FERDINANDO LEOTTA, Cristianità n. 239 (1995)
Occasionato da una disposizione contenuta nella legge di accompagnamento alla finanziaria per l’anno 1993, nel 1994 si è sviluppato un vivace dibattito su diversi temi scolastici, e in particolare sulla parità fra scuola statale e non. Fra i mezzi per il conseguimento della parità sono stati indicati il finanziamento pubblico della funzione docente, il buono scuola e la detraibilità fiscale delle rette scolastiche. Nell’attuale congiuntura politica e finanziaria una ricerca realistica della soluzione efficace suggerisce il temporaneo accantonamento di richieste di contributi economici diretti e dello stesso buono scuola, mentre indica — mostrando infondate le critiche a essa mosse — la detraibilità fiscale come l’intervento ora più praticabile, anche nella prospettiva di una graduale inversione di tendenza.
1. Un accenno ai princìpi
“I genitori, poiché hanno trasmesso la vita ai figli, hanno l’obbligo gravissimo di educare la prole: vanno pertanto considerati come i primi e i principali educatori di essa. Questa loro funzione educativa è tanto importante che, se manca, può a stento essere supplita. […] La famiglia è dunque la prima scuola delle virtù sociali, di cui appunto hanno bisogno tutte le società. […]
“Il compito educativo, come spetta primariamente alla famiglia, così richiede l’aiuto di tutta la società. Perciò oltre i diritti dei genitori e di quelli a cui essi affidano una parte del loro compito educativo, ci sono determinati diritti e doveri che spettano alla società civile, poiché questa deve disporre quanto è necessario al bene comune temporale. Rientra appunto nelle sue funzioni favorire in diversi modi l’educazione della gioventù: cioè difendere i doveri e i diritti dei genitori e degli altri che svolgono attività educativa e dar loro il suo aiuto; in base al principio di sussidiarietà, là dove manchi l’iniziativa dei genitori e delle altre società, svolgere l’opera educativa, rispettando — s’intende — i desideri dei genitori; fondare inoltre, nella misura in cui lo richieda il bene comune, scuole e istituti propri. […]
“I genitori, avendo il dovere e il diritto primario e irrinunciabile di educare i figli, debbono godere di una reale libertà nella scelta della scuola. Perciò i pubblici poteri, a cui incombe la tutela e la difesa della libertà dei cittadini, nel rispetto della giustizia distributiva devono preoccuparsi che le sovvenzioni pubbliche siano erogate in maniera che i genitori possano scegliere le scuole per i propri figli in piena libertà, secondo la loro coscienza” (1).
Dal canto suo, la Costituzione della Repubblica Italiana, all’articolo 29, riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio e detta prioritariamente il dovere e il diritto dei genitori a mantenere, istruire ed educare i figli, prevedendo sussidiariamente, all’articolo 30, che, in caso di incapacità dei genitori, la legge provveda a che siano assolti i loro compiti. Inoltre, all’articolo 33, la stessa legge fondamentale riconosce anche il diritto di enti e di privati a istituire scuole e istituti di educazione, e — all’articolo 34 — afferma che i capaci e i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi e connette l’esercizio effettivo del diritto all’istruzione al conferimento di borse di studio, di assegni alle famiglie e di altre provvidenze da attribuirsi per concorso.
Nonostante questa analogia di princìpi relativamente al sistema dell’educazione e dell’istruzione, nella realtà dei fatti, però, il sistema dell’istruzione vigente nella Repubblica Italiana esprime un sostanziale statalismo, antitetico a tali princìpi. La gratuità dell’istruzione obbligatoria è riservata a chi frequenta le scuole statali, mentre l’istruzione secondaria non obbligatoria, stante l’insignificanza delle tasse scolastiche, è effettivamente onerosa solo nelle scuole non statali. Un simile regime realizza in pratica un monopolio culturale e pedagogico dello Stato e — impedendo ai meno abbienti l’effettivo esercizio del diritto e il personale adempimento del dovere di educare i figli — configura un’evidente ingiustizia e una sostanziale incostituzionalità
2. … e gli antefatti
Non sempre queste premesse teoriche sono state tenute presenti nel dibattito, non privo di punte polemiche, che si è svolto nel corso del 1994 relativamente ai rapporti fra scuola statale e non. Tale dibattito è stato occasionato, nel 1993, dalla proposta — che trovò accoglienza nell’articolo 4 della legge n. 537, del 24 dicembre 1993, di accompagnamento alla finanziaria di tale anno — di attribuire alle scuole pubbliche di ogni ordine e grado personalità giuridica e autonomia finanziaria. Si tratta di un’innovazione positiva, che, se correttamente attuata, potrà contribuire, attraverso la responsabilizzazione anche patrimoniale delle strutture pubbliche e grazie a un rapporto sanamente concorrenziale fra esse e con il sistema scolastico non statale, al ricupero dell’efficienza e dell’eccellenza perdute dalla scuola italiana. Una simile prospettiva, però, ha provocato subitanee paure in quei settori del mondo politico, della burocrazia scolastica e del movimento studentesco, che hanno intravisto in questa riforma un attacco alle “conquiste del ’68” e così, venticinque anni dopo, jurassic school ha rinverdito slogan familiari ai quarantenni di oggi.
Le proposte — prese in considerazione anche dal Governo Berlusconi — relative a rimedi per attenuare la disparità di trattamento subita dalla scuola non statale e per rendere effettivo l’esercizio del diritto/dovere di educare e di istruire, sono state interpretate, negli ambienti di cui sopra e anche in alcuni di area cattolica, come ulteriori attacchi alla scuola statale e al sistema pubblico dell’istruzione, e hanno provocato violente reazioni. Inoltre, la carenza di corrette informazioni ha talvolta impedito agli stessi gestori e utenti della scuola non statale di formulare ipotesi di soluzioni concrete, non polemiche ed equilibrate, finalizzate all’attuazione di un sistema pubblico di istruzione al quale possano concorrere, su un piano di parità, scuole statali e non, come espressamente previsto dall’articolo 33 della Costituzione della Repubblica Italiana.
Per la piena realizzazione di tale obiettivo sono essenziali il riconoscimento della scuola non statale paritaria e la conseguente partecipazione a pieno titolo di questa al sistema pubblico dell’istruzione. In tale prospettiva andranno affrontati problemi diversi, come quello della regolamentazione normativa ed economica del personale dipendente, e quello della portata e del ruolo degli organismi collegiali aperti alla partecipazione di tutte le componenti della scuola. Sia il fine della parità di trattamento del personale, docente e non, della scuola non statale rispetto a quello della scuola di Stato, che quello della partecipazione, in sé buoni, non dovranno compromettere la libertà della scuola non statale, che si concretizza nell’autonomia gestionale per la coerente realizzazione del progetto educativo.
3. Gli strumenti per un “trattamento scolastico equipollente” “senza oneri per lo Stato”
Intendendo procedere nella direzione della parità, vanno concretamente studiati strumenti di sostegno economico, diretto o indiretto, sia a favore degli istituti scolastici non statali che delle famiglie. Simili provvidenze sono indispensabili per realizzare, finalmente, quel “trattamento scolastico equipollente a quello degli alunni di scuole statali”, riconosciuto nel quarto comma del citato articolo 33 della Costituzione, che perfeziona non solo il diritto di enti e di privati di istituire scuole e istituti di educazione, ma soprattutto il diritto/dovere dei genitori all’istruzione e all’educazione dei figli, previsti rispettivamente dal terzo comma dello stesso articolo 33 e dal primo comma dell’articolo 30.
Fra le ipotesi di finanziamento della scuola non statale, e fra le modalità con cui attuarlo, sono stati indicati, da parte di alcuni gestori di scuole non statali e da politici di area cattolica, il finanziamento della funzione docente direttamente da parte dello Stato, e il buono scuola, mentre non è stata considerata la detraibilità fiscale delle rette scolastiche. L’esclusione deriverebbe da un pregiudizio negativo sul meccanismo della detassazione, sotto qualsiasi forma proposto, perché — è stato detto — impone un esborso previo, è discriminante nei confronti delle fasce sociali più deboli e, comunque, è insufficiente a garantire una piena libertà di scelta educativa.
La considerazione riservata ai primi due strumenti e l’esclusione del terzo non può essere condivisa per diversi motivi.
Anzitutto per un motivo di carattere giuridico-costituzionalistico, che si fonda sulla constatazione del palese contrasto fra la pretesa di assicurare alla scuola non statale un contributo ordinario dello Stato, e il terzo comma dell’articolo 33 della Costituzione, nella parte in cui esclude, con la locuzione “senza oneri per lo Stato”, che al diritto dei privati di istituire scuole possa corrispondere un obbligo dello Stato a finanziarle.
L’irrealismo della pretesa risulta particolarmente evidente se si considera che la citata disposizione, secondo l’interpretazione prevalente — sostenuta anche da noti costituzionalisti (2) — imporrebbe allo Stato un vero divieto costituzionale a sostenere oneri a favore di scuole istituite da enti o da privati, anche se non si deve tacere che tale interpretazione, derivante da un pregiudizio discriminatorio di matrice ottocentesca, è fuorviante e va contrastata, andando essa ben oltre le intenzioni dello stesso Epicarmo Corbino, che propose, in sede di Assemblea Costituente, l’emendamento espresso nella citata locuzione (3).
Stando così le cose, non si può non constatare la velleitarietà di una posizione che, esclusi rimedi minori, giudicati parziali e insufficienti, pretende di passare dal divieto del finanziamento pubblico all’obbligo, per lo Stato, di erogare contributi alle scuole non statali. Non si vede su quali basi si possa fondare la speranza di ottenere, ora, un simile cambiamento, se non ipotizzando l’assunzione di costi assolutamente inaccettabili in termini di compromesso politico e/o di controllo statalistico sulla scuola paritaria nascitura.
4. La ragioni della detraibilità fiscale nell’attuale congiuntura politica e finanziaria
Una volta chiarito che lo Stato può, anche se non deve, finanziare l’istituzione di scuole non statali, occorre considerare l’opportunità politica di richieste in questo senso a causa delle condizioni della finanza e dell’economia nazionali, che, anche per effetto di decennali decisioni di spesa irresponsabili e clientelari, presenta un disavanzo capitalizzato prossimo, se non superiore, ai due milioni di miliardi di lire. Questa sensibilità paziente non impedirà tuttavia di far notare che il finanziamento pubblico della scuola non statale si tradurrà, sicuramente, nel medio periodo, in un beneficio per la stessa finanza pubblica, senza nuocere all’occupazione nel comparto scolastico.
Considerazioni differenti, anche se nella sostanza analoghe, si possono formulare a proposito del cosiddetto buono scuola, che andrebbe comunque assegnato, in un contesto davvero pluralistico e rispettoso dei commi terzo e quarto dell’articolo 34 della Costituzione, alle famiglie, con facoltà per queste di utilizzarlo presso l’istituto, statale o meno, di preferenza, favorendo così anche la realizzazione dell’autonomia prevista dal citato articolo 4 della legge n. 537, del 24 dicembre 1993.
In una concreta prospettiva di semplificazione e di privatizzazione, il buono scuola — che ha la funzione di garantire l’effettiva gratuità della scuola dell’obbligo, in esecuzione del secondo comma dell’articolo 34 della Costituzione, e la possibilità per “i capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi,[…] di raggiungere i gradi più alti degli studi”, a norma del comma III dello stesso articolo — potrebbe funzionare anche, per esempio, attraverso un meccanismo di credito d’imposta, di ammontare pari al costo sostenuto per le rette scolastiche.
Sussidiariamente a questo opererebbe comunque un meccanismo solidaristico, consistente nell’attribuzione di un assegno alle famiglie, che non fossero in grado di anticipare i costi scolastici.
Nel descritto contesto non si possono condividere le motivazioni che porterebbero a escludere la detraibilità fiscale delle rette scolastiche. Come ho accennato, questo tipo di provvidenza è stato criticato perché:
— imporrebbe un esborso previo,
— sarebbe discriminante nei confronti delle fasce sociali più deboli,
— sarebbe comunque insufficiente a garantire una piena libertà di scelta educativa,
— inoltre perché sarebbe aleatorio.
La detraibilità si potrebbe realizzare con la semplice modifica della lettera e) dell’articolo 13 bis, Detrazioni per oneri, del Testo Unico delle imposte sul reddito, D.P.R. 22 dicembre 1986 n. 917. Tale disposizione contempla “le spese per frequenza di corsi di istruzione secondaria e universitaria, in misura non superiore a quella stabilita per le tasse e i contributi degli istituti statali”. La citata locuzione potrebbe essere sostituita con la seguente: “le spese per frequenza di corsi di istruzione primaria, secondaria e universitaria”.
Per effetto della modifica sarebbe detraibile dall’imposta sul reddito delle persone fisiche lorda un importo pari al 27% dell’onere sostenuto, a norma del primo comma dell’articolo 13 bis, salvo riduzioni percentuali per effetto di manovre economiche in itinere.
Questa percentuale è fissa; pertanto, essa non favorisce maggiormente i titolari di redditi più elevati, ma tutti in uguale misura.
Per completezza di informazione si può ancora ricordare che tale meccanismo attualmente si applica, sempre in limiti e a condizioni predeterminate, per importi pagati a titolo di interessi passivi dipendenti da prestiti agrari e da mutui fondiari garantiti da ipoteca; per spese chirurgiche e specialistiche; per l’acquisto di mezzi necessari alla deambulazione, comprese automobili fino a 2.000 c.c. o 2.500 c.c. se con motore diesel, adattate a invalidi; per spese funebri; per premi di assicurazione vita e infortuni, nonché per erogazioni liberali, fra cui quelle a enti di varia natura che svolgano senza scopo di lucro attività nello spettacolo, come recita la lettera i) dello stesso articolo 13 bis. Non configurerebbe dunque una forzatura l’inserimento in questa disciplina delle rette scolastiche.
5. Un rimedio solo per ricchi oppure atto che inverte la tendenza?
Qualcuno potrebbe ancora obiettare che, a fruire effettivamente del risparmio di imposta, sarebbero comunque solo i ricchi, a causa dei tempi di attesa che caratterizzano i rimborsi d’imposta. Si deve rispondere che, con l’introduzione del modello 730, il lavoratore dipendente che risulti titolare, anche per effetto delle detrazioni per oneri di un credito d’imposta, grazie alle operazioni di conguaglio, che il suo datore di lavoro dovrà effettuare nel mese di giugno dell’anno successivo a quello della percezione del reddito, si vedrà restituito, con lo stipendio dello stesso mese, il credito in questione.
Le altre obiezioni appaiono, francamente, poco consistenti. Il fatto che il rimedio, rappresentato dalla detraibilità, sia parziale e aleatorio non rappresenta, in un contesto di totale esclusione di sussidi per la scuola non statale — come quello presente —, un elemento di giudizio negativo, anche perché la detraibilità è un meccanismo che non esclude altre provvidenze più complete e sicure e maggiormente attuative della parità scolastica. La detraibilità è solo un primo passo verso la parità, rappresenta un’inversione di tendenza rispetto all’attuale regime ed è rispettosa delle difficoltà del tempo presente, in cui non sembra opportuno, come ho detto, avanzare richieste pienamente soddisfacenti, che potrebbero suonare scandalose socialmente e aumentare la conflittualità sociale e la polemica politica.
A ulteriore prova dell’inconsistenza delle citate obiezioni si può infine ricordare che la deducibilità fiscale è stata considerata fra gli strumenti di finanziamento della scuola statale. Nella proposta di legge n. 1503, del 21 ottobre 1994, sul riordino dell’istruzione secondaria superiore e sul prolungamento dell’obbligo scolastico, di iniziativa dei deputati Rosa Jervolino Russo, Alberto Monticone e Giovanni Zen, al comma 15 dell’articolo 3, si prevede che “le donazioni in favore di istituti di istruzione secondaria superiore sono deducibili dal reddito complessivo del contribuente per un ammontare non superiore a lire due milioni, ovvero, ai fini del reddito di impresa, nella misura del 50 per cento della somma erogata entro il limite del 2 per cento degli utili dichiarati e fino ad un massimo di lire cento milioni” (4).
In questo caso non solo la detraibilità nella misura fissa del 27%, ma anche la stessa deducibilità dal reddito complessivo — quella appunto che privilegerebbe i più ricchi consentendo loro un maggiore risparmio d’imposta — è stata ritenuta degna di considerazione.
Le obiezioni contro la detraibilità si mostrano destituite di fondamento e irrealistiche, e non considerano che tale provvidenza è anche doverosamente difendibile sotto il profilo della giustizia fiscale.
Infine si deve ricordare, contrastando le tentazioni di contrapposizione dialettica, che tutte le proposte esaminate possono, adeguatamente studiate, concorrere al conseguimento dell’obiettivo della parità scolastica in una prospettiva di gradualità progressiva, che tenga realisticamente conto del contesto politico, giuridico e sociale in cui siamo chiamati a operare.
Ferdinando Leotta
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(1) Concilio Ecumenico Vaticano II, Dichiarazione sull’educazione cristiana Gravissimum educationis, del 28-10-1965, nn. 3 e 6.
(2) Cfr., fra gli altri, Gustavo Zagrebelsky, Questa Repubblica. Corso di educazione civica, Le Monnier, Firenze 1991, pp. 194-197).
(3) Cfr. AA. VV., Rapporti etico-sociali, in Giuseppe Branca (a cura di), Commentario della Costituzione. Art. 29-34, Zanichelli, Bologna e Foro Italiano, Roma 1982, p. 246.
(4) Atti Parlamentari. Camera dei Deputati. XII Legislatura. Disegni di legge e relazioni. Documenti, n. 1503, p. 9; la sottolineatura è mia.