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Sconcertanti affermazioni e interrogativi inquietanti sulla «religione di Bankitalia»

28 Luglio 1994 - Autore: Giovanni Cantoni

Giovanni Cantoni, Cristianità n. 230-231 (1994)

 

In margine a una polemica illuminante

Sconcertanti affermazioni e interrogativi inquietanti sulla «religione di Bankitalia»

 

Indiscrezioni sui rapporti storici e di fatto fra i Poteri della Repubblica Italiana e considerazioni di principio suggerite da difensori non officiati e non ufficiali di un servizio che sarebbe prevaricatore.

 

Talora un episodio di cronaca permette — quasi si trattasse di una fessura — di vedere, o almeno di intravedere, quanto con­sue­ta­men­­te sfugge allo sguardo, quindi all’attenzione, della comune degli uomini. E lo spettacolo in­travisto può scon­­certare, e perfino inquietare, soprattutto quando riguardi realtà di rilievo della vita politico-sociale. Mi pare si sia offerto uno di questi «colpi d’occhio» nel quadro dell’aggressione multimediale — per parlare di «dibattito» sa­rebbe necessaria la presenza di idee — di cui è og­getto il Governo guidato dall’on. Silvio Berlusconi.

1. Secondo un dispaccio diffuso in data 31 maggio 1994 dall’ANSA, l’Associazione Nazionale Stampa Associata, l’on. Maurizio Gasparri, sottosegretario al ministero degli Interni, ha rilasciato una dichiarazione in cui afferma: «Siamo molto rispettosi dell’autonomia della Banca d’Italia e consapevoli della grande competenza e saggezza del Governatore, ma è evidente la necessità di una concertazione con il Governo per quanto attiene scelte di vertice molto delicate.

«Non vorremmo che alla Banca d’Italia qualcuno pen­sasse di attuare un blitz per nominare Padoa Schioppa alla Direzione Generale. Non vorremmo che Ciampi, indicato dal Fronte Progressista come possibile suo leader di Governo, interpretasse in maniera estensiva il suo ruolo di Governatore onorario. Qualcuno infatti pensa, ma noi siamo certi che così non è, che l’area po­litica sconfitta alle elezioni intende ostacolare in ogni modo la politica economica e monetaria del Governo. Ci auguriamo che ognuno stia al suo posto e che siano ri­spettati l’autonomia della Banca d’Italia, le competenze del Governo, gli orientamenti democratici espressi dal corpo elettorale. Niente blitz, ma una seria riflessione da parte degli organi competenti».

Alla dichiarazione del sottosegretario agli Interni ha immediatamente replicato — secondo un dispaccio dell’ASCA, l’Agenzia Stampa Nazionale Quotidiana, della stessa data — l’on. Giorgio La Malfa: «Non sappiamo — ha detto il segretario del Partito Repubblicano Italiano — se l’on. Gasparri abbia affermato quel che ha sostenuto essendo consapevo­le, oppure no, delle conseguenze delle pa­role pronunciate: al tempo stesso, infatti, egli pone un veto inaccettabile e parla di autonomia della Banca d’I­talia. Quel che è cer­to è che sarebbe un colpo ter­­ribile alla credibilità del Pae­se, avere un Governo che mettesse in opera, o anche so­lo ne dimostrasse l’in­­tenzione, un assoggettamento del­­la Banca d’Italia. Sal­vo smentite da parte del Presiden­te del Consiglio, l’on. Gasparri parla come esponente del Go­verno e avan­za un veto che è destinato a produrre gra­vi riper­cus­­sioni sui mercati internazionali».

2. Dunque, un’affermazione giuridicamente ben fondata, fatta da un componente del Consiglio dei Ministri e in­tesa a ribadire la necessità, da parte della Banca d’Italia, di «una con­cer­ta­zione con il Governo per quanto attiene a scelte di ver­tice molto delicate», qual è per certo la nomina del dot­tor Tommaso Padoa Schioppa a direttore generale, pro­duce da parte di qualcuno una reazione violenta con tratti pa­­le­se­­­men­te intimidatori. Ma i termini so­no ancora, in qual­che modo, «coperti». Su di essi get­ta però un fascio di luce Mario Pirani, che il 1° giu­gno firma su la Repubbli­ca un articolo, il cui titolo già sconcerta: La religione di Ban­ki­talia (1).

«Mai come in questo momento — scrive fra l’altro il no­to giornalista — di profondo scon­vol­­gimento del potere politico è apparso con tanta evi­denza che la continuità storica dello Stato italiano resta affidata alla Banca d’I­talia assai più che al­le altre istituzioni, insidiate da trau­matiche solu­zio­­ni di continuità, percorse da ricorren­ti so­spetti, de­gradate dall’uso improprio cui sono state sot­topo­ste. La Banca d’Italia, no: la religione della mo­neta, o, meglio, della sua difesa è rimasta integra nella sua ortodossia, anche se le vulgate — a volte più espansi­ve, altre più restrittive — hanno conosciuto ac­centuazioni al­terne. Una religione al servizio di una divinità altamente simbolica — quel biglietto di ban­ca firmato dal Go­ver­­na­to­re, che personifica il po­tere d’acquisto del cittadino — ma altresì una di­vinità che, se fedelmente servita, è dispensatrice di beni, mentre, quando viene tradita, si fa im­pla­ca­bil­mente vendicativa. E più ne moltiplichi in­cau­ta­men­te l’ambita immagine, più deprezza il suo valore.

«I governatori sono i sacerdoti addetti al suo cul­to. Se non fossero pienamente indipendenti e sog­giacessero a po­teri esterni la loro qualità liturgi­ca verrebbe meno. Tut­ti i governi, in certi momenti, so­no stati ten­tati dal de­siderio di piegarli ai loro fi­ni, ma non han­no mai per­petrato fino in fondo il sa­crilegio, consci che gli si sa­rebbe ritorto contro. Da Bonaldo Stringher a Vincenzo Az­zolini, da Ei­nau­di a Menichella, da Carli a Baffi e a Ciam­­pi l’in­dipendenza della Banca è stato un bene pub­blico restato al di sopra e al di fuori delle parti. Per­­sino un regime autoritario come quello fascista lo ha sostanzialmente rispettato.

«Val la pena in proposito di ricordare una lettera che il governatore Azzolini scriveva nel 1933 al mi­nistro delle Finanze, Guido Jung, per ribadire co­me il governo di Mussolini avesse sempre “tenuto ad affermare che i compiti e le funzioni, così de­licati e speciali, spet­tanti all’Istituto di emissione esi­gono che siano separate in modo netto e preciso le sue attribuzioni e responsabilità da quelle dell’au­to­rità statale e politica. Il principio della indipenden­za della Banca centrale è stato così riconosciu­to co­me saggio e prudente”. Parole che andrebbero, co­me pensum espiatorio, lette ripe­tu­ta­men­te e man­da­­te a memoria dal giovane sottosegretario agli In­terni di Alleanza nazionale, Maurizio Gasparri, che ieri si è impancato a dettar legge circa le no­mine interne della Banca e a chie­dere in proposi­to una concertazione del governo.

«Se ricordiamo, quindi, queste premesse non è per vezzo storico ma perché ci troviamo — con l’av­vento di una classe di governo nuova, vogliosa di fare e forse stra­fare, ma non sperimentata — in uno di quegli snodi nel corso dei quali certe ten­tazioni potrebbero ripresentarsi (e che altro si­gnifica quella proposta, subito avanzata, di sotto­por­­re la nomina del governatore, oggi a tempo in­determinato, ad un limite temporale, se non far in­combere sul suo capo l’ombra della riconferma e, co­­munque, limitare la sua autorità ed arco d’azione?).

*   *   *

«Ma vi è un’altra considerazione, in qualche mo­do collegata al discorso precedente. Essa riguarda il fatto che quel valore unico di continuità e d’in­di­pen­den­za della Banca si è rivelato anche, in ta­luni momenti, un bene di estrema riserva per la Re­pubblica. Lo si è visto nel 1947, quando il governa­to­re Einaudi venne chiamato da De Gasperi al Mi­nistero per far uscire l’Italia dall’inflazione; lo si è rivisto con Ciampi, incaricato da Scalfaro di for­mare un governo che i partiti in disfacimento non erano più in grado di reg­gere. In questa stessa fi­losofia s’iscrive il positivo arrivo di Di­ni al Tesoro: l’ex di­rettore generale della Banca è, in­fatti, probabil­men­­te oggi l’unico personaggio della compagine go­vernativa fornito di una pluriennale credibilità sui mercati internazionali, capace di contro­bi­lan­cia­­re i dubbi — non solo di natura politica ma anche di sperimentata competenza — che altri suoi colleghi possono ingenerare».

3. Dunque, se le parole hanno un senso, contrariamente a quanto pensa chi è stato indottrinato sulla base della separazione dei poteri à la Montesquieu — ma vi è chi nega la piena responsabilità dello scrittore politico francese (2) —, accanto al Potere Le­gislativo, a quello Esecutivo e a quello Giudi­zia­­­rio, secondo la reazione dell’on. Giorgio La Malfa e la ricostruzione di Mario Pirani, vi è un misterioso Potere Fi­nanziario, non sub­­­ordinato, e nep­pure soltanto autono­mo, rispetto all’Esecutivo, ma che, piuttosto, se ne vuole tu­­­tore, divenuto da servo padrone. Quindi, la Re­pub­bli­ca Italiana non è più riducibile solo ad «Azienda Italia», cui almeno collaborano «capitale e lavoro», ma è iden­ti­fi­ca­bi­le con la «Banca d’Italia».

Inoltre — sempre secondo i difensori non officiati, comunque non ufficiali, dell’Istituto di emissione — il Potere Finanziario ha legami e credibi­li­tà internazionali, e chiede per sé quanto corrente­men­te viene negato agli al­tri Poteri, per esempio — en pas­sant, un buon argomento a favore dell’istituto monarchico — il carattere a tempo indeterminato della sua ma­­­gistratura maggiore. Se le co­se stanno così, almeno consue­tu­di­na­ria­­men­te, se non di diritto, mi chiedo perché — quando si ventilano riforme costituzionali — non si pensa di mutare la formulazione dell’articolo 1 dei Principi fondamentali della Costituzione, secondo cui «l’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro», in «fondata sul capitale finanziario».

4. Il tema evocato — di fatto, il rapporto fra la politica e l’eco­nomia in genere, e fra la politica e la finanza in specie —, mi induce a trascrivere una presa di posizione di Papa Giovanni Paolo II, di indubbia utilità per orientare almeno i cattolici in argomento. «La dottrina sociale cattolica — afferma il Sommo Pontefice — non è […] un surroga­to del capitalismo. In realtà, pur condannando de­ci­sa­men­­te il “socialismo”, la Chiesa, fin dalla Rerum No­varum di Leone XIII, ha sempre preso le distanze dal­l’ideologia capitalista, ritenendola responsabile di gravi ingiustizie sociali (cfr. Rerum Novarum, 2). Nella Qua­dra­ge­si­mo Anno Pio XI, per parte sua usò parole chia­re e forti per stigmatizzare l’imperialismo inter­na­­­­zio­­­na­le del denaro (Quadra­ge­si­mo Anno, 109). Linea questa confermata anche nel ma­gistero più recente, ed io stesso, dopo il fallimento storico del co­munismo, non ho esitato a sollevare seri dubbi sulla va­lidità del ca­pitalismo, se con questa espressione si in­tende non la semplice “economia di mercato”, ma “un sistema in cui la libertà nel settore dell’economia non è inquadrata in un solido contesto giuridico che la metta al servizio della li­bertà umana integrale” (C. A., 42)» (3).

Dunque, non solo si può, ma si deve sostenere l’economia di mercato, però essa va distinta con pre­cisione da un regime in cui il mercato costituisce lo «spec­chietto per le allodole», cioè la copertura della pre­varicazione dell’economia in genere, e del mondo della finanza in specie, sulla vita politica. E questa disfunzione è rivelata appunto dal mancato inquadramen­to della vita economica in un solido contesto giu­ridico, mentre l’appello a tale inquadramento viene denunciato ingiustamente e con arroganza come tentativo di assoggettamento di quanto ha titolo all’autono­mia, ma non all’indipendenza, e tanto meno — per certo — alla prevaricazione.

Giovanni Cantoni

 

Note:

(1) Cfr. Mario Pirani, La religione di Bankitalia, in la Repubblica, 1-6-1994.

(2) Cfr. Juan Bms. Vallet de Goytisolo, Montesquieu: Leyes, Gobiernos y Poderes, Civitas, Madrid 1986, pp. 357-414.

(3) Giovanni Paolo II, Discorso ai rappresentanti del mondo accademico e della cultura nell’Università di Riga, del 9-9-1993, n. 2, in L’Osservatore Romano, 11-9-1993; cfr. lo studio di Antoine de Salins e François Villeroy de Galhau, Il moderno sviluppo delle attività finanziarie alla luce delle esigenze etiche del cristianesimo, trad. it., Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1994, pubblicato dal Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace.

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