MARCO ALBERA, Cristianità n. 261-262 (1997)
Nell’immaginario collettivo all’idea di Rivoluzione francese non a caso si associa la visione truculenta della ghigliottina, così come a Napoleone Bonaparte (1769-1821) corrisponde con immediatezza il ricordo delle sue incessanti campagne di guerra, che sconvolsero l’Europa per oltre un ventennio, con cinque milioni di morti, travolgendo nazioni e regimi. Ma la rivoluzione d’oltralpe e il suo “fulmine di guerra” meriterebbero di essere associati anche a un’altra immagine, quella di rapinatori d’arte, dovuta alle sistematiche spoliazioni delle nazioni vinte che venivano deliberatamente umiliate nel loro patrimonio artistico-devozionale, strappato ai luoghi di culto profanati, e negli oggetti asportati dalle collezioni private delle famiglie nobili dell’Ancien Régime. Ne fornisce prova documentata l’opera — anche se datata e criticabile per la superficialità del giudizio politico — dello studioso tedesco Paul Wescher (1896-1974) pubblicata nel 1976 in Germania e in Italia nel 1988 con il titolo suggestivo I furti d’arte. Napoleone e la nascita del Louvre (1), che — unica nel suo genere — offre i termini, anche quantitativi, della più colossale trasmigrazione di patrimonio artistico verso l’unico centro di Parigi, secondo una pianificazione, quasi rituale, che ha il suo stratega nel barone Dominique Vivant Denon (1747-1825), consulente-ombra dell’imperatore per oltre un ventennio.
La grande Rivoluzione, dopo le prime intemperanze e qualche inevitabile distruzione, si rende conto ben presto di poter sfruttare ideologicamente il patrimonio artistico della nazione, promuovendo da un lato la nascita di pubblici musei e dall’altra sviluppando un fiorente e redditizio mercato antiquario. Diviene presto celebre l’affermazione dell’abbè Henri Baptiste Grégoire (1750-1831): “I Barbari e gli schiavi devastano i monumenti artistici, mentre gli uomini liberi li amano e li conservano” (p. 29).
La nazionalizzazione delle opere d’arte imponeva dunque la loro conservazione e disponibilità. Per questo motivo nel 1795 il Palazzo del Louvre viene destinato a sede del Musée des Monuments Français e le prime opere sono tratte dalle collezioni reali dei Borboni, da quelle del conte d’Angeviller, ultimo intendente reale, della ghigliottinata marchesa di Noailles, del duca di Richelieu e dell’emigrato duca di Penthièvre, oltreché da fondi ecclesiastici. Per comprendere l’operato della Rivoluzione francese nel settore del collezionismo d’arte merita di essere notato che “[…] tutte le collezioni principesche formatesi per lo più nel corso del ’700 […] furono il risultato di una serie di acquisti. Nonostante le numerose guerre nessun principe pensava […] ad arricchire le sue raccolte d’arte col bottino di guerra. Questo stato di cose durò immutato fino alla cacciata dei gesuiti e alla confisca dei loro beni, alla successiva chiusura dei conventi olandesi ordinata dall’imperatore Giuseppe II e all’inizio della Rivoluzione francese” (p. 19).
Torno all’opera della Rivoluzione francese. Il patrimonio iniziale del Musée des Monuments Français si arricchisce straordinariamente grazie alla prima campagna di guerra nei Paesi Bassi, nel 1794-1795, con oltre 200 capolavori della pittura fiamminga, fra i quali ben 55 di Pieter Paul Rubens (1577-1640) e 18 di Rembrandt Harmenszoon van Rijn (1606-1669)! La svolta che consacra la pratica della spoliazione del patrimonio artistico fra gli scopi stessi della guerra rivoluzionaria avviene con Napoleone Bonaparte e la Campagna d’Italia del 1796: “[…] Napoleone capì subito quale valore, in termini di prestigio e di propaganda, potevano avere le arti e le scienze per un regime politico, e in particolare per un regime “illegittimo” in quanto rivoluzionario” (p. 56). “Le “conquiste” artistiche seguirono così di pari passo quelle militari. E per dare a questi espropri una parvenza di legalità, Napoleone escogitò […] il sistema geniale di includere le opere d’arte tra le clausole dei trattati di pace e di farle rientrare addirittura tra i contributi di guerra.
“Già il primo maggio 1796, dopo la firma dell’armistizio di Cherasco con il re di Sardegna e durante i preparativi per la successiva campagna contro gli austriaci, Napoleone scrisse dal suo quartier generale di Acqui al plenipotenziario Faypoult, di stanza a Genova, di procurargli un elenco dei principali gabinetti artistici e delle principali gallerie dell’Italia del Nord” (p. 57).
Nell’agosto dello stesso anno Napoleone scriveva al Direttorio che 110 grandi capolavori erano sulla strada di Parigi, 25 da Milano, 15 da Parma, 30 da Modena e 40 da Bologna, cui seguivano un’infinità di altri oggetti di valore. Il solo risarcimento di guerra imposto alla cattedrale di Monza frutta, in fusione di oggetti e vasi liturgici, 11,300 kg d’oro e 184 kg d’argento. Il 22 febbraio successivo Napoleone imponeva allo Stato Pontificio, con il trattato di Tolentino, clausole che sarebbero servite da modello per le conquiste successive, stabilendo espressamente che la nazione francese diventava proprietaria a tutti gli effetti delle opere in questione.
Napoleone così poteva vantarsi con il Direttorio: “La commissione degli esperti [ cioè la commissione per le opere d’arte] ha fatto un buon raccolto a Ravenna, Rimini, Pesaro, Ancona e Perugia. Queste opere verranno subito spedite a Parigi. Con queste, e con quelle che spediremo da Roma, tutto quello che c’è di bello in Italia sarà nostro, a eccezione di alcuni pezzi che si trovano a Torino e a Napoli” (p. 67).
Le insorgenze antigiacobine del 1797 forniscono l’occasione di spietata ritorsione anche nel campo del patrimonio artistico. I rivoluzionari francesi, per vendicarsi delle Pasque Veronesi, abbattono la Serenissima Repubblica di Venezia, che subisce il sacco di moltissimi capolavori e viene specialmente umiliata con la rimozione del leone di bronzo — simbolo della città, che dal Medioevo dominava piazza San Marco — e dei quattro cavalli di bronzo che ornavano la facciata della basilica.
Non a caso il ritorno di Bonaparte dalla Campagna d’Italia viene festeggiato con un solenne banchetto, con 700 invitati, nella Grand Galerie du Louvre ove, per l’occasione, vengono esposti per la prima volta al pubblico gran parte dei quadri fiamminghi e italiani “conquistati sul campo”. I tesori di provenienza dallo Stato Pontificio, nel 1798, suscitano un’attesa tanto straordinaria al loro arrivo a Parigi che il regime sfrutta l’occasione per una perfetta operazione di propaganda. “[…] su suggerimento di Thouin [venne organizzata] […] una grande festa popolare che ricordava insieme le feste rivoluzionarie e i trionfi romani. […]
“Nei giorni 27 e 28 luglio 1798 i parigini poterono così assistere, a bocca aperta, all’ingresso dei “Monuments des Sciences et Arts”. Era un corteo interminabile: guidata dalle due statue colossali del Nilo e del Tevere, provenienti dal Vaticano, la processione si mosse dal Jardin des Plantes costeggiando la Senna fino al Champs de Mars e di qui al Louvre. Il contenuto delle casse era indicato da grosse scritte all’esterno, e tra le statue greche e quelle romane sfilava un manifesto con le parole: “la Grèce les céda, Rome les a perdu / leur sort changea deux fois / il ne changera plus”. I quattro cavalli di bronzo di San Marco non erano imballati, ma, come si vede in una stampa dell’epoca, vennero trasportati con un sistema di piattaforme e di rulli. Con una scenografia decisamente incongrua, i cavalli erano scortati dalle giraffe, dai cammelli e dagli altri animali esotici destinati al giardino zoologico. Furono quindi collocati su piedistalli marmorei all’estremità orientale delle Tuileries e infine, nel 1808, sull’Arc de Triomphe del Caroussel insieme a un carro della vittoria e ad altri accessori moderni. Il leone di bronzo di San Marco fu sistemato su una fontana agli Invalides” (pp. 79-80).
I casi del 1798, con l’esilio dei Savoia dal Piemonte e il ritorno del regime napoleonico dopo Marengo, offrono occasione per la definitiva spoliazione della penisola, completata nel 1801 con l’occupazione del Regno di Napoli e del neutrale Granducato di Toscana. Questa enorme massa di opere viene affidata — per lo studio, il riordinamento e l’esposizione — alle geniali cure del barone Denon, che fin dal 1795 ha l’incarico di ordinatore del Louvre, che più coerentemente cambia nome nel 1803 in Musée Napoléon. Paul Wescher segnala che, fin dal 1802, la miniaturista Maria Hadfield Cosway (2) viene incaricata di “[…] realizzare le incisioni per una grossa opera in-folio sulla Galleria del Louvre, il cui primo volume, dedicato a una parte dei quadri di scuola italiana, fu stampato nello stesso anno 1802. Su queste tavole — dichiara — possiamo farci un’idea di com’erano esposti i quadri nella Grande Galleria” (pp. 93-94). Il barone Denon lavora accanitamente per oltre un ventennio non solo in patria, ma anche al seguito dell’imperatore in sette campagne — a partire da quella d’Egitto fino al 1814 —, pianificando la raccolta del bottino contemporaneamente allo sviluppo delle azioni militari. Fin dal 1800 aveva provveduto al decentramento delle collezioni nazionali con la costituzione di 22 musei nelle città della provincia francese cui erano stati distribuiti, nel solo 1802, 846 dipinti di altissima qualità, che si aggiungono ai frutti delle locali spoliazioni ai danni degli enti ecclesiastici e dei nobili emigrati.
Nel 1806 inizia il sacco dell’area germanica, cui seguono le requisizioni in Spagna — dal 1808 al 1814 — e quelle successive alla conquista di Vienna nel 1809. Infine il barone Denon compie una missione in Italia fra il 1811 e il 1812 con il precipuo scopo di colmare l’ultima lacuna del Musée Napoléon: la mancanza di opere dei primitivi toscani come Duccio di Boninsegna (1255-1318/1319), Cimabue (Cenni di Pepo, 1272-1302) e Giotto (1267?-1337). Va ricordato che tali capolavori erano allora considerati esclusivamente per il loro valore devozionale! Durante il suo rientro in patria gli provoca viva indignazione la resistenza di Andrea Appiani (1754-1817), responsabile della Pinacoteca di Brera a Milano, a cedere alcune opere, frutto anch’esse di rapina, tanto da fargli scrivere al sovrintendente imperiale: “Di che si tratta in realtà? L’imperatore prende dal suo museo di Brera cinque quadri per il suo museo di Parigi, dove cerca di completare la più straordinaria raccolta che sia mai esistita, e che deve in fondo la sua esistenza proprio alle vittorie dell’imperatore. Sua Maestà avrebbe potuto prendere questi quadri senza dover mandare in cambio quelle tre belle opere di scuola fiamminga” (p. 139).
Con la definitiva caduta di Napoleone a seguito della battaglia di Waterloo del 18 giugno 1815, si ritrovano a Parigi, a partire dall’agosto dello stesso anno, i commissari artistici di tutte le nazioni che chiedevano la restituzione o il risarcimento del patrimonio loro sottratto. Le trattative — che vedono impegnato, fra gli altri, anche lo scultore Antonio Canova (1757-1822) per conto dello Stato Pontificio — sono lunghe e difficili e non sempre riescono a ottenere quanto di diritto: secondo i dati forniti da Marie-Louise Blumer, su 506 dipinti di provenienza italiana, ben 248, ossia circa la metà, rimangono in Francia, e buona parte di questi provenivano dagli Stati della Chiesa. “Dopo lunghi indugi le opere d’arte italiane furono finalmente pronte per il rientro, e il 24 ottobre un convoglio di 41 carri con 200 cavalli da tiro partì da Parigi per Milano con una scorta di soldati tedeschi. A Milano il carico fu distribuito e proseguì per le diverse località d’origine: 16 carri si diressero verso i vecchi Stati austriaci, 12 verso Roma, otto verso Torino e così via. […]
“Il 15 novembre il segretario generale Lavallée poté informare il ministro conte Pradel che le operazioni di restituzione erano ultimate, e trasmettergli i relativi inventari. Dei 5233 complessivi, almeno 2000 tra dipinti e sculture antiche potevano annoverarsi, secondo Lavallée, tra le opere di prima qualità” (p. 153).
Fra le conseguenze di tali e tanti rivolgimenti, Paul Wescher osserva acutamente che “quasi vent’anni di ruberie, confische, svendite all’asta, avevano determinato un eccesso di offerta con effetti negativi sulle quotazioni di mercato, effetti destinati a protrarsi anche dopo la fine dell’età napoleonica. Nello stesso tempo, tuttavia, proprio il ribasso dei valori di mercato favorì un aumento della domanda, che grazie anche all’opera di abili mercanti d’arte come Lebrun, Buchanan, Nieuwenhuis, creò le condizioni per un nuovo tipo di collezionismo” (p. 130).
Nasce così anche in Italia il moderno museo, frutto non solo del retaggio napoleonico, ma soprattutto delle sistematiche soppressioni degli enti ecclesiastici susseguitesi per tutto il periodo risorgimentale. Un museo, quello moderno, che è rivoluzionario proprio per la sua caratteristica di mostrare l’arte separata dal suo contesto architettonico, devozionale, celebrativo delle glorie delle antiche famiglie, per diventare esclusiva esibizione di tecnica e ridursi, in definitiva, solo ad arte per l’arte, un’arte il cui fine diventa sempre meno intelligibile. L’ambizione di creare con il Louvre-Musée Napoléon il materiale catalogo di quanto di meglio l’umanità abbia prodotto si risolve nel tentativo di erigere un’ennesima, moderna Torre di Babele. È il peccato d’orgoglio di un’arte che, non volendo più essere al servizio di Dio, finisce per confondere e per disorientare l’uomo. La spoliazione sistematica prodotta dalla Rivoluzione francese ha ragioni profondamente ideologiche, al fine di dimostrare la superiorità della sua pretesa civiltà illuminata dalla ragione, nella contemporanea umiliazione di ogni tradizione sacra e civile delle nazioni sottomesse con la forza.
Marco Albera
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(1) Cfr. Paul Wescher, Kunstraub unter Napoleon, Gebr. Man Urlag, Berlino 1976, trad. it., I furti d’arte. Napoleone e la nascita del Louvre, Einaudi, Torino 1988. Tutte le informazioni sul tema, quando senza riferimento, sono tratte da quest’opera, alle cui pagine si rimanda fra parentesi solamente per le citazioni dirette.
(2) Maria Luisa Caterina Cecilia Cosway, pittrice di miniature, a olio e a pastello, celebre per disegni e incisioni, nasce Hadfield, da genitori inglesi, a Firenze, nel 1759. Nella città toscana cresce e mostra fin dalla giovinezza uno spiccato gusto per il disegno. Nel 1778 viene ammessa all’Accademia di Belle Arti ed è, probabilmente, uno dei più giovani discepoli di questa scuola. Verso il 1779 si reca a Londra, ove conosce il celebre miniaturista Richard Cosway (1742-1821), che sposa due anni più tardi, nel 1781, e da cui ha l’unica figlia, Luisa Paolina Angelica, morta all’età di sei anni. Vivente la figlia, abita a Londra e vi espone. Si notano i suoi inviti alla Royal Academy dal 1781 al 1801. Riproduce miniature del marito e qualche opera del Correggio, e produce qualche illustrazione per la famosa Shakespeare Gallery di Boydell e per i Poets di Macklin. Dopo la morte del marito si trasferisce a Lodi, dove fonda un’opera religiosa. E a Lodi muore nel 1838. Era stata creata baronessa da Francesco I di Borbone, re delle Due Sicilie (1777-1830): per l’attività artistica, cfr. la voce Cosway (Maria-Cécilia-Louisa), in Dictionnaire Critique et Documentaire des Peintres, Sculpteurs, Dessinateurs & Graveurs de tous les temps et des tous les pays par un Groupe d’Écrivains spécialistes Français et Étrangers sous la direction de E. Bénézit avec nombreuses reproductions hors texte d’après les maîtres, tomo primo, R. Roger et F. Chernoviz Éditeurs-Librairie F. de Nobele, Parigi-Bruxelles 1911, pp. 1420-1421; in genere, cfr. Elena Cazzulani e Angelo Stoppa, Maria Hadfield Cosway. Biografia, diari e scritti della fondatrice del Collegio delle Dame Inglesi in Lodi, L’immagine, Orio Litta (Milano) 1989.