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Sconcerto per le scelte della Regione Lombardia sulla RU 486

20 Dicembre 2018 - Autore: Alleanza Cattolica

Lunedì 17 dicembre la Giunta regionale della Lombardia ha varato un provvedimento che rende possibile la somministrazione del composto abortivo RU 486 anche in regime di day hospital, e comunque senza necessità di ricovero. Una decisione analoga è stata adottata dalla Regione Umbria. Pubblichiamo – ricavandolo dal quotidiano Avvenire dell’8 dicembre – un intervento dell’on. Eugenia Roccella, che esprime le ragioni contrarie a tali decisioni regionali; è al tempo stesso condivisibile e allarmante la considerazione conclusiva dell’ex sottosegretario al Welfare secondo cui l’introduzione in Italia della ‘kill pill’ punta a superare i pur formali vincoli della legge 194/1978, nella direzione di una “privatizzazione”, e quindi di una ulteriore banalizzazione, della vicenda abortiva, senza trascurare i danni per la salute della donna derivanti dall’uso del composto chimico, sui quali vi è una casistica significativa.
Il Centro studi Livatino esprime sorpresa e preoccupazione per il fatto in sé, e per la circostanza che questa scelta politica avvenga da parte di una Regione che fino a poco tempo fa coniugava con successo un elevato livello di prestazioni sanitarie e un concreto rispetto per la vita e la persona: è sufficiente ricordare la resistenza opposta al tragico epilogo della vicenda Englaro e le numerose iniziative in tempi più recenti in favore della famiglia. Sconcerta che oggi la Lombardia abbia intrapreso un percorso opposto. 

RU486. LOMBARDIA E UMBRIA SEDOTTE DALLA BANALITÀ DELL’ABORTO

di Eugenia Roccella, pubblicato su Avvenire l’8 dicembre 2018.

La famigerata Ru486, la pillola che prometteva un aborto ‘facile e indolore’, sta tornando in auge. In Lombardia lunedì la Giunta regionale (di centrodestra) voterà per poterla assumere senza obbligo di ricovero, mentre in Umbria (Giunta di centrosinistra) è stata già approvata una delibera che non solo ammette l’opzione day hospital, ma chiede che in ogni sede in cui si pratica l’Ivg chirurgica si offra anche quella farmacologica. Una forte pressione per incrementare le percentuali di utilizzo della Ru486, che finora, nel nostro Paese, è diffusa solo marginalmente.

Con queste decisioni la politica entra a gamba tesa in un campo che non le appartiene, quello dell’appropriatezza medica. A stabilire se sia più sicuro ricoverare una paziente o trattarla in day hospital non dovrebbe essere una Giunta regionale, ma un’autorità scientifica. E così è stato fino a ieri per la pillola abortiva: il Consiglio Superiore di Sanità – il più autorevole organismo consultivo nel campo della medicina – ha dato per ben tre volte un parere nettamente contrario al cosiddetto ‘aborto a domicilio’, imponendo, per la sicurezza della donna, il ricovero in ospedale fino all’espulsione dell’embrione.

La Giunta lombarda ha convocato un tavolo tecnico che ha espresso parere diverso da quelli del Css. Chiediamo però di saperne di più: alla luce di quali dati si è deciso di ignorare la valutazione del Consiglio Superiore di Sanità? Di quale letteratura scientifica, di quali novità rispetto al 2010, data dell’ultimo parere del Css? La nuova valutazione è stata resa pubblica, c’è stato un ampio confronto scientifico sul problema? Come sono stati considerati i casi di morte, come si è fatto il confronto tra il tasso di mortalità dell’aborto chimico e di quello chirurgico? Ricordiamo che secondo la più autorevole rivista scientifica di settore, il New England Journal of Medicine, la mortalità del primo metodo era 10 volte superiore a quella del secondo.

Fu proprio una morte ad aprire, in America, il caso Ru486. Nel settembre 2003 Holly, una bella ragazza appena diciottenne, muore dopo un aborto farmacologico. I genitori iniziano una lunga battaglia per chiarire la relazione tra la Ru486 e la tragedia che ha colpito la figlia. È grazie alla solitaria ostinazione dei Patterson che, poco a poco, vengono a galla altri casi, altre morti. Farle emergere è difficile, perché c’è un clima di sottovalutazione e di censura. Con molta fatica, spulciando dati e informazioni semiclandestine, nel 2010 si era arrivati a contare 31 decessi legati ai due farmaci utilizzati per l’aborto chimico (mifepristone e misoprostol). Perché l’aborto ‘facile’, tanto facile non è. La procedura è lunga (circa 15 giorni), dolorosa (crampi e nausee sono di routine), e richiede almeno 3 visite in ospedale.

La tanto sbandierata facilità riguarda solo l’organizzazione sanitaria: si liberano le camere operatorie, e i medici devono solo fornire le pillole. Tocca poi alla donna gestire la situazione, capire se ci sono complicazioni o eventi avversi, se è necessario correre in ospedale o no, e soprattutto è lei che deve verificare se l’embrione è stato espulso. Questo comporta che nella grande maggioranza dei casi la donna riconosce l’embrione abortito, con le ovvie conseguenze psicologiche. L’aborto dunque non è reso meno traumatico, ma è culturalmente banalizzato, visto che apparentemente basta una pillola. Pillole anticoncezionali, pillole del giorno dopo, pillole abortive: il senso dell’interruzione di gravidanza si perde, e la società, la politica, il sistema sanitario possono finalmente liberarsi dal problema, e scaricarlo tutto sulle spalle delle donne.

L’introduzione in Italia di quella che è stata definita ‘kill pill’ aveva anche un altro scopo, quello di allargare i confini della 194, superando, per via tecnica e non politica, i paletti imposti dalla legge, dalla settimana di riflessione al divieto di praticare l’Ivg fuori dalle strutture pubbliche. L’idea era di costringere in seguito il Parlamento a prendere atto della situazione di fatto, e adeguare la legge alle nuove pratiche. È quello che già è avvenuto in Francia: una volta che la Ru si è largamente diffusa, la legge sull’aborto è stata cambiata. Se è questo che i politici vogliono, almeno lo dicano chiaramente.

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