Di Daniele Raineri da Il Foglio del 31/03/2022
Mykolaïv, dal nostro inviato. Quello che succede nel sud dell’Ucraina in queste ore illustra bene quanto poco c’è da fidarsi dei negoziatori russi che parlano su mandato di Vladimir Putin per raggiungere un cessate il fuoco (è una questione retorica, è scontato che non c’è da fidarsi: i russi hanno parlato per mesi di “esercitazioni” mentre ammassavano truppe per l’invasione). Una colonna di corazzati russi combatte con furia a nord-ovest della città di Kherson, prima città occupata dai russi, per spostare il fronte il più possibile verso nord. Lo fanno perché vogliono raggiungere posizioni più vantaggiose per loro prima che arrivi il cessate il fuoco e – come talvolta capita nei conflitti – i giorni precedenti alla tregua sono molto violenti. Perché vogliono spostare il fronte verso nord? Perché se lo spostano verso nord gli ucraini non possono tenere sotto tiro con la loro artiglieria la città di Kherson e il ponte che la collega alla Crimea. E più lo spostano verso nord e più sono loro, i russi, a minacciare con i loro cannoni la città ucraina di Mykolaïv. Si capisce che queste giornate sono dedicate a disegnare la linea di partenza del prossimo round di guerra e che nessuna delle due parti crede davvero a una soluzione negoziata di lungo termine. E così ieri il governatore della regione, Vitaly Kim, che qui ha la fama di una rockstar per l’atteggiamento costante di sfida contro i russi, in una conferenza stampa con la solita tuta verde oliva dei politici ucraini diceva: “A dispetto dei negoziati di Istanbul, i soldati russi sono molto attivi nel sud e marciano verso la città”. A un certo punto si è imbrogliato e ha detto che la situazione si risolverà “soltanto sul campo di battaglia” e i giornalisti gli hanno chiesto: “Quindi il presidente Zelensky sbaglia a negoziare?”. Ha risposto di no, che non sbaglia, ma pensa che l’unico modo per far retrocedere i soldati russi sia lo scontro militare. Kim a dispetto dell’allegria di guerra ostentata e del favore popolare ha buone ragioni per pensare male. Due giorni fa alle sette e mezza di mattina un missile russo sparato dal mare ha colpito l’edificio dell’Amministrazione regionale dove lavora lui, ha lasciato un buco enorme nella facciata e ha ucciso dodici persone. Kim non era in ufficio perché, come ha detto con il solito registro spavaldo, “questa mattina ho dormito troppo”. Fonti militari locali spiegano al Foglio che i luoghi che fino a due giorni fa erano visitabili senza preoccupazioni perché il fronte era più o meno stabile adesso sono diventati irraggiungibili a causa dei combattimenti – i civili non possono uscire perché sono rimasti intrappolati e i posti di blocco in ingresso da nord non fanno più passare se non i mezzi militari. Il rumore dell’artiglieria riempie l’aria a tratti, come non si sentiva da almeno due settimane. I russi si sono rassegnati a togliere l’assedio alla capitale Kyiv perché le loro colonne di corazzati sono state respinte e adesso sostengono che lo fanno per dimostrare buona volontà nei negoziati (ci sarebbe da ridere, se l’aggressione non avesse ucciso decine di migliaia di persone). Ma nel sud manovrano per portarsi in posizione. La caduta imminente di Mariupol permette ai mezzi delle forze putiniste (che come si sa includono anche un assortimento di ceceni e milizie separatiste oltre all’esercito regolare) di partire dalla Russia, entrare nel Donbas, attraversare la Crimea e spuntare poco a sud della Mykolaïv del governatore Kim. E’ quello che succede sul terreno a dettare i negoziati e non il contrario.