Riportiamo da REPUBBLICA di oggi, 04/08/2021, a pag. 25, l’articolo di Timothy Garton Ash dal titolo “Se l’Ovest dipende dall’Est”.
Timothy Garton Ash
In un video su YouTube il ceo della Volkswagen, Herbert Diess, nega di essere a conoscenza di ciò che accade nello Xinjiang, in particolare, come precisa il corrispondente della Bbc, nei cosiddetti “campi di rieducazione” per un milione di uiguri. «Non ne sono al corrente», dice. I casi sono due: o non conosceva la regione in cui ha sede una fabbrica Vw, lacuna imperdonabile, o stava mentendo. Era il 2019 e un portavoce della casa automobilistica si affrettò a dichiarare che Diess era «ovviamente al corrente» della situazione nello Xinjiang. Il caso è spinoso perché la Volkswagen venne creata dai nazisti e ricorse al lavoro forzato, come è stato documentato dagli storici tedeschi.
Herbert Diess
È interessante paragonare la risposta di Diess alla dichiarazione resa quest’anno dalla presidentessa del Comitato dei deputati degli ebrei britannici in occasione del Giorno della Memoria. «La nostra comunità è sempre estremamente riluttante ad accettare paragoni con l’Olocausto», ha scritto Marie van der Zyl in una lettera al primo ministro. Però, ha aggiunto, esistono analogie tra le cronache che arrivano dalla Cina e ciò che accadde nella Germania nazista negli anni ’30 e ’40 del Novecento. «Le violazioni dei diritti umani degli uiguri si stanno configurando come la peggiore atrocità della nostra epoca». La Volkswagen ha anche un altro peso, come esempio di impresa occidentale ormai dipendente dal mercato cinese al punto da non poterne fare a meno. La Cina assorbe oltre il 40% delle vendite globali di auto della casa tedesca. Indipendentemente dai calcoli che hanno portato Vw ad aprire l’impianto dello Xinjiang nel 2013, chiuderlo adesso avrebbe un impatto negativo sui rapporti generali con il regime cinese, da cui dipende l’attività della casa automobilistica nel Paese. Vw è presa tra l’incudine di Xi Jinping e il martello dell’indignazione dell’opinione pubblica occidentale. Ne potrebbe risultare un incidente d’auto morale. Dietro questa grande impresa occidentale dipendente dalla Cina c’è un grande Paese occidentale che rischia di diventarlo. Sotto la cancelliera Angela Merkel, la Cina è diventata il maggior partner commerciale della Germania. Il probabile successore di Merkel, Laschet, candidato Cdu, è a capo di uno Stato federale, il Nordreno-Vestfalia, legato da interessi economici a Pechino. Container arrivano a Duisburg, il capolinea occidentale della Belt and Road Initiative, la nuova via della Seta. Nonostante le pressioni esercitate su Berlino dall’amministrazione Biden, le dichiarazioni di Laschet fanno pensare a una politica tedesca morbida nei confronti della Cina, in cui il business ha la precedenza. Se non cambierà la politica tedesca non si avrà una politica europea organica verso il gigante asiatico. Parliamoci chiaro: non è solo questione della Germania. Anche Coca-Cola ha una fabbrica nello Xinjiang. Le società di Wall Street si riversano sui mercati cinesi. Nella vecchia Guerra fredda, l’Occidente non è mai dipeso economicamente dall’Oriente (inteso allora come blocco sovietico). Invece negli ultimi anni del conflitto Est-Ovest, parecchi Stati est europei hanno contratto un pesante debito con l’Occidente, che ne ha accelerato il tracollo. In questa nuova Guerra fredda — o Pace calda, se preferite — l’Occidente dipende già sotto il profilo economico dall’Oriente (inteso oggi come Cina). Negli anni 2000 era ancora possibile credere nel Wandel durch Handel, il cambiamento attraverso il commercio.
Ma le parole del ministro dell’Economia tedesco Altmaier, che ha dichiarato «sono convinto che si possa ottenere il cambiamento grazie al commercio», avevano il sapore stantio dell’ideologia di un’epoca superata. Nell’ultimo decennio la Cina ha incrementato il commercio, la repressione interna, e ha acquisito più influenza sull’Occidente. Quindi, in che direzione è andato il cambiamento? Bisogna che le democrazie occidentali evitino la dipendenza strategica dalla Cina. Ne abbiamo avuto un assaggio nei primi mesi della pandemia da Covid, scoprendo che gran parte dei nostri dispositivi di protezione personale era di provenienza cinese. L’eventuale predominio di Huawei sulle nostre reti 5G equivarrebbe a una vulnerabilità strategica. Le nostre imprese devono quindi accettare il primato assoluto della politica in una democrazia. Nella Ostpolitik degli anni ’70 e ’80 il commercio e gli investimenti nel blocco sovietico erano al servizio degli obiettivi di politica estera della Germania. Nella recente politica tedesca verso la Cina invece gli interessi commerciali prevalgono su quelli politici. Come investitori e consumatori, nei criteri di valutazione della sostenibilità delle imprese (Esg) dovremmo essere più sensibili alle violazioni dei diritti umani. Il Parlamento tedesco ha approvato una ammirevole legge sulle catene di approvvigionamento che impone alle imprese tedesche di controllare gli standard di rispetto dei diritti umani nei luoghi di produzione. Sarà affascinante vedere la reazione di Vw.
Il ceo del Gruppo Volkswagen Cina, Stephan Wöllenstein, ha dichiarato di essere a conoscenza delle «denunce» sullo Xinjiang (un bel passo avanti!) ma che nella loro fabbrica o nelle catene di approvvigionamento locali non si ricorre al lavoro forzato. Diess lo ha ribadito in un’intervista: «Né noi né i nostri fornitori impieghiamo lavoratori forzati». Si dà il caso che io abbia una Volkswagen. È un’ottima auto, ma la cambierò per motivi ecologici con una elettrica ed esistono buone alternative. Sono realista. Non mi aspetto che il capo di Vw si esprima da paladino dei diritti umani. In patria, in Europa, l’occupazione, la prosperità, la sostenibilità del nostro modello sociale dipendono dagli introiti che arrivano dall’estero. Ma la prossima volta che faranno domande a un dirigente Vw sui campi di concentramento cinesi l’interessato potrebbe almeno dire: «Da cittadino mi preoccupa ricevere notizie di violazioni dei diritti umani nei luoghi in cui la nostra impresa è attiva. Soprattutto pensando alla storia della Volkswagen, è nostro dovere garantire che da noi non ci siano violazioni dei diritti umani». E poi un gruppo di giornalisti esperti dovrebbe andare in visita, su invito dell’azienda, alla fabbrica Vw dello Xinjiang, parlare con i dipendenti e controllare nel dettaglio. È il minimo che storia e coscienza richiedono.
(Traduzione di Emilia Benghi)
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