Estratto da Scuola di Educazione Civile – 16 aprile 2009. Foto da corriere.it
Ho l’onore e l’onere, stasera, di tenere la lezione conclusiva di questo ciclo della Scuola di Educazione Civile, dedicato al tema “scienza e fede”.
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«Viviamo in un mondo di grandi pericoli e di grandi opportunità per l’uomo e per il mondo, un momento che è anche di grande responsabilità per tutti noi. Durante il secolo passato le possibilità dell’uomo e il suo dominio sulla materia sono cresciuti in misura davvero impensabile. Ma il suo poter disporre del mondo ha anche fatto sì che il suo potere di distruzione abbia raggiunto delle dimensioni che, a volte, ci fanno inorridire» (Joseph Ratzinger, L’Europa di Benedetto nella crisi delle culture, La crisi delle culture parte prima, Libreria Editrice Vaticana e Edizioni Cantagalli, Siena, 2005, pag. 29).
In questa frase Sua Santità Papa Benedetto XVI (che mi permetto di invitarvi a ricordare nella preghiera, in modo costante ma oggi in maniera particolare, in quanto ricorre il suo 82esimo compleanno) fotografa il mondo nel quale ci troviamo. Infatti basta guardarsi intorno per capire dove l’intelligenza e l’ingegno umani ci hanno portato. Ora si possono fare cose che un tempo non si sarebbero riuscite nemmeno ad immaginare, basta pensare alla lavatrice, all’aereo, a internet, alle terapie con cellule staminali, all’incubatrice, e a tante altre. Tutte queste cose hanno semplificato la vita dell’uomo e anche dato nuove comodità. D’altra parte però alcune scoperte sono più controverse e rischiose, come la clonazione, la fecondazione artificiale, le armi di distruzione di massa, ecc… Quindi possiamo riassumere che l’uomo può intervenire sul creato che lo circonda e sulla vita delle persone in modo sempre più incisivo; ma che ci sono alcune azioni che elevano l’uomo stesso e altre che invece lo danneggiano.
Quindi l’uomo “può fare” molte più cose rispetto al passato. Ma distinguiamo questo “poter fare” nelle sue due accezioni possibili: avere l’abilità di, essere in grado (in inglese: to be able to) e avere il permesso, essere autorizzati legittimamente (in inglese: to be allowed to).
Facciamo questa distinzione perché è il punto nodale del rapporto tra scienza e fede: la scienza, la tecnologia, il progresso (o in qualsiasi altro modo vogliamo chiamare la crescente abilità dell’uomo) non possono essere slegate dalla morale, dal giudizio. Ci dice perché si può essere uomini di scienza, lavorando con cose anche molto materiali, dagli atomi infinitamente piccoli ai sistemi stellari infinitamente grandi, ma essere (o fare di tutto per essere) uomini di fede e buoni cristiani. Dice in relazione a come poter vivere santamente la nostra epoca.
Quindi il “poter fare”, come abilità e come permesso, spesso, nel mondo in cui ci troviamo a vivere, sono confusi. Mi interessa, questa sera, sottolineare due cause seconde, che stanno alla base di questa confusione, e una causa prima. Cercherò di darvi un quadro, una specie di schema in cui trovano posto anche gli argomenti che abbiamo trattato durante questo corso, per fare ordine (e vedremo quanto l’ordine sia importante) ed aiutarci ad avere degli strumenti, dei metri di giudizio sul mondo che ci circonda. Non ho nessuna pretesa di esaustività, non vi dico: “so tutto e adesso lo racconto anche a voi”, assolutamente. Ma non significa che quello che vi dirò non è vero, o è solo un’opinione che vale quanto qualunque altra.
Non c’è nessun’ombra di relativismo, anche perché è proprio il relativismo la prima causa seconda (stiamo facendo un percorso a ritroso, quindi partiamo dalle cause seconde, cioè più vicine, per arrivare poi alla causa prima, di partenza, originale). Il relativismo in realtà slega la scienza dal giudizio morale distruggendo il giudizio stesso. Se non esiste la Verità con la V maiuscola, il mio giudizio soggettivo non è sufficiente a dire che cosa è giusto e che cosa è sbagliato, perché quello che è bene per me può essere male per te, e viceversa. Il relativismo, come abbiamo detto anche in questa sede più volte, facendo eco al magistero di Benedetto XVI, è uno dei mali del nostro tempo, contro cui il Papa sta certamente combattendo una lodevolissima battaglia; noi, come cristiani, siamo tenuti a schierarci al suo fianco, e, in più, è una delle cose che Alleanza Cattolica si ripromette di fare come sua specificità.
Il secondo aspetto, la seconda causa seconda (per giocare un po’ con le parole) che genera confusione è una falsa idea di libertà: “fare quello che voglio (tutto quello che mi passa per la testa)”, anziché “essere libero di scegliere il bene”, che è il presupposto per il merito. La famosa “libertà da” contrapposta alla “libertà di”.
E arriviamo in questo modo, attraverso il movimento sessantottino, che è stato promotore della falsa libertà (la “libertà da”: dalle regole, dall’autorità, ecc…), alla causa prima, cioè la Rivoluzione. In particolare, la IV Rivoluzione, ma in generale la Rivoluzione con la R maiuscola, nel suo insieme.
Per iniziare dal principio, come peraltro abbiamo fatto anche in questo corso, dobbiamo ricominciare da Adamo ed Eva. Perché è lì che il male, l’errore è entrato nella storia dell’uomo, cioè con il peccato originale. Non che prima il male non ci fosse, esisteva dal “non serviam” di Lucifero, ma entra nella storia dell’uomo con il peccato originale, e non possiamo non tenerlo in considerazione. Dunque Adamo ed Eva, nel giardino dell’Eden, dopo la disobbedienza, perdono quella condizione in cui erano, della natura non corrotta, di vivere in un habitat particolare, e la Scrittura ce lo descrive con queste parole: «Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e si accorsero di essere nudi» (Gn 3, 7). Questa condizione viene interpretata dai padri della Chiesa come la perdita di una sorta di corpo di gloria, cioè di una sorta di abito glorioso, che era la condizione di cui era rivestito il soggetto. Cioè, non è che l’uomo fosse nudo e si accorge di essere nudo, ma era rivestito di un abito che scompare dopo il gesto tragico che va sotto il nome di peccato originale.
La consapevolezza della caduta e quindi della nudità produce anzitutto una reazione: l’uomo si accorge di essere nudo e, come dice la scrittura «intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture» (Gn 3, 7). Possiamo dire che questo farsi cintura è la reazione: il soggetto è ferito dal peccato, ma di una ferita che non è radicale, perché mantiene il ricordo di una situazione migliore. Allora inizia immediatamente lo sforzo per farsi un abito, cioè: avevamo un abito, dopo il peccato è stato perduto, bisogna rifarsi l’abito, quindi si può dire che tutti gli abiti, tutte le abitudini, tutti gli atteggiamenti, tutte le istituzioni dall’origine del mondo, dal peccato originale in avanti, costruite da opera d’uomo, sono sinteticamente rappresentati da quel farci cintura delle foglie di fico: quello è il gesto della civilizzazione: vi era una condizione, è scomparsa questa condizione, deve essere recuperata. Ma vi è un secondo gesto, nella Genesi: «il Signore fece all’uomo e alla donna tuniche di pelle e li vestì» (Gn 3, 21). Quindi vi era una condizione in cui l’uomo era vestito, una condizione post peccatum in cui scopre la propria nudità; la reazione dell’uomo alla propria nudità è intrecciarsi cinture con foglie di fico, la reazione di Dio alla nudità dell’uomo è fargli tuniche e rivestirlo.
Vesti, cioè istituzioni, opere di uomini che siano aderenti alla convivenza umana alla quale in questa vita non possiamo sottrarci. La veste viene interpretata come istituzioni umane. Quindi credo che si possa dire che tutto quello che succede tra gli uomini post peccatum è un susseguirsi di gesti, tra il soggetto ignudo che si sforza di rivestirsi ed eventualmente lo stesso soggetto che, reiterando il peccato, si sveste sia delle vesti storiche che si era costruito con le sue mani sia delle vesti storiche che si era costruito con l’aiuto di Dio. Quindi questo passaggio dalla barbarie che deriva dal peccato ad una condizione di civiltà è l’andamento binario possibile di ogni civiltà umana. Cioè il soggetto umano si forma un habitus, ha quella che dobbiamo chiamare una cultura, intesa come presa di posizione, un giudizio a proposito di tutti i problemi dell’uomo e di tutte le realtà che circondano l’uomo, a 360 gradi. Nella definizione di Fernand Braudel (1902-1985), storico francese non credente, “cultura” è il modo di crescere, di vivere, di amare, di sposarsi, di pensare, di credere, di ridere, di nutrirsi, di vestirsi, di costruire le case, di disegnare le città e i campi, di comportarsi. Saper stare di fronte all’eternità, non scambiare la vita per una corsa inquieta contro il tempo.
Tornando alla Rivoluzione, possiamo definirla come opera del maligno, anzi come uno dei modi che ha trovato per operare contro gli uomini (non a caso tra i vari appellativi che sono usati c’è anche quello di “nemico della natura umana”). Che cosa fa il diavolo? Non attacca frontalmente, ma un po’ alla volta: spoglia l’uomo delle sue difese, dei suoi abiti, attaccando la società, la morale, l’autorità, la famiglia, eccetera. Mina la cultura in genere, tenta di distruggere l’habitat favorevole, e così facendo rende l’uomo vulnerabile e più facile da far cadere in peccato. Si dice che una delle grandi vittorie del demonio sia quella di aver fatto credere agli uomini che non esiste. Io aggiungo che chi crede che il diavolo esiste, pensa normalmente che sia stupido, e questo è, ahinoi, un altro punto a suo vantaggio. Invece non solo c’è, ma purtroppo è furbo, e agisce. Lo fa, ad esempio, attraverso la Rivoluzione.
Come sappiamo, la Rivoluzione è un processo «che mira alla distruzione di un potere o di un ordine legittimo e all’instaurazione di uno stato di cose […] illegittimo» (Plinio Correa De Oliveira, Rivoluzione e Contro-Rivoluzione, ed. Cristianità, Piacenza, 1977, pag. 93), che ribalta l’ordine naturale delle cose, così come sono state create (un unico processo, in molte forme è un mostro, ha molte teste). Molti dei problemi (= peccati) personali e sociali derivano da una rivoluzione (con la minuscola), da un ribaltamento, dal mettere le cose in ordine sbagliato, secondo una scala di priorità che non corrisponde a verità. Dove per “vero” intendo “rispondente alla natura delle cose, così come sono state fatte”. E non si tratta solo di far scendere Dio dal gradino più alto, ma si applica in tutti gli ambiti, anche alle cose piccole.
Rifacendomi a discorsi trattati in questo corso, ne abbiamo avuta prova parlando ad esempio di animalismo, dove agli animali viene data più importanza che agli uomini. Il ribaltamento infatti avviene anche come rifiuto della verità, nelle ideologie: ne abbiamo avuta prova con l’ambientalismo, il rifiuto dell’energia nucleare, l’evoluzionismo: non solo idee, ma ideologie, che forzano la realtà secondo il proprio pensiero anziché guardarle, osservarle (con attenzione) e prenderne atto.
Quello delle ideologie è un atteggiamento decisamente anti-scientifico. Il metodo scientifico, infatti, parte sempre dall’osservazione di un fenomeno naturale, poi continua con l’ipotesi di una legge che lo regola, prosegue con la realizzazione di un esperimento che verifichi se la teoria è un buon modello per la realtà osservata, e si conclude con la valutazione: se va bene, bene, sennò si ricomincia il processo. L’ideologia è l’opposto: decido prima come voglio che vadano le cose, solo dopo le guardo e se scopro che non sono come le desideravo le forzo (anche eventualmente con una buona dose di violenza) ad essere come le voglio io. Mandando allegramente a farsi benedire (per usare un eufemismo) la verità dell’oggetto preso in considerazione. La Rivoluzione se ne frega della verità e dell’ordine, perché nella verità stessa di ogni cosa è compreso quale sia il suo posto in relazione a tutto il resto. Come un pessimo aiutante di scena, che manda gli attori sul palcoscenico senza seguire l’ordine dettato dal copione, ma facendoli entrare un po’ quando pare a lui. E se il copione dice altrimenti, tanto peggio per il copione.
Quindi, sovvertimento dell’ordine delle cose. Ed è un punto che abbiamo individuato in ciascuno dei diversi ambiti a cui abbiamo fatto cenno (anche qui, non dico “indagato”, perché sarebbe avere una pretesa di completezza ed esaustività che le lezioni della Scuola di Educazione Civile non hanno: sono quadri, per farsi un’idea, per provare a capirci qualcosa anche magari in ambiti di cui normalmente non ci si occuperebbe nella propria vita, per inclinazione personale o per occasione).
Quindi, sovvertimento. Ma non tutto in una volta, bensì per gradi. Ci aiuta qui l’immagine del piano inclinato, introdotta già da Giovanni Paolo II (1978-2005) nel 1984 in un discorso ai giovani, giunti a Roma per il Giubileo della Redenzione (e ripresa più recentemente da Mons. Elio Sgreccia a proposito dell’eutanasia nei confronti dei bambini di età inferiore ai 12 anni). In un piano inclinato si sa dove comincia, ma non si sa quando finisce. È un itinerario che, una volta innescato, va avanti (più o meno velocemente). L’importante è che, se non si ostacola all’inizio, si va comunque incontro al suo svolgimento, qualunque sia poi, nello specifico, la sua modalità. Perché dove va a finire, è tragicamente noto. Una pallina, posta su un piano inclinato, comincia a scendere, ed è mossa dal primo che l’ha spinta, ma la sua corsa verso il basso continuerà senza bisogno di altri interventi esterni: andrà sempre più veloce, senza neanche bisogno di qualcuno che la sospinga di nuovo. C’è bisogno, invece, di capire il problema (in generale, di capire i problemi, di avere almeno un quadro della situazione e delle situazioni). Noi siamo su un piano inclinato, siamo travolti dalla Rivoluzione, che ci spoglia via via di tutti quegli abiti che ci aiutano a proteggerci, che distrugge e fa rotolare giù anche tutte le belle cose che una società cristiana ormai finita aveva costruito. Ma siccome la Rivoluzione è un processo, lo è anche il suo opposto. Che cosa possiamo fare, noi, su questo piano inclinato? Innanzitutto lamentarci serve a poco, per non dire a niente: ce lo siamo ripetuti anche altre volte: maledire l’oscurità non cambia niente, è un’inutile spreco di tempo e di energie. Serve invece capire la logica del processo, capire il problema e i problemi che ci circondano, anzi che ci rotolano intorno.
E che cosa possiamo fare? Possiamo tentare di innescare il processo contrario, possiamo per prima cosa fermarci noi, smettere di rotolare, resistere, puntando i piedi. E poi guardarci intorno e fermare le persone che ci rotolano vicine, essendo per loro un punto saldo di riferimento, un appiglio. E formare con loro una catena, darci forza e risalire la corrente, innescando il processo contrario.
Nella pratica, Alleanza Cattolica lo fa attraverso l’azione culturale e sociale, con lo studio e la diffusione soprattutto del Magistero della Chiesa, ma con interesse a tutti gli altri ambiti dell’agire cristiano. È in questa ottica che il parlare di scienza e fede, il trattare evoluzionismo, boom demografico ed energia nucleare non deve stupire più che l’occuparsi di filosofia e politica, o di laicità e laicismo (come abbiamo fatto nella prima parte di questo anno associativo) e non è affatto in contrasto con la specificità di AC: perché sono aspetti della nostra vita, sono pedine sul piano inclinato, e vanno studiati e letti nella giusta ottica, e posizionati nel quadro corretto.
Con che spirito? Certamente, né con superbia (sono il primo che si ferma) né con rassegnazione (che cosa posso fare io che sono così piccolo). Siamo piccole pedine, è vero, ma stiamo giocando la partita più importante della nostra vita, anzi, ci stiamo giocando proprio la vera vita, quella eterna. Quindi dobbiamo usare il nostro tempo responsabilmente, e mettere davvero il nostro impegno in quello che facciamo. Perché il passo di San Paolo che dice che saremo giudicati per l’amore parla esattamente di questo: non di sentimenti o sentimentalismi, ma di impegno e volontà. Per dirla usando una immagine tratta dagli esercizi spirituali di Sant’Ignazio di Loyola (1491 ca.-1556), lo spirito deve essere quello di chi sta combattendo una guerra che sa che è già vinta. Nostro Signore ha già vinto il Mondo, la Morte e il Male, non ha bisogno di noi. Noi dobbiamo “solo” scegliere sotto che stendardo combattere, dobbiamo decidere da che parte stare, quale capo seguire. Da una parte il Signore, dall’altra il Demonio. Tutta la nostra vita (terrena e, di conseguenza, eterna) si gioca sulla scelta di campo, perché ogni volta che facciamo il bene, stiamo combattendo con Cristo e per Cristo, e ogni volta che commettiamo il peccato, ci siamo arruolati nell’esercito del diavolo.
Questo deve essere il nostro modo di scendere in battaglia, nelle nostre battaglie quotidiane, grandi o piccole che siano, piacevoli o meno, anche se ci sembrano meno consone alle nostre inclinazioni.
Dicevamo prima che viviamo in un mondo in cui ci siamo trovati: ebbene si, non l’abbiamo scelto, siamo in qualche modo capitati in questa situazione. Magari avremmo preferito combattere altre battaglie, ma ci sono capitate queste. John Ronald Reuel Tolkien (1892-1973) direbbe che «il nostro compito è di fare il possibile per la salvezza degli anni nei quali viviamo, sradicando il male dai campi che conosciamo, al fine di lasciare a coloro che verranno dopo terra sana e pulita da coltivare» (J. R. R. Tolkien, Il signore degli Anelli – Il ritorno del re, Rusconi Libri, Milano, 1993, pag. 160). La nostra battaglia è culturale, non abbiamo armi da fuoco da dover usare (per fortuna, da un certo punto di vista), non abbiamo fisicamente cavalli e stendardi. Ma se, come è vero, dobbiamo scegliere da che parte stare, in che esercito combattere e per quale insegna spendere la nostra vita, lo stendardo di Alleanza Cattolica che è alle mie spalle mi conforta nel pensare di essere sulla buona strada. Grazie.
Lucia Martinucci