Sì alla Famiglia, Cristianità n. 377 (2015)
Il Comitato Sì alla famiglia è un cartello di associazioni e di movimenti costituito in Italia nell’autunno 2013 attorno alla condivisione del Manifesto Sì alla famiglia; l’adesione avviene su base territoriale. L’attività del Comitato è anzitutto quella della formazione e dell’informazione sui temi della famiglia, attraverso conferenze, convegni, seminari e il sito web <www.siallafamiglia.it>. Il sito contiene una sezione giuridica — Sì Jus — che in tempo reale aggiorna sul tema della famiglia e delle pronunce o decisioni che la riguardano, e quindi nel dettaglio sui lavori del parlamento europeo e di quello nazionale, sulle novità giurisprudenziali, sull’azione del governo nazionale, dei governi regionali, dei sindaci. Sì alla famiglia ha allestito sul piano nazionale una rete di avvocati tesa a fornire consulenza e assistenza a chi, nella scuola o nei luoghi di lavoro, vive momenti di disagio e di tensione a seguito dell’imposizione dell’ideologia del gender, o sia investito da iniziative similari. Svolge periodiche riunioni di orientamento con deputati, senatori e parlamentari europei, e ha promosso la costituzione di un centro studi giuridici, dedicato all’approfondimento di queste tematiche.
Nelle risposte alle Domande per la recezione e l’approfondimento della Relatio Synodi, il cono di attenzione tiene conto della realtà italiana, se pure non in modo esclusivo. Si prova a dare risposta a pochi mirati quesiti, senza seguire con precisione l’ordine numerico e letterale degli stessi, a vantaggio di uno sviluppo logico che farà riferimento, quando necessario, alle singole voci.
Il Comitato Sì alla famiglia è profondamente grato al Santo Padre e ai Padri Sinodali per lo slancio evangelizzatore e pastorale sulla famiglia che certamente deriverà dal Sinodo.
Circa la domanda previa riferita a tutte le sezioni della Relatio Synodi: quali parti mancanti si possono integrare?
La realtà della famiglia è descritta nella Relatio Synodi nel modo più organico e articolato. Al quesito riguardante gli aspetti da integrare, e fatte salve le osservazioni che saranno formulate in relazione a voci specifiche, si richiama l’attenzione sul tema «famiglia e migranti», cioè sulla vita e sui problemi drammatici delle famiglie dei migranti. Uno dei profili più significativi della tragedia epocale delle centinaia di migliaia di persone che fuggono oggi dalle persecuzioni o dai contesti di guerra è infatti quello costituito dalle famiglie:
— che si ritrovano dimezzate o diminuite nel numero dei propri componenti a seguito delle morti per le atrocità delle guerre e/o per le difficoltà, talora insormontabili, dei lunghi e tormentati percorsi di fuga;
— che si dividono, senza speranza di ricomporsi, anche se vorrebbero continuare a stare insieme: una parte resta nel luogo di origine e un’altra parte tenta la fuga;
— che si dividono per l’impossibilità di continuare a stare insieme, dal momento che la violenza e la persecuzione si trovano all’interno della famiglia di origine, con l’imposizione di un matrimonio non voluto o di pratiche religiose o pseudo-tradizionali contrarie ai livelli più elementari di dignità umana;
— che, pur quando riescono a raggiungere terre più tranquille, comunque si ritrovano prive di beni materiali, spesso con bambini appena nati.
La condizione di queste famiglie merita una riflessione di per sé, che muova da un presupposto: in Europa e in Occidente, con differenze che variano da Paese a Paese, i migranti trovano una situazione materiale migliore rispetto a quella che hanno lasciato; ma non si può immaginare che il necessario impegno per non far mancare il cibo e l’alloggio esaurisca le necessità. Fra le necessità la principale è quella di ricomporre — per quel che si può — il nucleo familiare, favorendo, se possibile, il ricongiungimento con chi è rimasto nel luogo di origine, o comunque facendo in modo che i componenti di una stessa famiglia, arrivati in salvo, vivano nel medesimo luogo. Le varie realtà ecclesiali, se ancora sopravvivono nei luoghi nei quali si combatte e dai quali si fugge, possono contribuire a tener vivi questi legami e a riunirli; le realtà ecclesiali presenti in Occidente possono contribuire a far ritrovare gruppi familiari dispersi. Non va però trascurata l’esigenza di affiancare e di sostenere moralmente e spiritualmente chi ha vissuto e vive ancora un’esperienza così dilaniante e carica di sofferenza. Compete anzitutto ai cristiani farsi carico di questa situazione. Se la provenienza del migrante è da aree cristiane, il terreno sarà in qualche modo già predisposto; se è da altre aree, pur senza imporre nulla, la proposta della speranza fondata in Cristo farà guardare al futuro con un tratto diverso e positivo.
Affiancamento e sostegno morale e spirituale sono tanto più necessari nel momento in cui le famiglie dei migranti, o quel che resta di esse, s’imbattono in leggi e in costumi antitetici rispetto a quelli seguiti in patria; la testimonianza e la cura dei cristiani che accolgono possono vincere le diffidenze di coloro che lasciano una persecuzione cruenta e materiale per ritrovarsi in un ambiente culturalmente ostile. E a chiarire che perfino in Europa e in Occidente vi è ancora chi intende la legge di natura sintetizzata nel Decalogo come orizzonte di civiltà, e la fede nel Dio Uno e Trino come faro per la propria esistenza quotidiana.
1a parte, soprattutto nn. 2 e 5
Esaminando i vari quesiti che compongono la prima parte, emergono due esigenze che concretizzano la sfida pastorale:
— la prima è quella di sacerdoti che facciano innamorare di Cristo e che sollecitino i cuori alla vita sacramentale;
— la seconda è quella di professionisti, ciascuno con specifica competenza da spendere per aiutare le famiglie, formati a essere coerenti tra fede, etica e impegno professionale.
1a esigenza. Se, come insegna Gesù, alcuni demoni si vincono con la preghiera e con il digiuno, i demoni di un’antropologia antiumana, che è riuscita a far penetrare l’ideologia del gender perfino nei programmi d’insegnamento delle scuole materne, si vincono parlando con fede e con gioia di Cristo ed esortando alla pratica della Confessione sacramentale. È difficile costruire una pastorale familiare senza la fondamentale e intima connessione tra matrimonio e sacramento della penitenza. Ciò chiama in causa in prima battuta l’apostolato dei sacerdoti.
2a esigenza. Strettamente connesso — non esistono compartimenti stagni né stanze non comunicabili — è il lavoro, rectius l’apostolato, dei laici cristiani chiamati ad aiutare i problemi interni alle famiglie e le tappe del loro sviluppo, non dimenticando di essere cristiani e mantenendo qualità professionale. Qualche esempio, per chiarezza:
— la crisi che può esplodere fra coniugi esige avvocati che conoscano bene il diritto esistente e tutelino al meglio la parte che ha conferito il mandato; la fede e l’etica del cristiano devono però orientare l’avvocato a scongiurare il più possibile la rottura del rapporto coniugale;
— la gestione legale di una crisi già esplosa richiede pur essa delicatezza e sforzo per non allargare i solchi e per non accentuare le ferite, e può andare di pari passo con quella catechesi per separati e per divorziati che in modo meritorio si pratica in qualche — purtroppo ancora poche — realtà parrocchiale;
— la cura del ginecologo nel seguire la gravidanza deve certamente condurre a un esame attento di ogni sua fase, tenendo però presente che la gravidanza non è una malattia e che la sua diffusa «sanitarizzazione» provoca ansia aggiuntiva nella donna che attende un figlio. Talora, la preoccupazione del ginecologo di essere inattaccabile sul piano di un eventuale risarcimento, e sul piano della relativa copertura assicurativa, si traduce nel costante turbamento della gestante. Questa prassi è talora seguita da ginecologi che ostentano l’etichetta di «cattolici»;
— perfino nei corsi di preparazione al matrimonio organizzati dalle diocesi si constata la scissione fra una pretesa autonomia professionale e l’etica cristiana: non è infrequente che un medico illustri i vari metodi di contraccezione artificiale, sulla premessa che il suo è il contributo del «tecnico», trascurando che è altra la ragione per la quale egli è stato inserito in un corso di quel tipo;
— professioni relativamente nuove, come il mediatore dei conflitti familiari, hanno possibilità di conseguire risultati solo partendo dai fondamenti etici e antropologici cristiani;
— identico discorso vale per lo psicologo e lo psichiatra;
— non ultima per importanza, la presenza, ormai da decenni, e la moltiplicazione di persone, spesso di origine extraeuropea, il cui lavoro consiste nel dedicarsi alla cura e all’assistenza degli anziani, nel domicilio di costoro, impone di non trascurare tale importante terreno di catechesi. Si tratta di persone che con frequenza trascorrono con l’anziano più tempo rispetto ai familiari: con altrettanta frequenza accade che i loro volti siano gli ultimi che l’anziano vede prima di morire. Una maggiore vicinanza delle comunità cristiane renderebbe meno pesante e isolato un lavoro impegnativo e arido di gratificazioni, con ricadute positive per la cura di chi si approssima alla morte.
Su entrambi i fronti — quello dei sacerdoti e quello dei laici impegnati professionalmente sul fronte familiare — lo slancio che può venire dal Sinodo è quello di un richiamo esplicito alla responsabilizzazione e all’azione conseguente, con un salto di qualità sul piano formativo e del raccordo interdisciplinare.
3 a parte, soprattutto nn. 26 e 27
Le associazioni familiari hanno un ruolo decisivo nel far sì che le istituzioni pongano la famiglia al centro delle politiche, nei vari ambiti territoriali:
— nelle strutture di assistenza teoricamente più vicine alle famiglie. In Italia ci sono i consultori familiari, che potrebbero essere spinti a riscoprire l’originaria identità di avamposto sociale del disagio infrafamiliare, nei quali trovino ascolto i bisogni del bambino, dell’adolescente, del giovane, della donna nei suoi vari stati evolutivi psico-biologici, dei figli, delle coppie, dei genitori, degli anziani. A condizione però che non siano né contenitori «ideologici» né centri delegati in via esclusiva alla distribuzione di contraccettivi, ma siti polifunzionali di servizi per il benessere familiare, in cui convivono attività medico-preventive e attività psico-sociali, a stretto contatto con la rete sociale formale e informale più che con la rete sanitaria, con una sostanziale apertura anche al ruolo attivo del volontariato più attento ai bisogni delle famiglie;
— nell’accoglienza della vita, a fronte delle pratiche sempre più estese di «privatizzazione» della vicenda abortiva. Se la legge che ha introdotto in Italia l’aborto fosse applicata per quanto dice la sua lettera, il medico e/o il consultorio cui una gestante si rivolge per abortire dovrebbero indicarle concrete alternative, articolando quella fase che viene chiamata della «prevenzione-dissuasione». Con le varie pillole abortive la consegna della pillola lascia la donna totalmente sola, banalizza i suoi problemi invece che prenderli in carico, la irride con una soluzione apparentemente facile, che in realtà è fonte di ulteriore abbandono;
— poi nella realizzazione di una prevenzione effettiva dell’aborto: che può realizzarsi anzitutto con un cambio di mentalità. Rientra nella esperienza quotidiana di ognuno di noi che i problemi per portare a termine una maternità esistono e talora sono gravi; ma certamente non si affrontano se la risposta alla loro denuncia, neanche tanto implicita quando si manifesta al medico o al consultorio la volontà di abortire, si riduce nel mero rilascio del certificato per abortire, o peggio nella consegna della pillola abortiva. La battaglia per la vita passa non da enunciazioni ideologiche, ma da un lavoro teso a costruire una cultura dell’accoglienza della vita, in virtù del quale se, per esempio, la gestante espone difficoltà nel lavoro, o se teme di perdere quest’ultimo a seguito della gravidanza, possa incontrare chi la informa dei suoi diritti e la aiuta in concreto a esercitarli (le difficoltà sono varie e spesso ancora più serie). Urge una campagna che rivaluti il ruolo di consultori concretamente operativi, li ponga in collegamento reale — e non nominale — con la rete più ampia dei servizi sociali e del volontariato e solleciti alla politica nazionale maggiore attenzione sul fronte delle risorse;
— vi sono in tutto il mondo — e anche in Europa e in Italia — associazioni di volontariato, che da decenni garantiscono alle donne la libertà di non abortire e ad altrettante vite umane la libertà di non essere uccise. Spesso le strutture sanitarie hanno fatto e fanno apparire questo successo — un successo anche per la donna, aiutata a prendere una decisione coraggiosa e meno drammatica rispetto al ricorso all’aborto — quasi come un segnale di faziosità. Vanno invece promossi accordi più stabili e diffusi con queste realtà, tesi a rendere la loro attività meno complicata, con minori ostacoli all’interno delle strutture sanitarie. Un maggiore coinvolgimento delle associazioni di volontariato è in grado di sollecitare e di mettere in moto le associazioni che dovrebbero realizzare l’aiuto alla maternità difficile. Se è più comodo per una struttura sanitaria dire alla donna «questo è il certificato, vai pure ad abortire…», una convenzione che in un ospedale consenta di avvalersi di chi ha un approccio meno formalistico e sommario e fornisca indicazioni di aiuti effettivi può indurre invece a prendere realmente in considerazione strade diverse, senza che ciò si traduca in pressioni sulla gestante;
— va ulteriormente valorizzato e innervato di motivazioni cristiane il volontariato dedito alla prevenzione e al recupero dei tossicodipendenti, la cui opera è quasi sempre la sola che offre una speranza a chi assume droga. Un lavoro che va affiancato all’informazione e alla formazione, antitetica a illusioni legalizzatrici, volta a spiegare che ogni stupefacente fa male e che di «leggero» a proposito della droga non vi è nulla: è auspicabile che anche tale sensibilizzazione viaggi attraverso la rete delle parrocchie, previa adeguata preparazione dei sacerdoti, dei religiosi e dei catechisti;
— vi è il piano delle politiche nazionali, che devono obbligatoriamente inserire il «fattore famiglia» nel sistema fiscale, per rendere economicamente conveniente, e non solo frutto di una scelta etica impegnativa, la decisione di formare una famiglia e di mettere al mondo dei figli;
— vi è, infine, il piano delle politiche sovranazionali e internazionali, che — come ha più volte ricordato Papa Francesco — subordina aiuti agli Stati all’adozione da parte di costoro di politiche contraccettive.
In ciascuno di tali ambiti le associazioni familiari, nel continuare la loro preziosa attività di «sindacato delle famiglie» e di esposizione delle ragioni delle famiglie stesse, sono chiamate a un’azione in senso lato politica: nel momento in cui negli Stati democratici e nei quali operano i partiti, questi ultimi appaiono sempre meno incisivi e sempre più distanti da sensibilità pro family, diventa necessario che, non in funzione di sostituzione dei luoghi della rappresentanza, bensì in chiave di sollecitazione, si manifestino l’esistenza, la presenza e le necessità delle famiglie. Si manifesti pubblicamente, anche attraverso la piazza, da sempre luogo di sana e pacifica democrazia: quando le mediazioni non appaiono efficaci, far sentire la propria voce senza deleghe serve a convincere i rappresentanti a tenere finalmente in considerazione chi scende in piazza. L’esperienza, recente e meno recente, di tante Nazioni occidentali, induce a prendere in seria considerazione anche tale forma di espressione delle istanze delle famiglie: quando queste ultime si riuniscono e diventano migliaia, se non milioni, qualcosa cambia nella politica degli Stati sulla famiglia.
Ancora 3 a parte, soprattutto nn. 41, 42, 43, 44, 45, 46, 47, 55, 56, 57, 58 e 59
È raccomandabile, per scongiurare equivoci non desiderati, che l’espressione contenuta al n. 41, che invita «a cogliere gli elementi positivi presenti nei matrimoni civili e, fatte le debite differenze, nelle convivenze», sia letta insieme al n. 27: esso, trattando dei matrimoni civili fra uomo e donna, dei matrimoni tradizionali, e, fatte le debite differenze, delle convivenze, afferma che quando l’unione non contratta secondo i canoni della Chiesa Cattolica raggiunge una notevole stabilità, è connotata da affetto profondo e da responsabilità nei confronti della prole, «può essere vista come un’occasione da accompagnare nello sviluppo verso il sacramento del matrimonio». La realtà mediatica è abile, nella sua parte laicista egemone, a estrapolare e a strumentalizzare. L’osservazione sociologica mostra che: a) il matrimonio religioso dura di più, si presta a un numero inferiore di conclusioni traumatiche con il divorzio, fa nascere più figli; b) le donne che vivono in convivenze protratte per un certo numero di anni sono meno feconde di quelle sposate, sebbene più feconde di quelle che vivono in legami effimeri; c) la convivenza prematrimoniale non fa diminuire i rischi di divorzio, ma li aumenta.
Sulle scelte pastorali coraggiose per curare le famiglie ferite (nn. 44-48), è opportuno incrementare l’attenzione per coloro che hanno subito ingiustamente la separazione, il divorzio o l’abbandono, oppure sono stati costretti a tali passi dai maltrattamenti del coniuge: ribadendo comunque la dottrina di sempre sul matrimonio, quale modello cui tendere.
Sull’attenzione pastorale verso le persone con orientamento omosessuale (nn. 55-56), da accogliere con rispetto e delicatezza, la doverosa non discriminazione va coniugata con la memoria del dovere di trasmettere la vita e con la sfida della natalità di cui al n. 57, che solo il matrimonio naturale fra uomo e donna può vincere. In proposito, in linea di continuità e coerenza con il Magistero pontificio, recentemente ribadito da Papa Francesco, vanno evidenziate e condannate le pressioni che sul gender e sulla denatalità esercitano, avvalendosi di notevole influenza istituzionale e di grandi mezzi economici, gli organismi internazionali e le agenzie non profit legate ai grandi gruppi finanziari. Va altresì tenuta viva l’attenzione al diffondersi di una tendenza legislativa tesa a restringere la libertà di critica verso qualsiasi pedagogia che esprima motivate critiche verso la teorizzazione di orientamenti sessuali diversi da quello eterosessuale, manifestando dissenso alla «colonizzazione ideologica» dell’ideologia del gender.