MASSIMO INTROVIGNE, Cristianità n. 317 (2003)
Sociologia e monoteismo
Rodney Stark, ordinario di Sociologia delle Religioni alla University of Washington, è considerato da molti il maggior sociologo delle religioni vivente. Sul suo manuale Sociology, giunto ormai all’ottava edizione (1), generazioni di studenti di lingua inglese hanno scoperto la sociologia. Dopo aver formulato, con altri, la teoria dell’economia religiosa che in molte università ha da anni sostituito la precedente teoria della secolarizzazione come modello sociologico per interpretare la situazione della religione in Occidente (2), Stark si dedica da diversi anni a una lettura sociologica della storia delle religioni.
Il suo saggio sulle origini del cristianesimo The Rise of Christianity. A Sociologist Reconsiders History, del 1996 (3), è stato tradotto in dodici lingue e ha avuto un’accoglienza sorprendentemente favorevole nella cerchia degli specialisti del cristianesimo antico, di cui pure metteva in dubbio più di un’interpretazione. Nel 2001, con One True God. Historical Consequences of Monotheism (4), Stark ha iniziato un’ampia indagine sul monoteismo, volta a mettere alla prova l’ipotesi secondo cui i princìpi generali della teoria dell’economia religiosa non valgono solo per l’epoca contemporanea, ma anche per l’antichità e per il Medioevo. La teoria postula, fra l’altro, che la domanda religiosa tenda a rimanere costante nel tempo, così che le variazioni nei tassi di religiosità —cioè nelle percentuali di persone che si dicono sia religiose sia praticanti — dipendono dalla qualità e dalla quantità dell’offerta. A meno che il mercato religioso non sia distorto da interventi coercitivi dello Stato, esso si comporta come altri mercati: il monopolio, a lungo andare, genera indolenza e mancanza di entusiasmo nei monopolisti, non stimolati dalla concorrenza, e deprime il mercato, che è al contrario ravvivato e rinvigorito da una concorrenza attiva e agguerrita.
Nell’esempio comparativo più tipico da cui la teoria dell’economia religiosa è partita, il monopolio delle Chiese di Stato in Scandinavia ha fatto sì che il numero di praticanti si sia ridotto ai minimi termini, mentre la vigorosa concorrenza fra denominazioni cristiane ha trasformato gli Stati Uniti d’America in un paese dove il numero di praticanti è quasi tre volte superiore alla media dell’Unione Europea.
Questa conclusione — afferma Stark — vale anche per l’antichità: il successo delle religioni protette dallo Stato contro i concorrenti sembra inizialmente folgorante, ma si rivela alla lunga effimero, perché il loro clero impigrisce e perde lo zelo missionario. Come conseguenza, alla periferia della scena religiosa nascono movimenti di contestazione che — sempre nel lungo termine — finiscono per aver successo. Un altro aspetto della teoria dell’economia religiosa è la maggiore forza concorrenziale del monoteismo incentrato su un Dio personale rispetto sia ai politeismi che postulano una pluralità di divinità “specializzate”, sia alle religioni che venerano un’”Essenza” astratta che non si occupa dei problemi degli uomini. Un Dio unico che si cura di tutti gli aspetti della vita dell’uomo è infinitamente più attraente.
Naturalmente, Stark affronta questi problemi dal punto di vista della sociologia, che esclude per principio giudizi di valore su quale teologia sia “vera”; ma nello stesso tempo non si disinteressa affatto della teologia e delle dottrine perché — almeno nella teoria di Stark — proprio gli aspetti dottrinali rendono ragione del perché una religione abbia successo e un’altra finisca per scomparire.
Infine, in One True God. Historical Consequences of Monotheism, Stark sottolinea come il monoteismo in linea di principio abbia difficoltà ad ammettere la sua coesistenza con altre fedi: se vi è un solo vero Dio, gli altri dèi sono “falsi”. Tuttavia, in pratica, l’intolleranza si traduce in atti violenti soltanto quando la riaffermazione dell’identità è percepita come necessaria in dipendenza di una minaccia esterna: così, lo scontro fra il cristianesimo e l’islam determina, all’interno di entrambi, una repressione più dura sia degli ebrei sia degli eretici.
For the Glory of God. How Monotheism Led to Reformations, Science, Witch-Hunts, and the End of Slavery, il secondo volume dello studio consacrato da Stark al monoteismo (5), riprende il discorso dove lo aveva lasciato nel primo ed esamina quattro episodi nella storia del cristianesimo in Occidente: le eresie medioevali e la Riforma, la nascita della scienza, la caccia alle streghe e la schiavitù.
Lo scopo di Stark rimane quello di arrivare a un’interpretazione sociologica coerente della storia del cristianesimo. Tuttavia, nel suo esame della letteratura storica, il sociologo americano nota di essersi aspettato pregiudizi di tipo materialista e marxista; ma — afferma — “quello cui non ero preparato era scoprire quanti degli storici che ho dovuto leggere per preparare questo studio esprimono un anti-cattolicesimo militante, e quanto pochi fra i loro pari abbiano obiettato a una litania di commenti dispregiativi di taglio anti-cattolico, talora espressi senza neppure rendersene conto” (pp. 12-13). Così, “benché molti storici viventi oggi probabilmente non abbiano pregiudizi contro la religione cattolica, o almeno non più di quanti ne abbiano contro la religione in generale, spesso mantengono idee false senza rendersi conto che sono il prodotto dell’anti-cattolicesimo di passate generazioni” (p. 13). Stark sente perfino il bisogno di precisare: “Non sono, e non sono mai stato, cattolico” (p. 14) e “[…] nego di scrivere in qualità di apologeta” (ibidem); in effetti, alcune delle sue conclusioni — una per tutte: la presenza di una valida successione apostolica nella Chiesa d’Inghilterra — contraddicono formalmente la dottrina cattolica. Ma, nell’esaminare la letteratura storica in funzione di un’interpretazione sociologica, Stark incontra l’ostacolo che deriva da un pregiudizio anti-cattolico spesso estremo da parte di storici antichi e moderni.
Eresie, Riforma protestante e Riforma cattolica
La prima parte dell’opera — La verità di Dio: le “sètte” e le riforme sono inevitabili (pp. 15-120) — è consacrata alla storia delle eresie cristiane, dal montanismo alla Riforma protestante.
Stark si serve di questi esempi per ritornare, ancora una volta, su un elemento centrale della teoria dell’economia religiosa: un monopolio protetto dallo Stato genera un clero pigro, che perde lo zelo missionario. In questa chiave, quello che per altri versi è il miracolo di Costantino (274-337) è nello stesso tempo “la “maledizione” di Costantino” (p. 33): garantito dallo Stato, lo zelo cristiano a poco a poco si affievolisce.
La teoria dell’economia religiosa postula che un monopolio centrale impigrito generi alla sua periferia forme di dissenso: sono da una parte le varie eresie medioevali, dall’altra i movimenti riformatori che la Chiesa cattolica riesce a tenere al suo interno; e non si tratta, secondo il sociologo americano, di un piccolo risultato. Il secondo fenomeno è quello che Stark chiama della “Chiesa della pietà” (p. 40), rappresentata principalmente dai monaci e dagli ordini religiosi, spesso critica nei confronti della “Chiesa del potere” (p. 40) che mostra non solo mancanza di zelo missionario, ma anche immoralità, simonia e intrighi.
Stark nega risolutamente la teoria di origine marxista secondo cui sia la “Chiesa della pietà” sia le eresie rappresentino una forma primitiva di protesta sociale: i movimenti ascetici e quelli ereticali, nella stragrande maggioranza dei casi, non sono guidati da poveri ma da ricchi, e proprio la nobiltà fornisce statisticamente alla Chiesa il maggior numero di santi asceti — in seguito canonizzati — nel Medioevo. Alcune tesi della vulgata marxista in tema di eresie sono denunciate come semplicemente ridicole: così, Friedrich Engels (1820-1895) considera il movimento valdese come la reazione di “[…] pastori patriarcali delle Alpi contro il feudalesimo che avanzava verso di loro” (p. 61), in apparenza ignorando completamente che i valdesi nascono nelle grandi città, sono guidati da borghesi cittadini, e si rifugiano sulle Alpi, sospinti dalla persecuzione, solo secoli più tardi quando il feudalesimo è già in crisi.
In conformità con le idee già espresse in One True God. Historical Consequences of Monotheism, Stark afferma che l’eresia gode di una relativa tolleranza nei momenti di relativa stabilità, mentre è perseguitata quando la Cristianità si trova di fronte a minacce esterne, principalmente a quella islamica. Nonostante la repressione, sia la “Chiesa della pietà” vince finalmente la sua battaglia con il Concilio di Trento (1545-1563) e la Riforma cattolica, sia la Riforma protestante si afferma in vaste zone d’Europa.
Una teoria sociologica, nota Stark, deve spiegare perché il protestantesimo ha avuto successo in alcune zone del continente europeo e non in altre. La risposta che l’autore propone è che — oltre all’interesse dei sovrani e al tipo di governo — il fattore decisivo è rappresentato dall’assenza di un’opposizione popolare cattolica al protestantesimo, opposizione che è tanto più forte quanto più ogni singola area geografica è stata cristianizzata da più antica data e più in profondità. Così nell’Europa del Nord scandinava, cristianizzata relativamente tardi e più o meno superficialmente, l’opposizione alle scelte protestanti dei re è minima; mentre nell’Europa mediterranea un vigoroso cattolicesimo popolare si oppone — spesso in armi, anche contro le preferenze dei principi — alla protestantizzazione.
Cristianesimo e scienza moderna
La seconda parte dell’opera — Il lavoro per Dio: le origini religiose della scienza (pp. 121-200) — è dedicata alla nascita della scienza moderna. La scienza nasce, nota Stark, per una serie di concause, in parte legate a fattori economici e allo sviluppo tecnologico. Queste ultime cause tuttavia, secondo il sociologo americano, sono necessarie ma non sono sufficienti.
La scienza, nel senso moderno del termine, può nascere solo in determinate condizioni religiose: solo una cultura persuasa che il mondo sia stato creato da un Dio personale benevolo, e non capriccioso, le cui leggi sono immutabili, sarà spinta a cercare di scoprire queste leggi. Così, nonostante un’avanzata tecnologia, la scienza non nasce in Cina, dove manca la nozione di un Dio personale, e si spegne nel mondo islamico, quando la teologia prevalente comincia a insegnare che Dio è imprevedibile e non opera tramite leggi costanti, così che “[…] condanna tutti i tentativi di formulare leggi della natura come bestemmie che negano la libertà di azione di Allah” (p. 154): “Se Dio fa quel che gli piace, e quel che gli piace è sempre variabile, l’universo non opera secondo leggi regolari” (p. 155).
Naturalmente, l’idea secondo cui il cristianesimo ha generato la scienza moderna appare agli antipodi della vulgata secondo cui questa sarebbe emersa da una lunga lotta contro le pastoie religiose che cercavano di soffocarla. Quest’idea è però, secondo Stark, interamente mitologica e deriva dai già citati pregiudizi anti-cattolici: in effetti già nelle cosiddette “età oscure” dell’Alto Medioevo “la tecnologia dell’Europa era avanzata ben al di là di quanto si conosceva dell’antichità” (p. 133), come il sociologo documenta facendo riferimento a numerosi storici della scienza contemporanei.
Smentendo a uno a uno i miti di una “leggenda nera” sulla presunta lotta del cristianesimo contro la scienza, questi storici hanno fra l’altro dimostrato che la maggioranza dei filosofi cristiani medioevali sostenevano che la terra era rotonda, non piatta; che l’anatomia avanzava tramite la dissezione di cadaveri che, con alcune cautele e limitazioni, era permessa dalla Chiesa; che l’ipotesi eliocentrica era stata pacificamente formulata ben prima di Niccolò Copernico (1473-1543); e che semmai Galileo Galilei (1564-1642), ben lungi dall’essere “[…] solo una vittima innocente” (p. 165) di abusi di potere, che pure ci furono, “[…] mise a rischio sconsideratamente l’intera impresa scientifica” (ibidem) presentando le sue teorie scientifiche come certe anziché come ipotetiche e deducendone conseguenze teologiche: “[…] i suoi guai derivarono dalla sua arroganza e non solo dalle sue idee scientifiche” (pp. 163-164).
Ugualmente falsa è l’idea secondo cui i grandi scienziati dell’epoca formativa della scienza moderna erano principalmente liberi pensatori scettici, o almeno protestanti anti-cattolici. Stark costruisce una tabella sulla base di cinquantadue scienziati, le cui biografie appaiono in diverse enciclopedie della scienza e che sono stati attivi fra il 1543 e il 1680, l’epoca d’oro della scienza moderna nascente secondo gli storici specializzati: conta venticinque cattolici, venticinque protestanti e solo due liberi pensatori.
All’obiezione, secondo cui gli scienziati dovevano fingersi religiosi per evitare persecuzioni, Stark risponde che lo studio della vita privata dei cinquantadue scienziati mostra che il 61,7% di essi erano “devoti” (p. 162), nel senso che documenti personali, quali lettere e diari, ne provano una religiosità che andava al di là della semplice pratica “convenzionale” (p. 162).
Questo rimane vero anche nei secoli XVIII e XIX. Stark racconta la storia davvero poco edificante di come, una volta creato il mito di Sir Isaac Newton (1642-1727) come presunto illuminista, l’establishment degli storici inglesi abbia impedito, contro il suo volere esplicito, la pubblicazione postuma delle sue opere sulla religione, da cui il grande scienziato emerge come un uomo profondamente religioso — sebbene alquanto eterodosso — e nello stesso tempo interessato all’esoterismo, all’astrologia e all’alchimia.
La pubblicazione di questi scritti è stata possibile solo dopo la seconda guerra mondiale, grazie al fatto che molti manoscritti di Newton erano stati acquistati dall’economista John Maynard Keynes (1883-1946), grande collezionista di cimeli newtoniani, che — a prescindere dalle sue idee personali — permise finalmente la pubblicazione di molti inediti dello scienziato.
Inoltre, secondo Stark, pure oggi è vero che la maggior parte degli scienziati sia religiosa. Nella grande inchiesta della Carnegie Commission condotta nel 1969 su un campione straordinariamente elevato — oltre sessantamila docenti universitari — si dichiaravano credenti il 60% dei matematici, e il 55% dei fisici, chimici e biologi. Altre indagini hanno confermato questi dati. Se spesso si citano dati diversi è solo — nota Stark — perché ci si dimentica di separare i dati sugli scienziati naturali da quelli relativi agli scienziati sociali — storici, psicologi, antropologi —, che sono invece “sostanzialmente meno religiosi” (p. 194).
Infine, Stark affronta l’obiezione secondo cui la Chiesa, o almeno i “fondamentalisti”, hanno lottato contro l’evoluzionismo. Il sociologo esamina in particolare l’immagine letteraria e cinematografica del processo contro il docente di scuola media superiore John T. Scopes (1900-1970), accusato d’insegnare nel suo corso teorie evoluzioniste offensive nei confronti della religione, celebrato a Dayton, nel Tennessee, dal 10 al 21 luglio 1925. Stark nota come, al processo, gli evoluzionisti scelsero ad arte i loro oppositori per creare un caso pilota in cui contestare le leggi, peraltro mai veramente applicate, che ostacolavano l’insegnamento dell’evoluzionismo in alcuni degli Stati Uniti d’America, dove tuttavia — a suo avviso — le relazioni fra denominazioni cristiane e teorie evoluzioniste sono assai più complesse.
Tali teorie furono inizialmente accolte con benevola neutralità dalle denominazioni cristiane, le quali reagirono solo quando l’evoluzionismo fu utilizzato per promuovere l’ateismo e il socialismo: “I primi e più militanti propagandisti del darwinismo costituiscono un vero elenco del telefono del socialismo” (p. 185). D’altro canto, Stark nota freddamente che i problemi legati alla teoria darwiniana dell’evoluzione “[…] non sono stati risolti dopo oltre 150 anni di sforzi” (p. 176), e che “[…] le aggressive proclamazioni pubbliche della certezza della teoria da parte dei darwinisti sono state quasi direttamente proporzionali alle loro difficoltà” (ibidem).
Nonostante queste difficoltà — che Stark passa brevemente in rassegna — darwinisti militanti come Richard Dawkins scrivono frasi come: “Si può dire con assoluta certezza che, se si incontra qualcuno che afferma di non credere nell’evoluzione, si tratta o di un ignorante o di uno stupido o di un pazzo” (p. 177): frasi di grande interesse per il sociologo perché mostrano un atteggiamento di tipo, questo sì, “fondamentalista”, che non è però un sostituto per la prova scientifica. Stark nota pure: “Diversi colleghi mi hanno ammonito che criticare la teoria evoluzionista avrebbe rovinato la mia “carriera”. Questo ha solo reso più forte la mia determinazione di non sopportare più oltre questa arrogante forma di occultismo” (p. 394).
La caccia alle streghe
Venendo all’occultismo vero nomine, nella terza parte dell’opera — I nemici di Dio: come spiegare le cacce alle streghe in Europa (pp. 201-290) — l’autore esamina la caccia alle streghe. Anche in questo caso, il sociologo americano analizza anzitutto la letteratura storica — e, in questo caso, anche quella divulgativa —, notando che la storiografia più recente ha ridimensionato i “nove milioni di vittime” (p. 202), ancora citati in qualche opera meno scientifica, a una più realistica cifra di “circa 60.000” (p. 203), il che non toglie nulla alle tragedie individuali, ma mostra con quanta poca accuratezza una letteratura propagandistica ipotizzasse dati e cifre.
In seguito, Stark ribadisce dati comuni nella sociologia delle religioni in merito alla distinzione fra religione — in cui s’invoca l’intercessione di Dio — e magia, in cui si pensa di manipolare e mettere al proprio servizio forze soprannaturali o preternaturali. Osserva che la magia è sempre coesistita con la religione e che questa forma di “dissenso” almeno implicito ha in comune con l’eresia l’essere tollerata in epoche “normali” e l’essere perseguitata in epoche di crisi.
Inoltre, la magia occasionalmente “funziona” — se non altro per ragioni statistiche, un incantesimo per la pioggia ha un certo numero di possibilità di “riuscire” —, il che richiede a persone abituate a ragionare in modo logico e coerente una spiegazione del perché sia così. In questo senso, la spiegazione demoniaca — secondo cui la magia funziona per l’intervento del Demonio — appare secondo Stark non particolarmente illogica nel contesto della teologia medioevale.
Il sociologo americano esamina alcune spiegazioni della caccia alle streghe che considera insufficienti, fra le quali l’esistenza di una religione pagana clandestina perseguitata dal cristianesimo come stregoneria, una teoria popolare negli ambienti della neo-stregoneria contemporanea, ma storicamente falsa; la malattia mentale degli accusati, molti dei quali si difendono con un’abilità certamente incompatibile con la schizofrenia; il “ginocidio” — neologismo che vorrebbe indicare un genocidio rivolto contro le donne —, di cui la storiografia femminista accusa una cultura maschilista e patriarcale, dal momento che molti dei condannati erano uomini, e le pene per gli uomini erano semmai più severe di quelle per le donne; il desiderio d’impadronirsi dei beni degli accusati, spesso invece poveri; il presunto fanatismo del clero, che molto spesso cercava piuttosto di frenare le campagne contro la stregoneria, che nascevano “dal basso”.
Anche le spiegazioni più popolari fra i sociologi — la costruzione di una solidarietà locale attraverso la designazione di un nemico, e la reazione a periodi di crisi economica o sociale — non spiegano, secondo Stark, perché la caccia alle streghe abbia una sua geografia precisa, si diffonda in alcune aree e non in altre.
Il sociologo propone una nuova teoria secondo cui gli episodi di caccia alle streghe nascono dalla presenza concomitante di tre fattori: la pratica diffusa della magia —e la sua interpretazione demonologia da parte della teologia dominante —, una situazione di conflitto religioso che rende più difficile tollerare il dissenso, e la debolezza dell’autorità centrale che non riesce a opporsi con successo alle proposte locali di perseguire le streghe. Ciascuno di questi tre elementi è necessario, ma non è sufficiente.
La presenza della magia popolare nel tardo Medioevo è forte in aree di lingua tedesca come la Svizzera, dove vi sono, fra i secoli XIV e XVI, 376,9 imputati di stregoneria per milione di abitanti; ma è forte anche in Italia, dove questo tasso nello stesso periodo scende a 14,4 (p. 253).
Una prima differenza fra l’Italia e la Svizzera — o l’area di Norimberga, dove il tasso è di 956,5 imputati per milione di abitanti — è la presenza di conflitti armati e di anarchia politica, e, in seguito, di un forte conflitto fra cattolici e protestanti. Cruciale è poi la debolezza dell’autorità centrale, politica e religiosa. In effetti, le autorità della Chiesa cattolica si oppongono alla caccia alle streghe, con tanto più successo dove il loro potere è forte e centralizzato: in Spagna il tasso d’imputati di stregoneria è di 0,2 per milione di abitanti, il più basso d’Europa.
A proposito della Spagna, Stark riprende da autori come Henry Kamen (6) e Gustav Henningsen (7) il dato secondo cui l’Inquisizione spagnola in effetti impedì una caccia alle streghe in Spagna, reprimendo duramente non le streghe ma gli aspiranti cacciatori di streghe. Una tabella mostra pure come, fra il 1540 e il 1700, su 44.701 imputati, processati dall’Inquisizione spagnola, “solo 826 (cioè l’1,8%)” (p. 257) siano stati condannati a morte e giustiziati: il che potrebbe mettere a tacere la relativa “leggenda nera” se potenti interessi ideologici non spingessero invece a tenerla in vita. Di fatto, non furono i liberi pensatori a porre fine alla caccia alle streghe, ma teologi e autori ecclesiastici che, a poco a poco, aiutarono le grandi denominazioni cristiane e gli Stati a riprendere il controllo della situazione nell’epoca di minore conflitto inaugurata nel 1648 dalla Pace di Vestfalia.
Religione e schiavitù
La quarta parte dell’opera di Stark — La giustizia di Dio: il peccato della schiavitù (pp. 291-366) — è consacrata alla schiavitù, un altro campo dove la propaganda anti-cattolica ha seminato falsità solo faticosamente smentite dagli storici più recenti. Stark inizia con il riferire che la schiavitù è un dato pressoché universale, diffuso nelle sue versioni più brutali anche in culture unanimemente ammirate per il loro alto livello di civiltà, come la Grecia e Roma, o per il loro presunto idilliaco rapporto con la natura, come gli amerindi. Solo alcune — piccole — comunità nel mondo ebraico antico trovano nella loro religione ragioni di ostilità alla schiavitù, e solo il cristianesimo l’abolisce, per quanto sacche di schiavitù rimangano nelle zone di frontiera più lontane dal centro romano della Cristianità.
Si deve comunque a san Tommaso d’Aquino (1225 ca.-1274), nota Stark, la più rigorosa dimostrazione del carattere sempre peccaminoso e illecito della schiavitù, regolarmente citata in numerosi documenti del successivo magistero pontificio, “[…] dal 1435 fino a culminare in tre pronunciamenti salienti contro la schiavitù a opera di Papa Paolo III [1534-1549], nel 1537″ (pp. 329-330). La schiavitù rimane nel frattempo praticata, fino al secolo XX — e oltre—, dall’islam.
Con la conquista del Nuovo Mondo le potenze coloniali iniziano ad acquistare schiavi da mercanti musulmani africani e a importarli nelle Americhe, dopo aver tentato con scarso successo di rendere schiavi gl’indiani locali, poco abituati alle fatiche del lavoro agricolo e inclini a morire rapidamente di malattia.
La reazione pontificia è durissima: Papa Paolo III “[…]dichiara Satana il padre della schiavitù” (p. 331) e ne vieta assolutamente ogni forma di pratica. Le condanne pontificie sono continuamente reiterate; si può solo lamentare che non sono osservate. Tuttavia, osserva Stark, la continua pressione della Santa Sede porta almeno all’emanazione, nel secolo XVIII, di codici sul modo di trattare gli schiavi, come il Code Noir francese e il Código Negro Español, che Stark compara utilmente con il coevo Code of Barbados inglese, adottato in tutti i Caraibi britannici.
Le leggi francesi e spagnole dichiarano gli schiavi persone umane con un’anima immortale che devono essere battezzate, catechizzate, fatte sposare con rito cattolico, e non separate dal coniuge o dai figli piccoli. Nulla di simile si trova nel Code of Barbados, tutto costruito sull’equiparazione giuridica dello schiavo al capo di bestiame. Naturalmente, Stark nota che nulla giustifica alcuna forma di schiavitù: tuttavia, è cattiva storia ignorare che mentre il Code of Barbados non parla di giorni di vacanza il Código Negro Español, sommando domeniche e feste religiose di ogni genere, garantisce agli schiavi 87 giorni di riposo all’anno (p. 311).
Beninteso, la storiografia più anti-cattolica si è compiaciuta di notare le frequenti violazioni delle leggi. Tuttavia le statistiche mostrano, per esempio, che a New Orleans — città a maggioranza cattolica e a lungo sotto amministrazione francese — la “percentuale dei neri che erano liberi” (p. 323) nel 1830 era del “41,7%” (ibidem), contro il solo “3,9%” (ibidem) della non troppo lontana città protestante di Nashville, nel Tennessee, il che prova come gl’incentivi del Code Noir all’emancipazione avessero funzionato.
Quanto ai rigori della schiavitù sotto il Code of Barbados, è sufficiente a Stark ricordare che dal 1626 “[…] al 1808 — quando diventa illegale importare schiavi [in territorio britannico] — entrano nel paese [cioè negli attuali Stati Uniti d’America] circa 400.000 schiavi” (p. 318) contro “[…] 340.000 a Barbados, una piccola isola” (ibidem) e “750.000” (ibidem) in Giamaica.
Questo non significa che negli Stati Uniti d’America vi fossero meno schiavi che nelle isole amministrate dalla Gran Bretagna: il fatto è che la maggioranza degli schiavi americani lo erano per nascita, mentre in Giamaica o nelle Barbados il regime — certo accompagnato da condizioni climatiche particolarmente sfavorevoli — era tale per cui la maggioranza degli schiavi moriva prima di procreare, i figli degli schiavi non raggiungevano l’età adulta, per cui “[…] lo straordinario tasso di mortalità degli schiavi doveva essere compensato da un tasso d’importazione [di nuovi schiavi] ugualmente alto” (p. 318).
Così com’è falso che la Chiesa abbia favorito la schiavitù, è falso che siano stati gl’illuministi a operare per la sua abolizione. La “crema” dei filosofi e degli scrittori illuministi, dall’inglese John Locke (1632-1704) al francese François-Marie Arouet, noto con lo pseudonimo di Voltaire (1694-1778), dallo scozzese David Hume (1711-1776) al francese Denis Diderot (1713-1784), “[…] ha pienamente accettato la schiavitù” (p. 359), quando non ha addirittura investito i suoi risparmi nel commercio degli schiavi. È stata invece l’autorità ecclesiastica cattolica, insieme a un possente movimento protestante passato dai quaccheri ad altre denominazioni, a far trionfare la causa abolizionista in tutto il mondo cristiano, non in quello islamico. L’idea marxista secondo cui le ragioni religiose dell’abolizionismo mascheravano bassi interessi economici è fondata su calcoli dell’economista Adam Smith (1723-1790) — paradossalmente, una bestia nera dei marxisti — secondo cui il lavoro di uomini liberi pagati adeguatamente poco sarebbe stato in realtà più a buon mercato di quello degli schiavi, calcoli considerati oggi unanimemente sbagliati dagli storici dell’economia. No: “La schiavitù non morì della sua stessa inefficienza, e l’emancipazione non fu un complotto capitalista” (p. 365); l’abolizione della schiavitù ebbe cause anzitutto religiose e fu “[…] uno di quegli straordinari episodi di fede che hanno dato forma alla civiltà occidentale” (ibidem).
Naturalmente, su questo o quel giudizio storico la discussione continua, né l’opera di Stark ha l’ambizione di presentarsi come un manuale di storia. Lo scopo del sociologo è quello di mostrare, attraverso lo studio di episodi emblematici anche se particolarmente controversi, che — contrariamente al pregiudizio passato dal marxismo in gran parte della cultura contemporanea — i fenomeni che si presentano come religiosi non sono soltanto la maschera di fattori e d’interessi materiali, ma hanno spesso cause effettivamente e veramente religiose.
Stark postula la necessità di una “sociologia degli dèi” (p. 4), cui dedica un’appendice metodologica — Dèi, rituali e scienze sociali (pp. 367-376) —, capace di superare l’idea trasmessa alla sociologia delle religioni da Émile Durkheim (1858-1917) secondo cui solo il rito e il sostegno dell’ordine morale sono sociologicamente interessanti nella religione. In realtà, proprio a quale tipo di Dio o di dèi il rito si rivolge spiega le conseguenze sociali di ciascuna religione e il suo influsso sulla storia. La religione cristiana, e in particolare la Chiesa cattolica, sono certo state coinvolte in episodi tragici e discutibili. Ma hanno anche scritto pagine fra le più luminose della storia dell’Occidente: i popoli occidentali hanno una storia da cui la religione, per quanti sforzi in contrario si facciano, rimane indissolubile.
Massimo Introvigne
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(1) Cfr. Rodney Stark, Sociology. Internet Edition, Wadsworth/Thomson Learning, Belmont (California) 2001.
(2) Cfr. la formulazione più completa, e insieme più accessibile, della teoria, in Idem e Roger Finke, Acts of Faith. Explaining the Human Side of Religion, University of California Press, Berkeley-Los Angeles-Londra 2000; cfr. pure R. Stark e Massimo Introvigne, Dio è tornato. Indagine sulla rivincita delle religioni in Occidente, Piemme, Casale Monferrato (Alessandria) 2003.
(3) Cfr. R. Stark, The Rise of Christianity. A Sociologist Reconsiders History, Princeton University Press, Princeton 1996; cfr. la mia recensione Il cristianesimo delle origini: un nuovo movimento religioso?, in Cristianità, anno XXIV, n. 259, novembre 1996, pp. 9-11.
(4) Cfr. R. Stark, One True God. Historical Consequences of Monotheism, Princeton University Press, Princeton-Oxford 2001.
(5) Cfr. Idem, For the Glory of God. How Monotheism Led to Reformations, Science, Witch-Hunts, and the End of Slavery, Princeton University Press, Princeton-Oxford 2003. Tutti i riferimenti fra parentesi nel testo rimandano a quest’opera.
(6) Cfr. Henry Kamen, The Spanish Inquisition. A Historical Revision, Yale University Press, New Haven-Londra 1998.
(7) Cfr. Gustav Henningsen, L’avvocato delle streghe. Stregoneria basca e Inquisizione spagnola, trad. it., Garzanti, Milano 1990.