Stanislav Evgrafovič Petrov. Praticamente nessuno sa chi è. È morto di polmonite ipostatica il 19 maggio, a 78 anni, nel piccolo villaggio di Frjazino, vicino a Mosca, senza che nessuno se ne accorgesse. Tant’è che la notizia della sua scomparsa si è diffusa addirittura tre mesi dopo, quando, racconta Fabrizio Dragosei sul Corriere della Sera, lo si è cercato per intervistarlo. Ma nemmeno quel po’ di articoli usciti a fine settembre ne hanno fatto una celebrità. Eppure lo è, se mai “celebrità” fosse il termine adatto a descriverlo. Stanislav Evgrafovič Petrov è infatti l’uomo che ha salvato il mondo.
Era il 26 settembre 1983. Il globo era spaccato in due da quella strana cosa che chiamiamo “equilibrio del terrore”, colmo sino all’orlo che ogni momento poteva essere quello buono per far traboccare il vaso con la fatidica, minuscola eppure gigantesca goccia di troppo. Rievocare oggi quei tempi, che nell’economia della storia sono dietro l’angolo, sembra di parlare delle guerre puniche. Paiono tempi remoti, ricordi vaghi e per le giovani generazioni cose sperdute, viste al massimo attraverso le lenti di qualche film d’azione proprio come la generazione precedente guardava, con aria un po’ allocca, quelli su quella Seconda guerra mondiale che invece per i loro padri era stata sangue, sudore e lacrime. Da un parte stava l’impero totalitario socialcomunista cresciuto come una malapianta sull’Unione Sovietica e dall’altra il cosiddetto “mondo libero”: “cosiddetto” perché spesso quel mondo si dimenticava il significato vero della parola “libertà”, avvitandosi in una caricatura di essa asfittica e contradditoria. Epperò quello il mondo non comunista era, e così, dopo le giuste, persino doverose lamentele, è sempre meglio ringraziare il Cielo di avere vissuto “di qua” e non “di là”.
Dunque quel 26 settembre, nel bunker Serpuchov-15, nei pressi di Mosca, l’ufficiale di servizio era il tenente colonnello dell’Armata Rossa Petrov. Monitorava, come di consueto, il sistema satellitare di difesa sovietico, nome in codice OKO, che teneva sotto osservazione costante il nemico, gli Stati Uniti, e soprattutto il loro sistema missilistico. Compito delicatissimo, cruciale, decisivo, ma che per il tenente colonnello Petrov era tutto sommato routine. Procedure mandate a memoria, gesti meccanici sempre uguali da chissà quanto tempo, bottoni, spie, relè e monitor da controllare, l’ennesima sigaretta accesa per noia sotto i suoi baffoni russi come si vede in tanti film di Hollywood (chissà poi se andava davvero così). Ogni dì sempre uguale, ogni notte sempre lo stesso. Ora, Petrov aveva in mano il mondo. Qualora qualcosa avesse fatto eccezione a quella monotonia del terrore che aveva congelato la storia in due metà contrapposte, se mai qualche allarme avesse preso improvvisamente a ululare nel tran tran glaciale e spaventoso della Guerra fredda, lui avrebbe dovuto schiacciare il bottone rosso. Proprio così: se gli Stati Uniti, per chissà quale motivo avessero deciso d’un tratto d’interrompere lo stallo surreale di quella pace armata e apatica, lanciando missili sull’Unione Sovietica o su uno dei regimi fratelli del Patto di Varsavia, il tenente colonnello Petrov non aveva l’ordine di far scattare le sirene, ma di passare senz’altro al contrattacco. Spedire cioè in aria altri missili di risposta, più missili del nemico, infinitamente di più, per azzerare, annientare, annichilire, per bombardare al tappeto il nemico, asfaltarlo, poi gettarci sopra il sale come a Cartagine. Sia l’Est sia l’Ovest sapevano benissimo tutti che la somma sarebbe stata zero, che nessuno avrebbe vinto, che avrebbero perso tutti, che sarebbero morti tutti o quasi, ma il gesto non si doveva lasciare impunito. Muoia Sansone con tutti i filistei, l’Unione Sovietica avrebbe ridotto gli Stati Uniti a una topaia fumante di macerie se solo questi avessero dato fuoco alle polveri. Tanto peggio, tanto meglio. La rivoluzione proletaria meritava questo e altro sacrificio.
Già, la rivoluzione.
Quest’anno corrono 100 anni esatti dall’inizio della madre di tutte le rivoluzioni comuniste, quella cosiddetta di ottobre consumatasi in Russia nel sangue, nell’angoscia, nel lutto. Una rivoluzione perversa capace di generare mille figli ancora più caineschi e assassini, una rivoluzione costata almeno 100 milioni di morti e sofferenze non ancora davvero sanate nella misura in cui con quel passato non hanno ancora fatto tutti bene i conti una volta per tutte. 100 milioni di morti. Almeno. Perdiamo la testa se solo pensiamo di mettere in fila, l’uno dopo l’altro, con pazienza, 1000, anche solo 500, anche solo 100 bastoncini colorati dello Shangai. Immaginiamo dunque se davanti ai nostri occhi sfilasse lugubre il corteo di 100 milioni di persone uniche e irripetibili, uomini, donne e bambini ammazzati dal socialcomunismo nel mondo in 72 anni… Diciamo 72 perché fissiamo il timer a quel 1989 in cui venne finalmente abbattuto il Muro della vergona di Berlino, simbolo della spaccatura del mondo e dell’odio comunista, l’unico muro della storia eretto non per impedire che qualcuno entrasse dall’esterno, ma per costringere chi stava dentro a restarci, soffrirci e morirci. In realtà, la data giusta sarebbe infatti il 1991, allorché crollò definitivamente l’Unione Sovietica, la casa madre del comunismo mondiale. Ciononostante il comunismo non è morto: sopravvive nel neo-post-comunismo cinese (1 miliardo e quasi 400 milioni di persone), nel revanchismo vetero della Corea del Nord e in mille “residuati bellici” che per evitare la conversione sopravvivono a se stessi nel limbo analogamente anche se diversamente neo-post-comunista dell’agonia permanente: Cuba, per esempio, o il Vietnam, o altri luoghi così, per non parlare dei ritardatari cronici come il Venezuela.
Chissà cosa pensava davvero il tenente colonnello Petrov della rivoluzione, del comunismo. A tanti anni dal 1917 bolscevico, dopo decenni in cui l’abitudine aveva sostituito la passione, chissà cosa ne pensava.
Nato il 7 settembre 1939, una settimana dopo l’inizio della Seconda guerra mondiale, il tenente colonnello Petrov il 1917 rosso non lo aveva visto; certamente però di quei giorni che sconvolsero il mondo era stato allevato nel mito, insegnato e cacciato in gola dal regime, dalla propaganda, dalle sue menzogne. Il tenente colonnello Petrov era però un militare di carriera. Anche nell’Armata Rossa per uomini come lui le priorità e le fedeltà sono diverse da quelle delle guardie rosse. C’è un quid diverso, chissà se in più o in meno, ma comunque diverso in un militare addestrato, educato, alla fedeltà, all’obbedienza, all’abnegazione, persino all’onore. All’ideale, qualunque esso sia: un ideale che non annulla la coscienza, ma che come si aggiusti con essa, marcando le rispettive linee di influenza e semmai le intersezioni di confine, è una cosa difficile da scoprire, una cosa che appartiene al mistero uomo, e non alla parte peggiore di esso.
Quel 26 settembre 1983 il tenente colonnello Petrov era pronto a distruggere il mondo certamente più perché quelli erano gli ordini ricevuti che per la causa bolscevica. Quel 26 settembre venne sera e poi sopraggiunse la notte. La turnazione quella volta aveva decretato così. Il tenente colonnello Petrov era al posto, come sempre, immancabilmente. Preciso, ligio. 15 minuti dopo la mezzanotte battuta sull’orologio di Mosca accadde quello a cui nessuno aveva mai davvero creduto. L’allarme del sistema satellitare scattò. Era in arrivo un missile, un missile statunitense. Puntato sull’Unione Sovietica. La reazione capitalista aveva rotto gl’indugi, votando la Terra all’olocausto totale. Il missile era partito dalla base di Malmstrom, in Montana. Guadagnava miglia con una rapidità angosciante, la sua cuspide impassibile puntata sul suolo russo, il suo carico di morte voglioso di strage. Secondi lunghi come secoli, attimi di sudore che imperlano la fronte, istanti di dita che corrono velocemente lente al pulsante del contro-attacco… pronte a rispondere… pronte ad annichilire il mondo…. pronte…. no, si fermano.
Quel 26 settembre 1983 il tenente colonnello Petrov il pulsante del destino non lo schiacciò. Riteneva impossibile che la grande potenza statunitense potesse sferrare l’attacco missilistico. Si fidò di qualcosa che gli parlava dentro, non dei pur sofisticati sistemi di rilevamento. Il sistema però insisteva. Passò qualche minuto eterno e il satellite segnalò per ben altre quattro volte l’allarme totale, il pericolo imminente. Non uno, ma cinque missili erano partiti da Malstrom, e divoravano miglia bramosi dell’appuntamento con il caos. Oramai erano vicinissimi. Forse non ci sarebbe nemmeno stato il tempo materiale per far levare in volo le contromisure. Si doveva rispondere. Petrov lo pensò, sicuramente, almeno per un attimo. E poi applicò quel suo tanto in più umano che le macchine non hanno. Forse qualcosa che aveva letto su un buon vecchio libri di tecnica militare, o sentito nel consiglio di un superiore, il ricordo dell’esperienza sua e di altri, le valutazioni umane talvolta troppo umane eppure spessissimo benedettamente umane. Non schiacciò insomma il pulsante. Cinque missili atomici? Poco per l’arsenale statunitense, pensò; pochissimo per chi ha deciso di farla finita. Doveva trattarsi di un errore.
Il tenente colonnello Petrov aveva ragione. Un errore. Era stato un semplice, banale, gravissimo errore. Avrebbe potuto costare la vita al mondo. Questione di attimi, di percezioni, forse di sensazioni, e in più di quel qualcosa che a un certo punto non ti fa fare la cosa che dovresti, a te militare di carriera obbediente, quella cosa che tutto attorno a te dice essere giusta, e tu pure, ma che in realtà è sbagliata. Sbagliata: senza compromessi, mezze misure, scuse.
Si era trattato di un falso allarme. Una congiunzione astrale, pensa te, come in un fotoromanzo di pendolini, malocchi e tarocchi. Una congiunzione astronomica fra la Terra, il Sole e l’orbita del satellite OKO collegata al recentissimo equinozio autunnale: per effetto di tutto questo si erano verificati certi insistenti riflessi solari su certe nuvole presenti a quote atmosferiche elevate che la macchina aveva scambiato per missili nucleari in arrivo.
Il tenente colonnello Petrov aveva salvato il mondo, ma l’Unione Sovietica andò in bestia. Avrebbe dovuto premere quel maledetto bottone, altro che: la causa della rivoluzione esigeva anche quell’errore definitivo. Sembra una barzelletta, ma è andata esattamente così. L’unico a essere silurato davvero fu il tenente colonnello Petrov, pensionato anticipatamente nel 1984. Ufficialmente per altri motivi, ma è come la storia dei despoti del Cremlino assenti alla parata sulla Piazza Rossa ufficialmente per un raffreddore ma che in verità già mandano cattivo odore. Fatto fuori Petrov, calò il silenzio. Dell’incidente si seppe soltanto dieci anni dopo quando il regime era un ricordo triste, l’URSS si era dissolta e adesso la verità libera di tornare a galla.
Confinato, dimenticato, Stanislav Evgrafovič Petrov è l’uomo che ha salvato il mondo. Umanamente parlando, s’intende. Perché la storia fatta solo orizzontalmente tende all’afasia. In termini umani, il crimine rivoluzionario del comunismo resta un grande mistero inspiegabile. Ma il suo mistero s’interseca intimamente con quello di Fatima. A Fatima la Madonna fece una promessa. Se ne discute: molto, talvolta troppo. Alla richiesta della Madonna affinché Ella potesse poi allontanare il male comunista si è ottemperato, si è ottemperato solo in parte, si è ottemperato maldestramente? Resta il fatto che in un istante decisivo che avrebbe potuto spegnere la storia il tenente colonnello Petrov, presumibilmente allevato nell’ateismo sovietico, fece da solo la differenza. Da solo? Qualcosa nel suo cuore fermò la catastrofe. Forse perché il mondo aveva ancora bisogno di tempo, forse perché noi abbiamo ancora bisogno di tempo, forse perché il Cielo ha concesso agli uomini tempo supplementare, come Papa san Giovanni Paolo II disse esattamente a Fatima per sé: la Madonna gli aveva concesso tempo supplementare, per un compito.
Il 26 settembre 1983 non era il tempo. Ricordando il tenente colonnello Petrov con una preghiera, e con lui, con altre preghiere, gli almeno cento milioni di vittime del comunismo, vale la pena di ringraziare del tempo supplementare concesso e rimboccarsi le maniche. Per esempio per iniziare a contribuire a riparare, che è un modo per costruire.
Marco Respinti