Mauro Ronco, Cristianità n. 70 (1981)
La recente decisione della Corte costituzionale sull’ammissibilità dei referendum relativi alla iniqua «legge» 194 ha definitivamente sanzionato il principio secondo cui il diritto alla vita dell’essere umano innocente non può e non deve essere tutelato dalla carta fondamentale della nazione italiana. Inoltre, la stessa decisione ha clamorosamente capovolto il principio della superiorità della legge sul giudice, permettendo l’affermarsi della tesi secondo cui una qualsiasi sentenza della Corte, in una qualsiasi materia, produrrebbe automaticamente una norma con valore costituzionale. Una sconfitta storica, di incalcolabile portata, per la cristianità italiana, costretta a subire un duplice successo delle forze rivoluzionarie, che sono contemporaneamente riuscite a far dichiarare incostituzionale la legge di Dio e a far propagandare ai cattolici stessi la legalizzazione dell’aborto, sotto la speciosa e, in questo caso, inapplicabile tesi del «male minore».
Secondo la decisione del 4 febbraio 1981
Solo l’aborto è «costituzionale»!
La decisione emessa dalla Corte costituzionale in data 4 febbraio 1981 nel giudizio di ammissibilità relativo alle proposte di referendum abrogativo parziale della «legge» abortista del 22 maggio 1978, n. 194, segna una tappa estremamente grave nella storia della nostra nazione, per una pluralità di ragioni, sia di carattere morale, che di carattere sociale e giuridico. Su esse, per l’urgenza di offrire ai cattolici criteri sicuri di orientamento, è opportuno immediatamente intervenire, anche se ancora non si conosce la motivazione della sentenza.
Sinteticamente, il contenuto della decisione della Corte può così essere espresso:
1. La proposta di referendum radicale, che toglie all’esercizio del «diritto» d’aborto – già riconosciuto dalla «legge» n. 194/1978 – la difficoltà costituita dal necessario espletamento preventivo di alcune pratiche burocratiche, è stata dichiarata ammissibile.
2. Lo stesso è da dirsi della proposta di referendum del Movimento per la Vita, detta «minimale», che contiene larghe concessioni alle stesse disposizioni abortiste della «legge» 194, tra cui: a. conferma della legalizzazione dell’aborto terapeutico per tutti i 9 mesi della gravidanza; b. conferma del finanziamento pubblico per l’esecuzione legale degli aborti; c. conferma dell’obbligo per gli enti ospedalieri di eseguire «in ogni caso» gli aborti richiesti.
3. Inammissibile – per asserito contrasto con la Costituzione – è stata dichiarata soltanto la proposta di referendum detta «massimale», che – pur moralmente inaccettabile in quanto prevedeva la estensione legale anche ai minorenni della «somministrazione su prescrizione medica, nelle strutture sanitarie e nei consultori» (art, 2, comma 3) dei contraccettivi, e, quindi, anche di abortivi precoci – intendeva conseguire il risultato dell’abrogazione dell’aborto legale.
La situazione conseguente a tale decisione della Corte costituzionale è riassumibile nelle seguenti due proposizioni: 1. la verità naturale e cristiana in ordine al rispetto assoluto da prestarsi alla vita del concepito contrasterebbe con la carta fondamentale della nazione italiana; 2. tale conflitto della legge positiva dello Stato con la giustizia oggettiva sarebbe di tale profondità e insanabilità, che i cittadini non possono neppure essere ammessi a pronunciarsi sulla opportunità del ripristino nel nostro sistema della verità naturale e cristiana, cacciata dall’ordinamento giuridico con la «legge» n. 194/1978, e già accantonata con la sentenza n. 27 del 1975 della stessa Corte costituzionale: tanto fondamentale, dunque, sarebbe la libertà d’aborto, che la intentio di ripristinare il diritto alla vita nel sistema non sarebbe neppure degna di essere proposta come tesi normativamente vincolante.
Corollario della dolorosa situazione determinatasi, è la constatazione che, in una domenica della prossima primavera, i cattolici saranno chiamati a pronunciarsi su una serie di proposte, nessuna delle quali è conforme ai principi fondamentali del diritto naturale e cristiano.
Trascuro qui di esaminare il grave quesito morale che si pone sin d’ora alla coscienza d’ognuno, nonché alla sollecitudine pastorale dei vescovi d’Italia: se, cioè, sia lecito compiere un atto oggettivamente e intrinsecamente cattivo per evitare un effetto parimenti malvagio, anche se quantitativamente più esteso (1).
Interessa soltanto, in questa sede, mettere in luce fin da subito – in attesa di conoscere la motivazione della decisione della Corte – la svolta di civiltà e di regime giuridico che la sentenza appena emanata fa compiere alla nostra nazione.
Vale soffermarsi, per il momento, su tre punti fondamentali: anzitutto conviene esaminare il significato della decisione della Corte nel quadro della lotta tra la Rivoluzione e la Contro-Rivoluzione; in secondo luogo, verificare la corrispondenza del nostro sistema giuridico ai principi di democrazia formale che si dice reggano il nostro Stato; in terzo luogo, mettere in luce – come causa dell’odierno avvenimento – le responsabilità dei promotori della duplice proposta referendaria, «massimale» e «minimale», nonché dei vescovi italiani, che – nonostante i motivati appelli e le preghiere loro rivolte – hanno appoggiato e sostenuto la contemporanea presentazione di una duplice proposta di referendum.
1. Quanto al primo punto, va detto che la decisione della Corte costituzionale – già di per sé intrinsecamente contraddittoria per la contemporanea dichiarazione di ammissibilità nei confronti della richiesta di referendum radicale – sanziona il principio secondo cui, di tutti i regimi giuridici, astrattamente immaginabili, relativi alla vita del concepito, l’unico contrastante irrimediabilmente con la Costituzione sarebbe quello che appresta alla vita prenatale una tutela integrale, con il solo limite della sussistenza di un pericolo attuale per la vita della gestante (art. 54 c. p.); anche se, chiaramente, tale limite, che può scusare giuridicamente la madre e chi con essa abbia cooperato all’atto, non può comunque giustificare moralmente il fatto.
Esisterebbe cioè – secondo l’interpretazione della Corte, pronunciata in spregio dell’art. 75 della Costituzione (2) – una sorta di norma a livello costituzionale (e, quindi, di rilievo essenziale nel definire i valori tutelati e tutelabili dall’ordinamento), che positivamente vieterebbe al legislatore ordinario di apprestare al nascituro la tutela che spetta a ogni persona umana (3).
L’abnormità del principio affermato si manifesta appieno solo che si pensi al fatto che, in seguito a tale decisione della Corte, mentre sarebbe perfettamente conforme alla Costituzione la legislazione attuale – o altra eventualmente ancora peggiore – che non tutela in alcun modo la vita del concepito e promuove con copiosi finanziamenti la diffusione dell’aborto, sarebbe al contrario incompatibile con la Costituzione una legislazione che rispettasse appieno il comandamento del «non ammazzare».
L’aborto, in altri termini, sarebbe materia costituzionalmente vincolata, così che si porrebbe al di fuori dell’ordinamento chi volesse operare efficacemente per la sua abrogazione.
Ecco perché la sentenza della Corte, che qui si commenta, contrassegna veramente, al di là delle manipolazioni politiche che ne hanno scandito i tempi di formazione (4), una reale e significativa svolta di civiltà: svolta che va definita come il passaggio dalle condizioni di «libertà» liberale, in cui il popolo avrebbe il diritto di darsi i principi e i valori che meglio ritiene corrispondere alla verità, oppure ai propri bisogni, esigenze o desideri, alla condizione di illibertà istituzionale dei regimi ateistici, in cui al popolo è consentito un arco di scelte limitato dalla intangibilità e immodificabilità della espulsione di Dio e della sua legge dall’ordinamento giuridico.
Questo – e non altro – significa l’affermazione secondo cui la richiesta di referendum «massimale» – volta cioè, al ripristino della tutela della vita del concepito – sarebbe inammissibile, per contrasto con la Costituzione.
Nel quadro della lotta, tra la Rivoluzione e la Contro-Rivoluzione, la sentenza in questione esprime il prevalere, al livello delle istituzioni giuridiche, della dimensione aggressiva della Rivoluzione, che impone positivamente il male, erigendolo a modello sociale vincolante, e il definitivo tramonto della fase liberale o negativa della Rivoluzione, che vorrebbe porre bene e male in condizione di perfetta uguaglianza, lasciando a ciascun individuo la scelta che più gli aggrada.
2. Quanto al secondo punto, va sottolineato che, con la decisione del 4 febbraio, si è affermato il principio, contrastante in modo totale con il primato della legge sul giudice, secondo cui qualsiasi sentenza della Corte, in una qualsiasi materia, avrebbe come esito quello di produrre una norma di rango costituzionale.
L’interpretazione, infatti, che la Corte fornisce di un determinato articolo della Costituzione, in un contesto di rilevanza rappresentato dall’incrocio di una norma di legislazione ordinaria con un caso concreto, eleverebbe, al rango di norma costituzionale (e, quindi, pressoché immodificabile nel nostro ordinamento, se si pensa al complesso meccanismo di chiusura di cui all’art. 138 comma 1 e 2 della Costituzione) il principio di diritto così formulato; così che neppure attraverso l’istituto del referendum abrogativo sarebbe estirpabile dall’ordinamento l’effetto di una eventuale interpretazione, compiuta contro lo stesso dettato costituzionale, dalla maggioranza casualmente formatasi all’interno della Corte in un determinato momento storico, magari sotto l’influenza delle più cogenti pressioni politiche.
Contro simili conseguenze aberranti, va ribadito che la Corte costituzionale è stata voluta come giudice delle leggi, e non può sostituirsi né al legislatore ordinario, né – tanto meno – al legislatore costituzionale.
L’interpretazione che la Corte, in un determinato momento storico e con una determinata composizione (composizione che è ampiamente inquinata dai criteri partitici di un certo numero di nomine), ha dato di una legge statale, deve rimanere l’interpretazione autentica della norma costituzionale, ma soltanto fino a prova del contrario, ossia fino a che non sia data la prova che tale interpretazione è contraria ai principi costituzionali.
Se si pensa, infatti, al carattere generico, o vago e incerto di molte statuizioni costituzionali, e, soprattutto, alla ambiguità essenziale di molte tra esse, che sono suscettibili di una duplicità, o pluralità, di interpretazioni, a seconda del modello prescelto di uomo e di società, si comprende la pericolosità della svolta impressa al nostro ordinamento giuridico dalla sentenza della Corte del 4-2-1981: con essa si pongono le premesse, per la creazione, al di sopra del parlamento e della stessa legge costituzionale e ordinaria, di un organo il cui compito funzionale sarebbe la creazione di legislazione costituzionale, immodificabile se non con il procedimento complesso di revisione costituzionale, di cui all’art. 138 della Costituzione.
Come, da un punto di vista sostanziale, la decisione della Corte significa che sarebbe legittima rispetto alla Costituzione ogni norma dispositiva della vita del concepito, al di fuori della norma che ne tutela il diritto primario, inalienabile e imprescrittibile all’esistenza, così, da un punto di vista formale, la decisione della Corte significa che il potere legislativo non sarebbe più disponibile da parte del popolo – criterio, questo, espressivo del regime asseritamente democratico fondato sulla Costituzione – bensì sarebbe accentrato nelle decisioni che via via la Corte costituzionale assume a proposito della costituzionalità delle leggi vigenti: con la evidente conseguenza che un potere oligarchico, quale quello rappresentato dai giudici di Palazzo della Consulta, si arrogherebbe la titolarità di un potere costituente a carattere permanente e continuativo.
Se poi si considera, in concreto, la labilità dei riferimenti normativi costituzionali su cui la Corte ha costruito la sentenza n. 27 del 1975, che dichiarava incostituzionale le norma di cui all’art. 546 c. p. – «La Repubblica […] protegge la maternità» (art. 31 comma 2 Cost.); e «La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività […]» (art. 32 comma 1 Cost.) -, ci si rende conto del carattere di «arbitrarietà» della interpretazione della Corte, nonché della componente «ideologica» e «politica» che certamente concorse a determinare l’emissione di quella sentenza.
Rimedio di tale «arbitrarietà», nonché dell’errore della Corte, giudice delle leggi, è costituito dalla riformabilità delle sentenze della Corte, attraverso l’esercizio normale del potere legislativo, oppure attraverso l’istituto dell’abrogazione referendaria.
Sostenere, al contrario, che una certa interpretazione della Corte viene a configurare l’esistenza di una nuova legge costituzionale, irriformabile se non con il meccanismo di cui all’art. 138 della Costituzione, significa attuare, per via apparentemente legale, un vero e proprio rovesciamento costituzionale, collocando al disopra degli altri organi dello Stato un potere costituente permanente e assolutamente incontrollabile.
Per questo, senza tema di esagerazione, va affermato che la decisione in questione rappresenta ed esprime un vero e proprio cambiamento nella forma di Stato.
3. Quanto al terzo punto, sostengo che la presentazione, da parte del Movimento per la Vita, delle due distinte proposte di referendum abrogativo, ha costituito la causa determinante della dichiarazione di inammissibilità della proposta «massimale» – come contrastante con la Costituzione – da parte della Corte costituzionale (5).
Infatti, le decisioni della Corte non sono il frutto sofisticato della più pura speculazione giuridica, bensì il portato limaccioso dell’assestamento – in termini di rapporto di forza – delle più diverse pressioni ideologiche, politiche e giuridiche.
Ora, in una situazione siffatta, certamente non ignota ai promotori dei referendum del Movimento per la Vita, era necessario che una consistente forza propagandistica – sostanziata di motivazioni morali, sociali e giuridiche – sostenesse, davanti alla Corte, le ragioni del referendum «massimale».
Al contrario, l’operazione di contemporanea presentazione di due proposte, giuridicamente alternative, ma sostanzialmente prospettate come entrambe accettabili – l’una «massimale», l’altra «minimale» – era destinata oggettivamente a indebolire o, addirittura, a rendere impossibile, da parte del «massimale», il superamento dello scoglio costituito dal giudizio di ammissibilità ex art. 75 della Costituzione.
E ciò non per cogenti ragioni di carattere giuridico, come dimostra la contemporanea dichiarazione di ammissibilità della proposta di referendum radicale (6), ma per l’abbandono di fatto in cui è stata lasciata la proposta «massimale».
Il «massimale», in realtà, è venuto oggettivamente a svolgere due distinte operazioni di «copertura»: la prima, di fronte alle autorità ecclesiastiche e ai sottoscrittori delle proposte referendarie, di fronte ai quali era conveniente presentarsi come integrali sostenitori del diritto alla vita, fin dal concepimento, senza alcun cedimento. La seconda, di fronte alla Corte costituzionale, come offerta machiavellica di una merce di scambio (il «massimale» da sacrificare) per ottenere la contemporanea cancellazione, per analogo motivo di «incostituzionalità», della proposta radicale. Così che, dalla decisione della Corte, avrebbe dovuto uscire – di contro agli «opposti estremismi», rispettivamente individuati, si badi, nella verità (pur non integrale) e nell’errore definibile per diametrum rispetto a essa – la sola dichiarazione di ammissibilità del referendum «minimale», espressione della presunta «ragionevolezza» e «volontà di dialogo» di tutte le persone «moderate», esorcizzando così, anticipatamente, il rischio di essere accusati come coloro che fossero intenzionati a intraprendere, sul tema del diritto alla vita, la tanto aborrita «crociata».
Dunque, mentre – secondo la logica enunciata dal Movimento per la Vita – sarebbe stato necessario sostenere, con la massima energia politica e giuridica, di fronte alla Corte, la proposta di referendum «massimale», la si offriva invece anticipatamente come merce di scambio da sacrificare in vista della contemporanea eliminazione della proposta radicale.
In particolare, in questa prospettiva di sedicente «realismo», ma, in realtà, di machiavellismo: a. si prospettava, sin dall’inizio, come ragione della presentazione di una duplice proposta di referendum, la eventualità della «incostituzionalità» della legge sgorgante dalla approvazione da parte del corpo elettorale della proposta «massimale». In questo modo sì ammetteva, in radice, ciò che non si sarebbe mai dovuto ammettere, e cioè: in primo luogo, la eventualità che la carta fondamentale della nostra nazione consideri fuori legge la verità naturale e cristiana sulla integrale tutela della vita del concepito; in secondo luogo, la eventualità che la Corte potesse compiere l’operazione – veramente contra ius, e ius costituzionale – di sostituire il giudizio di ammissibilità, che le è affidato ai sensi dell’art. 75 della Costituzione con il giudizio dì costituzionalità, che le spetta ai sensi dell’art. 134, comma 1 della Costituzione stessa;
b. ammettendosi il dubbio – da parte stessa dei cattolici – circa la compatibilità della verità con la Costituzione dello Stato, si manifestava la disponibilità al cedimento, e si sollecitava l’impegno anticipato per l’approvazione di una proposta abortista (il «minimale») che, pur diminuendo astrattamente il numero degli aborti «legittimi» rispetto alla «legge» 194/1978: sanziona integralmente il principio della «legittimità» dell’aborto latamente terapeutico; impone il sostegno finanziario dello Stato e degli enti pubblici a favore dell’aborto; e non configura alcun efficace strumento a limitare, in concreto, neppure il numero degli aborti «legalmente» praticati.
Nella prassi giudiziaria le parti presentano, ordinate con il criterio dal «più» al «meno», le loro varie domande al giudice: e, spesso, la domanda a contenuto più ampio, assorbente tutte le altre (di qui il termine «massimale»), viene consapevolmente e deliberatamente presentata come un ballon d’essai per meglio sostenere la domanda o le domande denominate in gergo «subordinate».
Talora, poi, gli argomenti con cui le «subordinate» vengono sostenute – cui, certamente le parti puntano -, si fanno forza proprio della asserita debolezza degli argomenti che sosterrebbero le «principali».
Nel caso in questione, la forza del «minimale», che si asseriva in tesi contrario alle proprie più intime e profonde convinzioni, risiedeva esclusivamente nella implicita convinzione della inaccoglibilità giuridica del cosiddetto «massimale»: poiché, evidentemente, non si sarebbe accettata la eventualità della presentazione di ciò che si asseriva ripugnante con le proprie convinzioni morali, se non si fosse stati convinti della inaccettabilità della proposta di cui ci si dichiarava moralmente certi;
c. si accreditava a più riprese, da parte di autorevoli rappresentanti del Movimento per la Vita, in scritti giornalistici nonché in memorie giuridiche, la tesi secondo cui la Corte costituzionale avrebbe potuto, o dovuto, in sede di giudizio di ammissibilità, compiere un giudizio sul merito della «costituzionalità» della legge risultante dall’eventuale vittorioso esito del procedimento abrogativo (7).
In particolare, si sosteneva la tesi secondo cui la Corte avrebbe dovuto dichiarare inammissibile, per contrarietà alla Costituzione, la proposta di referendum radicale, perché essa sarebbe stata in contrasto con i principi affermati dalla Corte costituzione nella sentenza 27/75, secondo i quali gli articoli 2 e 31 della Costituzione imporrebbero l’obbligo al legislatore ordinario di dare una adeguata tutela al figlio concepito (8).
Ma, con questo tipo di argomentazione, non si dichiarava implicitamente che la Corte avrebbe dovuto dichiarare inammissibile la proposta di referendum «massimale»? Non ci si rendeva conto di ciò, oppure era proprio questo il risultato che si voleva conseguire, nella convinzione che sarebbe stato comodo, per la buona riuscita del «minimale», il sacrificio del «massimale»?;
d. infine, sul piano strettamente giuridico, si aggrovigliava in, modo inestricabile la questione dell’ammissibilità dei referendum, come è comprovato dalla complessa ordinanza pronunciata in data 15 dicembre 1980 dalla Corte Suprema di Cassazione – Ufficio Centrale per il Referendum. Di qui, la esigenza di «sfoltimento» delle proposte referendarie, anche allo scopo di rendere comprensibile al cittadino il quesito sottopostogli attraverso lo strumento della scheda elettorale: ed era inevitabile che, nella logica «politica» adottata dalla Corte, si volesse attribuire uno spazio assolutamente identico a ciascuna delle parti (radicale e «cattolica») che avevano presentato proposte di referendum abrogativo.
In realtà, l’unica forza a disposizione, per sistemare la battaglia contro l’aborto, sarebbe stata una propaganda intransigente che avesse dato spazio e rilievo alla voce dei milioni di persone che avevano firmato la proposta di abrogazione della «legge» n. 194/1978 nella convinzione interiore di combattere contro l’aborto.
Ciò non è stato fatto: al contrario, si è suggerito a una Corte – che, dopo avere dichiarato la prevalenza della «salute» sulla vita, aveva atteso quasi due anni prima di dichiarare «irrilevante» la questione della mancanza di tutela del concepito – di non ammettere per «incostituzionalità» una proposta di referendum (quello radicale), allegando a giustificazione di ciò la stessa ragione che si sarebbe potuta ritorcere contro la propria stessa proposta «massimale».
Con quale spirito di responsabilità si è potuto presentare a una Corte di questo genere una duplicità di proposte abrogative, come provenienti dalla stessa fonte, così che ne emergesse – ex parte proponentis – una sostanziale indifferenza per l’una o per l’altra?
In realtà, i capitani hanno disarmato i combattenti prima di iniziare la battaglia, per meglio farli sconfiggere dall’avversario e far ricadere la colpa della sconfitta sulla brutalità di quest’ultimo. L’inganno è palese. Il tradimento mostruoso.
D’altra parte, come più volte è stato documentato (9), l’abbandono giuridico in cui è stata lasciata, dai promotori stessi, la proposta «massimale», non è altro che l’effetto di una disponibilità al cedimento e al compromesso nella tutela del diritto alla vita.
Questa volta, però, gli effetti del cedimento e del compromesso travalicano di gran lunga le responsabilità individuali e configurano una sconfitta storica per la cristianità italiana. Infatti, le forze rivoluzionarie hanno ottenuto contemporaneamente, con la decisione del 4 febbraio 1981, due risultati di grande prestigio e rilievo strutturale: anzitutto, quello di far dichiarare ufficialmente la incostituzionalità della legge di Dio, nel tentativo di cancellare una volta per tutte e per sempre ogni traccia legislativa della tutela integrale del diritto alla vita; in secondo luogo, quello di far sì che siano ora i cattolici stessi a propagandare l’aborto e a causare direttamente la sua vigenza legislativa.
In questa situazione, contro le vittorie storiche dei settari della Rivoluzione e i tradimenti dei «cattolici», vale sempre più alimentare la nostra speranza soprannaturale nella promessa della Vergine santissima a Fátima: «Infine, il mio cuore immacolato trionferà».
Mauro Ronco
Note:
(1) Cfr. DARIO COMPOSTA S. D. B., «Si deve rifiutare il sostegno alle due proposte referendarie del MpV», in Cristianità, anno VIII, n. 64-65, agosto-settembre 1980.
(2) Per la dimostrazione cfr. CARLO ALBERTO AGNOLI, FRANCESCO MARIO AGNOLI, MAURO RONCO, Infondatezza di sofismi e obiezioni avanzati a difesa della duplice iniziativa referendaria del MpV, ibid.
(3) Secondo l’aberrante principio formulato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 27 del 18 febbraio 1975, secondo cui l’«embrione» non è persona, perché «persona deve ancora diventare» (in Giurisprudenza Costituzionale, 1975, I, p. 120).
(4) Per cenni, cfr. ANTONIO PADELLARO, Dietro il top-secret dell’Alta Corte affiorano polemiche e spaccature, in Il Corriere della Sera, 6 febbraio 1981.
(5) Per l’affermazione che la duplicità di proposte referendarie sarebbe il frutto invece di un prudente «realismo» cfr. PIER GIORGIO LIVERANI, A chi fa comodo questa sentenza? in Avvenire, 5 febbraio 1981. Per la contestazione della tesi, v. infra nel testo.
(6) Invero, la proposta radicale – così come la «legge» attualmente vigente – contrasta in modo totale con l’assunto, contenuto nella sentenza della Corte n. 27 del 1975, secondo cui sarebbe «obbligo del legislatore predisporre le cautele necessarie per impedire che l’aborto venga procurato senza serii accertamenti sulla realtà e gravità del danno o pericolo che potrebbe derivare alla madre dal proseguire della gestazione», in Giurisprudenza Costituzionale, cit., p. 120.
(7) Così CARLO CASINI, Quale referendum inammissibile sull’aborto, in Il Popolo, 13 dicembre 1980.
(8) C. CASINI, art. cit.
(9) Cfr. La questione del «referendum» antiabortista, in Cristianità, anno VIII, n. 64-65, agosto-settembre 1980, cit.