto della Guerra inglese affrontò ufficialmente la scottante questione. Fu deciso, su iniziativa del ministro degli Esteri Anthony Eden, di proporre ai sovietici la riconsegna dei loro connazionali (14). Iniziò tra il Foreign Office e le autorità sovietiche uno scambio di lettere destinato a preparare la visita a Mosca di Churchill e di Eden, il 9 ottobre. Fu il famoso incontro in cui Churchill passò a Stalin un foglietto di carta con le percentuali delle rispettive zone di influenza nel centro-Europa. Stalin, in ottima forma, affascinò gli ospiti inglesi. «Abbiamo trovato qui una straordinaria atmosfera di buona volontà», scrisse Churchill a Roosevelt l’11 ottobre (15). Eden confessò di nutrire verso Stalin lo stesso sentimento di simpatia che aveva provato nel suo primo incontro, nove anni prima. «Stalin– confidò – non ha mai rotto le sue promesse, dopo aver dato la sua parola» (16). Il 17 ottobre Eden affrontò apertamente il problema dei prigionieri con Molotov. Per la prima volta si parlò di rimpatrio forzato.
Gli accordi imbastiti a Mosca trovarono la loro definitiva sistemazione nel febbraio del 1945, a Yalta, dove gli americani si affiancarono agli inglesi al tavolo delle trattative con i sovietici, in un clima di euforica fratellanza. «Io cammino per il mondo con maggior coraggio e speranza quando mi trovo in rapporto di amicizia e intimità con questo grande uomo, la cui fama si è sparsa non solo per tutta la Russia, ma nel mondo intero» (17), esclama Churchill, rivolto a Stalin, la sera dell’8 febbraio. «In un’alleanza– risponde Stalin con tono affabile, brindando alla salute dell’alleanza tripartita -, gli alleati non dovrebbero mai ingannarsi a vicenda. Forse questo è ingenuo? I diplomatici esperti potranno dire: “E perché non ingannare il mio alleato?“. Ma io, da uomo ingenuo, penso che sia bene non ingannare il mio alleato anche se è uno sciocco» (18).
Gli «esperti» sovietici da una parte, britannici e americani dall’altra, discutono intanto, per ore, tutti i dettagli dell’accordo. Il 10 febbraio ne parlano Stalin e Churchill a villa Jusupov, alla presenza di Molotov e di Eden. Il giorno successivo, infine, due agreements, di cui uno destinato a rimanere segreto, sono rispettivamente firmati da Eden e da Molotov per quanto riguarda i rapporti anglo-sovietici e da Deane e Gryzlov per quelli sovietico-americani. Il 15 febbraio, tre navi inglesi lasciano Liverpool per Odessa con il primo carico di 7 mila prigionieri russi.
«Nei loro paesi– commenta amaramente Solzenicyn – Roosevelt e Churchill sono considerati campioni di saggezza politica. Per noi invece, nelle nostre discussioni fra carcerati russi, apparve evidente la loro sistematica miopia e perfino stupidità» (20).
Il generale Andrej Vlasov, consegnato ai sovietici il 12 maggio 1945 dagli americani a cui si era arreso, è il primo alto ufficiale dell’Esercito di Liberazione Russo «rimpatriato» dagli Alleati. Il 2 agosto 1946 la Pravdaannunciava che il generale era stato condannato a morte e impiccato con i suoi collaboratori. Uno di questi, sopravvissuto, paragona il suo «tradimento» e la sua morte a quella del conte von Stauffenberg e dei congiurati anti-hitleriani del 20 luglio 1944 (21). Il destino dei soldati di Vlasov, dopo la riconsegna ai Sovietici, è stato fissato in una scena impressionante di Arcipelago GULag.
«Ricordo con vergogna– scrive Solzenicyn – come durante la riconquista (cioè il saccheggio) della sacca di Bobrujsk io camminavo su una strada maestra in mezzo ad autocarri tedeschi distrutti e rovesciati e un lussuoso bottino di guerra gettato alla rinfusa, quando da un avvallamento dove erano affondati nel fango carri e macchine, dove vagavano smarriti cavalli da tiro tedeschi e fumavano fuochi di altro bottino, udii un urlo di aiuto: “Signor capitano! signor capitano!”. Mi chiedeva aiuto, urlando, in pura lingua russa, un soldato appiedato con i calzoni tedeschi, nudo sopra la cintola, con la faccia, il petto, le spalle, la schiena già tutti insanguinati, mentre un sergente dei reparti speciali a cavallo lo incitava con la frusta e lo sospingeva col cavallo stesso. Gli sferzava con la frusta il corpo nudo, senza permettergli di voltarsi, di chiedere aiuto, lo cacciava avanti e lo percuoteva facendo nuove escoriazioni sanguinolente sulla pelle».
«La scena– aggiunge Solzenicyn – mi è rimasta per sempre davanti agli occhi. È quasi il simbolo dell’Arcipelago, potrebbe fare da copertina al libro» (22).
La via crucisdella comunità cosacca in Occidente
In quello stesso inverno, i servizi di informazione alleati appresero dell’esistenza di un ampio insediamento cosacco nel nord dell’Italia, a pochi chilometri dai confine austriaco.
I cosacchi costituivano una popolazione di frontiera, tra l’Ucraina meridionale e il Caucaso settentrionale. Di carattere fiero e di tradizioni guerriere, si erano dimostrati il gruppo etnico forse più ostile al regime sovietico e nel 1942 avevano accolto i tedeschi come liberatori. Avevano immediatamente restaurato uniformi, decorazioni e canti del tempo antico e insediato un «direttorio» nel quale l’ataman Domanov, ex-ufficiale dell’Armata Rossa, aveva trovato posto accanto a figure leggendarie dell’emigrazione come i generali Piotr Krasnov, che incarnava gli splendori dell’Armata Imperiale, o Andrei Grigorievicj Shkuro, che personificava piuttosto i cosacchi selvaggi dei tempi di Taras Bulba (23).
Dopo Stalingrado, di fronte alla prospettiva di una nuova occupazione sovietica, migliaia di cosacchi con le loro famiglie e il loro bestiame erano migrati verso Occidente, seguendo la ritirata della Whermacht. Attraverso la Bielorussia, la Polonia, la Germania e l’Austria erano giunti in Friuli, a Gemona, poi a Tolmezzo, dove li aveva sorpresi la fine della guerra. Da qui erano risaliti verso l’Austria per arrendersi agli inglesi e continuare la guerra su nuove basi: contro i sovietici a fianco degli Alleati. L’8 maggio, una delegazione di cosacchi incontra una delegazione inglese. «Dicemmo loro– ricorda un sopravvissuto – che eravamo cosacchi che avevano speso tutta la loro vita combattendo contro il potere sovietico. Avevamo combattuto fino all’ultimo uomo, ma mai contro unità regolari degli Alleati occidentali, perché consideravamo gli americani e gli inglesi come nostri amici» (24).
Quando il generale inglese Geoffrey Musson arriva a Kötschach, l’8 maggio, per accettare la resa dei cosacchi del generale Domanov, un inconsueto spettacolo si apre davanti ai suoi occhi. Per circa venti miglia, nella valle della Drava, sono accampati migliaia di uomini, donne, bambini con i loro abiti pittoreschi, le loro tende, il loro bestiame e i pochi beni scampati. Negli stessi giorni, nel villaggio di Griffen, qualche chilometro più a est, tra Völkermarkt e Wolfsberg, gli ufficiali e i soldati della 6ª divisione inglese assistono a uno spettacolo altrettanto inconsueto, anche se di diversa qualità (25). Il quindicesimo corpo di cavalleria cosacco, che raccoglie unità scelte di combattimento, prima della resa agli inglesi si appresta per l’ultima volta alla parata. Mentre risuonano le note della Prinz-Eugen Marsch, gli squadroni si succedono al galoppo serrato. Gli ufficiali sono in tenuta di gala, con le sciabole ricurve sguainate. Quasi metà degli ufficiali, tutti volontari, proviene da famiglie aristocratiche tedesche e austriache. Anche l’uomo che li comanda è un tedesco, il generale Helmut von Pannwitz (26), di una famiglia dell’Alta Slesia. Ma von Pannwitz ha fatto di tutto per riannodare, in tutti i dettagli, le tradizioni cosacche. Nel settembre del 1943 i cosacchi di von Pannwitz, dopo aver invano sperato di combattere sul fronte dell’Est, sono stati inviati in Jugoslavia, contro i partigiani di Tito. Nelle montagne della Bosnia e della Serbia, muovendosi con i loro cavalli con maggiore facilità dei mezzi motorizzati, si sono acquistati una grande reputazione di valore e di disciplina. Quando giunge la notizia della capitolazione tedesca, von Pannwitz si preoccupa della sorte dei suoi uomini e pensa a una onorevole resa agli inglesi, gli unici di cui si fida. Tutti i suoi tentativi per convincere gli inglesi a utilizzare i cosacchi o a offrire loro, comunque, asilo sono però destinati al fallimento. Il 26 maggio von Pannwitz è informato di essere stato privato del comando del corpo. Gli è segretamente offerta la possibilità della fuga, ma von Pannwitz rifiuta, dichiarando che aveva guidato i cosacchi nella buona sorte e che non li avrebbe abbandonati nella cattiva. Quasi a suggellare il patto di reciproca fedeltà, il 24 maggio aveva accettato la nomina ad ataman, dignità mai prima di allora concessa a uno straniero.
La tragica fine dei cosacchi che avevano osatocombattere il comunismo
La mattina del 26 maggio, il generale Musson riunisce i suoi collaboratori nel quartier generale della brigata, a Oberdrauburg, e li informa che i cosacchi sarebbero stati riconsegnati ai sovietici. La decisione è stata presa ai massimi livelli: dal feldmaresciallo Alexander e, più in alto ancora, dallo stesso Churchill. L’operazione prevede, dopo il disarmo, un deliberato inganno: l’invito degli ufficiali cosacchi a una immaginaria conferenza, per separarli dai soldati e dalle famiglie (27). La sera del 27 maggio, il maggiore Rusty Davies, che tiene i collegamenti con i cosacchi e ne ha guadagnato la fiducia, si presentò al generale Domanov per comunicargli che il giorno seguente tutti gli ufficiali erano stati invitati a una «conferenza», che avrebbe dovuto svolgersi in una località a est di Oberdrauburg. Lo stesso feldmaresciallo Alexander – precisò – avrebbe partecipato all’incontro e li avrebbe informati di importanti decisioni concernenti il loro futuro (28).
A qualcuno questa improvvisa mobilitazione di 1500 uomini parve sospetta. D’altra parte nessuno era al corrente degli accordi di Yalta, né mai gli ufficiali russi, allevati nel culto delle tradizioni dell’Armata Imperiale, avrebbero potuto concepire di essere così platealmente ingannati da un ufficiale di Sua Maestà il Re. La mattina del 28 maggio, un ufficiale di collegamento cosacco, Butlerov, si rivolse al maggiore Davies. «Lei è un soldato e deve obbedire agli ordini. Ma io spero che sia anche un amico. Lei sa che ho una moglie e un figlio nel campo. Mi dà la sua parola di ufficiale e di gentiluomo che ritorneremo al campo questa sera?». «Naturalmente gliela do!», esclamò Davies(29).
Poco dopo giunsero nel campo gli autocarri inglesi. Incerti, con il cuore gonfio di sospetti e di speranze, 1475 ufficiali abbracciarono le famiglie e salirono sugli autocarri. «Sarò di ritorno tra le sei e le otto di questa sera», mormorò alla moglie il vecchio Krasnov (30). Una folla di uomini, donne e bambini, assiste silenziosa alla partenza. Poche ore dopo, nel quartier generale della 36ª brigata di fanteria il generale Musson riceve l’ataman Domanov, comandante in capo della nazione cosacca. «Ho l’obbligo di informarla, Signore, che ho ricevuto il preciso ordine di consegnare tutta la divisione cosacca alle autorità sovietiche. Mi dispiace darle questa notizia– conclude freddamente -, ma l’ordine è categorico. Buon giorno» (31).
I ventimila cosacchi accampati nella valle della Drava passavano, intanto, una notte di insonnia e di terrore, nella vana attesa dei loro ufficiali (32). La mattina del 29 maggio appresero quanto già temevano da un comunicato ufficiale del maggiore Davies. «Cosacchi! I vostri ufficiali hanno tradito e vi hanno condotto su una strada sbagliata. Sono stati arrestati e non ritorneranno … » (33). Anche essi dovevano prepararsi a partire …
Le reazioni dei cosacchi furono disperate. Molti si suicidarono, altri cercarono la morte in una inutile fuga, preferendo morire nella foresta, come bestie braccate, piuttosto che cadere nelle mani dei comunisti. Il giorno successivo la valle della Drava offriva un angosciante spettacolo. Sulle baracche e sulle tende pendevano centinaia di bandiere nere listate a lutto e un cartello dove si legge: «Meglio la morte che la riconsegna ai comunisti». «Abbiamo cercato la protezione degli inglesi nella speranza di trovare la salvezza– scrivono gli anziani in una petizione al maggiore Davies – ma se questa protezione sarà impossibile preferiamo morire che essere rimpatriati in Unione Sovietica, dove siamo condannati a un lungo e sistematico annientamento» (34).
La data fissata dalle autorità inglesi per la partenza è quella del Corpus Domini, il 1º giugno, un giorno che l’ataman Naumenko ha definito come «scritto a lettere di sangue nella storia della nazione cosacca» (35). La popolazione del campo, quella mattina, è raccolta intorno a un altare improvvisato e a una grande croce. I sacerdoti, con i paramenti solenni e le icone levate celebrano per l’ultima volta secondo la liturgia «ortodossa». Dalla folla si leva la melodia grave dei canti religiosi e nazionali. I cosacchi hanno deciso di resistere per dimostrare al mondo che il rimpatrio avviene contro la loro volontà.
Dopo aver concesso mezz’ora di tempo per sciogliersi, il maggiore Davies ordina l’uso della forza. I soldati inglesi avanzano con le baionette innestate, ma nessuno della folla si muove. Le fila degli uomini, all’esterno, coprono con i loro corpi le donne e i bambini. Fu allora un susseguirsi di scene di disgustosa violenza e brutalità. Mentre le urla di disperazione si confondono con le invocazioni e le preghiere, i cosacchi vengono caricati, percossi, issati di forza sugli autocarri. Numerosi sono i morti e i feriti. Gli stessi soldati inglesi, veterani di sanguinose battaglie, sono nauseati dagli ordini ricevuti. In tre giorni di selvaggia violenza la resistenza è piegata. Stipati nei vagoni bestiame, i cosacchi vengono avviati come bestie al macello verso il loro destino. Il 3 giugno, padre Kenneth Tyson, cappellano cattolico dell’Irish London Regiment, nella sua predica bollò come una «vergogna sanguinosa» quanto era accaduto e commentò il passo evangelico: «Sbarcando Gesù vide la gran folla e n’ebbe compassione, perché erano come pecore senza pastore; e incominciò a insegnar loro molte cose» (36).
Il 28 maggio 1945, a Judenburg, una piccola cittadina sul fiume Mur nella zona di occupazione sovietica, i maggiori protagonisti della guerra antibolscevica si ritrovano per l’ultimo appuntamento. Anche von Pannwitz, come gli altri ufficiali cosacchi, vi è stato condotto con l’inganno. Convocato per un incontro dagli inglesi, si trova invece faccia a faccia con i sovietici. «In questo modo– scrive Bethell – il governo britannico aveva decretato in sostanza la condanna a morte senza processo di ufficiali tedeschi che erano stati accolti come prigionieri di guerra» (37).
Prima della sua partenza per Judenburg il generale Krasnov ha invano rivolto un ultimo appello alle maggiori autorità dell’occidente. Avrebbe accettato di buon grado la sorte che lo aspettava, assieme agli altri ufficiali – scrive – se fosse stato riconosciuto colpevole di crimini di guerra: ma implorava in ogni caso di avere pietà della massa dei cosacchi e delle loro famiglie, che non potevano essere accusati di nessun crimine (38).
Il velo di silenzio che da questo momento si chiude sulla sorte dei cosacchi è quasi miracolosamente squarciato dalla testimonianza di un sopravvissuto: Nikolai Krasnov, nipote del generale Piotr, che dopo dieci anni di lagerfu liberato, in quanto cittadino jugoslavo, e riuscì a lasciare la Russia. Nelle celle della Lubjanka il vecchio Krasnov gli ha affidato il suo testamento: «Se sopravviverai, racconta ogni cosa. Da Lienz, fino alla fine delle tue sofferenze ricorda ogni cosa. Il mondo deve sapere la verità su quanto è successo… » (39). Nikolai Krasnov sarà fedele alla sua promessa. In un volume significativamente intitolato Indimenticabiledescrive gli incontri, a Mosca, tra le vittime e gli aguzzini (40).
«Non ho nulla da dirvi!», esclama suo padre Simeon Krasnov, rivolto a Merkulov, il terzo uomo più potente in Unione Sovietica dopo Stalin. «Non capisco questa perdita di tempo. Facciamola finita, una pallottola nella nuca … ». «Oh, no signor Krasnov … Le cose non sono così semplici. Che credi? Una pallottola nella nuca e basta? Sciocchezze, Vostro Onore! Hai da meritartelo! C’è tempo per finire nella fossa. Un mucchio di tempo per finire nella concimaia. Ma prima dovrai fare qualcosa per il bene della tua patria. Passerai qualche tempo sul 70º parallelo. È così interessante, sai … Non ci illudiamo di avere successo nella tua rieducazione e di fare di te una pecora obbediente; non ci amerai mai, ma noi riusciremo a farti lavorare per il comunismo, a costruirlo, e da questo trarremo la nostra più grande soddisfazione» (41).
Le miniere di carbone del bacino di Kuznetski si spalancano davanti ai cosacchi, secondo le istruzioni rivoluzionarie del 23 luglio 1918: «I soggetti privati della libertà, se validi al lavoro, sono chiamati al lavoro fisico obbligatorio» (42). Questa fu la sorte di 50 mila cosacchi, consegnati alla NKVD nelle 5 settimane successive al 28 maggio. Di essi, settemila morirono nel primo anno per la fatica e le sofferenze.
In quelle stesse settimane e nei mesi che seguirono, nei campi di prigionia inglesi e americani, a Dachau, a Kempten, a Platting, a Fort Dix, a Pisa, a Riccione, le operazioni di rimpatrio si ripeterono, con gli stessi metodi, su larga scala. Migliaia di cittadini russi, per lo più civili, che opponevano una disperata resistenza al rimpatrio, vennero aggrediti con i calci dei fucili, le punte delle baionette, gli sfollagente, caricati sui treni o sui piroscafi e avviati in Russia dove, dallo stretto di Bering fino al Bosforo, li attendevano le migliaia di isole dell’arcipelago (43).
Il 17 giugno 1945, alla Camera dei Comuni, Churchill, interpellato dal deputato Richard Stokes, negava l’esistenza di accordi segreti a Yalta. In realtà la Gran Bretagna e gli Stati Uniti non solo avevano sacrificato il tradizionale diritto di asilo a una cinica e infruttuosa ragion di Stato, ma, in flagrante violazione degli stessi accordi di Yalta, avevano consegnato ai sovietici uomini, come gli ufficiali tedeschi o gli emigrati, per i quali in alcun modo si poteva parlare di «tradimento» (44).
Negli accordi di Yalta e nell’episodio del rimpatrio forzato dei russi Solzenicyn vede l’inizio della capitolazione dell’Occidente di fronte al comunismo in questo dopoguerra: «una sorta di nuova guerra mondiale, perduta dall’Occidente senza combattere e senza difendersi, consegnando al comunismo mondiale una buona ventina di paesi» (45).
Come causa profonda di questa capitolazione, accanto a «la debolezza morale propria di ogni benessere, che teme sempre il rischio», Solzenicyn indica «la totale incomprensione della natura del comunismo, spietatamente malvagia, aggressiva, sempre uguale e micidiale per tutti i paesi del mondo» (46). Ma già quarant’anni prima di Solzenicyn si era levata la voce di un Papa, Pio XI, per individuare la spiegazione della diffusione del comunismo nel mondo «nel fatto che assai pochi hanno potuto penetrare la vera natura del comunismo» (47) e per rinnovare l’appello alla lotta «per allontanare dall’umanità il grande pericolo che minaccia tutti» (48). Sola, la voce di un Pontefice, Pio XII, il 20 febbraio 1946 si levò per condannare «il rimpatrio forzato e la negazione del diritto di asilo» (49). Ancora a un Pontefice, figlio di una nazione sacrificata a Yalta, sono fissi oggi gli occhi del mondo alla vigilia del terzo tradimento dell’Occidente. «Preghiamo affinché il suo comportamento riempia di chiarezza gli spiriti, dia forza agli animi e dia gloria alla santa Chiesa di Dio» (50).
Roberto de Mattei
NOTE:
(1) Solzenicyn, in questa ora estrema, trad. it. di Irina Ilovajskaja Alberti, in Il Sabato, anno III, n. 8, 23-2-1980, pp. 34.
(2) Ibidem.
(3) ALEKSANDR SOLZENICYN, Arcipelago GULag, trad. it., vol. 1º, Mondadori, Milano 1974, p. 100, n. 1.
(4) Cfr. NICOLAS BETHELL, The Last Secret, Basic Books Inc. Publishers, New York 1974; e NIKOLAI TOLSTOY, Victims of Yalta, Hoddon and Stoughton, Londra 1977. A essi, per completare il quadro bibliografico, occorrerà aggiungere gli studi di MARK R. ELLIOT, The United States and Forced Repatriation of Soviet Citizens, 1944-47, in Political Science Quarterly(1973), lxxxviii, pp. 253-75, e di JULIUS EPSTEIN, Operation Keelhaul: The Story of Forced Repatriation from 1944 to the Present, Old Greenwich, Connecticut, 1973. In Italia, sulla vicenda, cfr. PIERO BUSCAROLI, L’ultimo segretoe La strage dei Cosacchi, comparsi in Il Borghese, vol. III, settembre 1975, rispettivamente alle pp. 437-444 e 517-524.
(5) Solzenicyn, in questa ora estrema, cit.
(6) A. SOLZENICYN, Arcipelago GULag, cit., p. 228. Ancora durante la guerra, malgrado le sollecitazioni del governo tedesco, che si servì, tra l’altro, dei canali della Croce Rossa Internazionale, i sovietici rifiutarono sistematicamente ai tedeschi la reciprocità di trattamento dei prigionieri. Cfr. N. TOLSTOY, op. cit., pp. 33-36.
(7) A. SOLZENICYN, Arcipelago GULag, cit., p. 97.
(8) Cfr. N. BETHELL, op. cit., pp. 2-3; N. TOLSTOY, op. cit., pp. 33-36.
(9) A. SOLZENICYN, Arcipelago GULag, cit., p. 252.
(10) La prima defezione di rilievo dall’Armata Rossa avvenne il 22 agosto 1941, esattamente due mesi dopo l’inizio della offensiva tedesca. Quel giorno il comandante di una unità germanica ricevette un emissario cosacco che gli offriva la resa del 436moreggimento di fanteria sovietico, comandato dal maggiore Ivan Nikitich Kovonov. Kovonov chiese di poter combattere accanto ai tedeschi contro Stalin. Il suo reggimento lo seguì in blocco (cfr. N. TOLSTOY, op. cit., p. 40).
(11) Prescindo da ogni giudizio politico sul movimento di Vlasov. N. Bethell, che lo definisce «uomo di eccezionale charme e integrità» (op. cit., p. 41), gli rimprovera un comportamento ingenuo nei confronti del nazional-socialismo. N. Tolstoy, che ricorda come nei GULag ancora si coltivassero i suoi ideali di libertà, sottolinea come, «dopo il trionfo di Lenin, nel 1921, Andrej Vlasov è stato il solo russo ad avere condotto una aperta campagna politica e militare contro il regime sovietico su suolo russo» (op. cit., p. 303). Su Vlasov, oltre le opere citate, cfr. GEORGE FISCHER, Soviet opposition to Stalin, Harvard University Press 1952.
(12) N. BETHELL, op. cit., p. 68.
(13) Cfr. N . BETHELL, op. cit., pp. 2 ss.; N. TOLSTOY, op. cit., pp. 25 ss.
(14) L’unica vigorosa opposizione venne da lord Selborne, che il 21 luglio, in una lettera a Eden e a Churchill, esprimeva tutto il suo turbamento per la decisione presa. Eden, che già il giorno prima aveva scritto all’ambasciatore sovietico a Londra, informandolo che il governo di Sua Maestà era ansioso di addivenire a un accordo rispose a lord Selborne giustificandosi, tra l’altro, con la incredibile assicurazione che «una larga percentuale dei prigionieri, quali fossero le loro ragioni, erano disposti e perfino ansiosi di tornare in Russia» (N. TOLSTOY, op. cit., p. 56). Tolstoy osserva che si tratta di un importante documento, che conferma la consapevolezza inglese. Intervistato nel 1973, Eden (ormai lord Avon) disse che «realmente non riusciva a ricordare i dettagli che riguardavano quell’argomento» (N. BETHELL, op. cit., p. 12). Malgrado le sue precise responsabilità.
(15) Roosevelt and Churchill. Their secret wartime correspondence, a cura di F. L. Loewenheim, H. D. Langley e M. Jones, Saturday Review Press, E. P. Dutton and Co. Inc., New York 1975, p. 583.
(16) N. BETHELL, op. cit., p. 20. «Questa fiducia nell’onestà del dittatore sovietico– osserva Bethell – doveva indurre in errore Eden e gli altri leaders alleati molte volte nei pochi mesi successivi» (op. cit., p. 21).
(17) WINSTON CHURCHILL,La II Guerra mondiale. Parte VI (Trionfo e tragedia). La cortina di ferro, tr. it., Mondadori, Milano 1953, p. 45.
(18) Ibid., p. 47.
(19) Cfr. N. BETHELL, op. cit., pp. 31-37; N. TOLSTOY, op. cit., pp. 77-79.
(20) A. SOLZENICYN, Arcipelago GULag, cit., p. 265.
(21) Cfr. WILFRIED STRICK-STRIKFELDT, Against Stalin and Hitler, Macmillan, Londra 1970, p. 248.
(22) A. SOLZENICYN, Arcipelago GULag, cit., pp. 262-263.
(23) Cfr. N. BETHELL, op. cit., pp. 75 e ss.; N. TOLSTOY, op. cit., pp. 150 ss.
(24) N. BETHELL, op. cit., p. 81.
(25) Cfr. N. TOLSTOY, op. cit., pp. 222 ss. Più a nord stazionavano diverse migliaia di georgiani del Caucaso. Anche essi offrirono uno spettacolo sorprendente agli occhi degli ufficiali inglesi. Alla loro testa era un gruppo di principi, comandati a loro volta da una incantevole principessa di nome Marianna. «Questi nobili georgiani vivevano in un romantico mondo di sogno, che stava per essere distrutto per sempre» (N. TOLSTOY, op. cit., p. 154). Solo dieci giorni prima il principe georgiano Irakly Bagration aveva invano offerto agli inglesi la resa di 100 mila georgiani combattenti nella Whermacht (Ibidem).
(26) «Tutti coloro che vennero in contatto con il generale von Pannwitz – cosacchi, tedeschi e inglesi – concordano nel dire che egli era un soldato di valore eccezionale, un uomo di onore e di coscienza. I cosacchi lo adoravano universalmente» (N. TOLSTOY, op. cit., pp. 224).
(27) Cfr. N. BETHELL, op. cit., pp. 94 ss.; N. TOLSTOY, op. cit., pp. 176 ss.
(28) N. TOLSTOY, op. cit., p. 178.
(29) N. TOLSTOY, op. cit., p. 171; N. BETHELL, op. cit., p. 105.
(30) N. TOLSTOY, op. cit., p. 173.
(31) Ibid., p. 175.
(32) L’episodio che segue è descritto in maniera impressionante, con dovizia di particolari, da N. BETHELL, op. cit., 124-165 e N. TOLSTOY, op. cit., pp. 198-222.
(33) N. TOLSTOY, op. cit., p. 199.
(34) N. BETHELL, op. cit., p. 127.
(36) N. TOLSTOY, op. cit., p. 216; N. BETHELL, op. cit., p. 149.
(37) N. TOLSTOY, op. cit., p. 234.
(38) Ibid., pp. 181-182.
(39) Ibid., p. 194.
(40) «Il suo libro fu letto da pochi e non è stato mai ripubblicato. L’autore, in ogni caso, morì poco dopo la sua pubblicazione; fu quasi certamente avvelenato da killer sovietici i cui capi avevano letto il libro» (N. TOLSTOY, op. cit., p. 187). Il 17 gennaio 1947 la Pravdaannunciava che Piotr e Simeon Krasnov, Andrei Shkuro, Kelich Girey, T. J. Domanov e Helmunt von Pannwitz erano stati processati e condannati a morte per impiccagione. La sentenza era stata eseguita. Di questi sei uomini, osserva Bethell, il solo Domanov, cittadino sovietico, rientrava negli accordi di Yalta. «Essi non furono accusati di crimini di guerra, ma condannati per aver combattuto contro le forze sovietiche, cosa che fu interpretata come un atto di tradimento» (BETHELL, op. cit., p. 164).
(41) N. TOLSTOY, op. cit., pp. 190-193.
(42) ALEKSANDR SOLZENICYN,Arcipelago GULag, trad. it., vol. II, Mondadori, Milano 1975, p. 16.
(43) Un discorso a parte meriterebbe la consegna ai comunisti e lo sterminio del popolo croato, su cui, oltre le pagine di N. Bethell (op. cit., pp. 84-88), cfr. JOSEPH HECOVOMICH, Tito’s Death Marches and Extermination Camps, Carlton Press, New York 1962.
Più fortunati furono i 10 mila ucraini del generale Shandruck e gli Schutzkorps russi della Serbia del colonnello Rogozhin. Anche se entrambi i corpi erano in gran parte composti da cittadini russi, gli inglesi non applicarono a essi le clausole di Yalta (cfr. N. TOLSTOY, op. cit., pp. 256-257).
(44) L’unico Stato che si oppose decisamente al rimpatrio dei prigionieri russi ospitati nel proprio territorio fu il principato del Liechtenstein. «Accadde così– commenta N. Tolstoy – che il piccolo Liechtenstein, un paese senza esercito e con una forza di polizia di undici uomini fece quello che nessun altro paese europeo osò fare» (op. cit., p. 394). Lo stesso N. Tolstoy incontrò il principe regnante Franz Josef II e gli chiese se questo comportamento avesse provocato gravi conseguenze. «Egli sembrò abbastanza sorpreso della mia domanda. “Oh, no – spiegò – se Lei parla duramente con i sovietici ne sono ben contenti. Dopotutto è il solo linguaggio che comprendono”» (ibidem).
(45) Solzenicyn, in questa ora estrema, cit.
(46) Ibidem.
(47) PIO XI, Enciclica Divini Redemptoris, del19-3-1937, in Le encicliche sociali dei Papi. Da Pio IX a Pio XII (1859-1956), a cura di Igino Giordani, 4ª ed. corretta e aumentata, Studium, Roma 1956, p. 607.
(48) Ibid., p. 633. Cfr. anche IDEM, Enciclica Caritate Christi compulsi, del 3-5-1932, ibid., p. 534.
(49) «[…] la stabilità del territorio e l’attaccamento alle tradizioni avite, indispensabili alla sana integrità dell’uomo– ammonì il Pontefice nell’allocuzione al Sacro Collegio del 20 febbraio 1946 -, sono anche elementi fondamentali della comunità umana. Sarebbe però evidentemente un capovolgere e convertire nel suo contrario il benefico effetto di questo postulato, se alcuno volesse servirsene per giustificare il rimpatrio forzato e la negazione del diritto di asilo riguardo a coloro che per gravi ragioni desiderassero fissare altrove la loro residenza» (Discorsi e Radiomessaggi, vol. VII, pp. 392-393).
(50) PLINIO CORRÊA DE OLIVEIRA, Il dilemma di Papa Giovanni Paolo II, in Cristianità, anno VI, n. 43, novembre 1978.