don Lucas García Borreguero, Cristianità n. 16 (1976)
Questo scritto di don Lucas García Borreguero, canonico della cattedrale di Segovia, apparso sulla rivista Verbo (Madrid novembre-dicembre 1975, n. 139-140, pp. 1155-1161), con il titolo La raiz del error, en el entendimiento o en la voluntad?, permette di fondare filosoficamente quello che il prof. Plinio Corrêa de Oliveira chiama il passaggio dalla rivoluzione nelle tendenze alla rivoluzione nelle idee. Le idee non nascono casualmente: si generano e si sviluppano in un terreno di pre-concetti, pregiudizi, modi di vivere, tendenze, e questo per l’influenza decisiva sul giudizio intellettivo della volontà, qualificata buona o cattiva dai suoi habitus, dalle sue abitudini, che sono le virtù o i vizi.
Insieme, lo scritto di don Garcia Borreguero taglia alla radice le discussioni, sterili e pericolose, circa l’esistenza di atei “onesti“, la “buona fede” dei nemici della Chiesa, e gli abusi a proposito della distinzione tra l’errante e l’errore.
Il mondo moderno non tollera che gli si parli dei suoi errori; ancora meno tollera che gli si parli dei suoi peccati. Ma, gli piaccia o no, l’errore è un fatto e così pure il peccato.
Fino ad ora abbiamo incolpato del malessere del mondo la filosofia, le sue deviazioni e i suoi errori. E bisogna avere il coraggio di incolpare questa nefasta filosofia in blocco, poiché, nelle sue idee fondamentali, è avvelenata e sta avvelenando tutto ciò che tocca. “La filosofia moderna – dice il padre Klimke nella sua Storia della filosofia – considerata non nelle questioni particolari, ma nel complesso delle soluzioni che offre ai problemi del mondo, dell’uomo e di Dio, è stata un completo fallimento“.
Si è detto ripetutamente che il problema del mondo è una questione metafisica, non solo di metafisica generale, ma anche, come abbiamo visto, di metafisica speciale, dove entrano in gioco il mondo, l’uomo e Dio. Però è giusto concedere alla metafisica, a sua volta, la possibilità di difendersi. È l’uomo che fa metafisica, buona o cattiva che sia; anche se l’uomo non fabbrica la verità, è lui che la va scoprendo e ordinando a poco a poco, dapprima nelle sue linee generali e poi nei suoi aspetti particolari. Con buona pace del pensiero moderno eterodosso, sia esso di segno idealista o volontarista, l’uomo non è l’autore della verità. L’uomo può raggiungere la verità logica, grazie all’adeguazione dell’intelletto alle cose, nelle quali si trova radicalmente la verità; ma può anche assentire al falso, cadere nell’errore.
L’evidenza ci mostra in primo luogo la limitazione del nostro intelletto, gravato da innumerevoli ignoranze. È un fatto innegabile. Ignorare, però, non vuol dire sbagliare: per questa ragione l’intelletto umano, pur con le sue limitazioni, può essere infallibile: e di fatto lo è, purché l’oggetto gli si mostri convenientemente ed esso non sia ostacolato nelle sue funzioni e nelle sue attività. In questo senso, è certa l’affermazione aristotelica secondo cui l’intelletto è sempre retto. Si impone, dunque, questa affermazione: l’intelletto, per sé stesso, non è assolutamente causa dell’errore; quando erra – e l’esperienza ci insegna che l’intelletto erra con deplorevole frequenza, e anche in materie di grande importanza -, la fonte e la causa dei suoi errori sono a esso estrinseche. Perché la mente installi l’errore sul trono della verità, bisogna che questo si presenti a essa in veste di re, travestito da verità, sub specie veritatis; l’intelletto è sempre la facoltà della verità, sia quando questa verità è reale che quando è supposta. Nemmeno le cose sono causa dell’errore: esse sono totalmente veridiche, si identificano con la loro stessa natura, con il loro essere che è sempre veridico.
Se la verità logica è l’adeguazione e la conformità dell’intelletto alla cosa e, nel senso che abbiamo visto, l’intelletto è infallibile e le cose veridiche, come è possibile l’errore? Come è possibile un giudizio nel quale il predicato non convenga al soggetto? Per definizione, esistono cose la cui natura ha una certa complessità, che rende oscura la loro chiara percezione, e che hanno anche tra loro una certa somiglianza, una prossimità tale da sommergere come in una zona d’ombra quello che in esse è nitido contorno. Per definizione, inoltre, l’intelletto umano è più debole di quanto certe conquiste che ha realizzato potrebbero far pensare, e questa debolezza si aggrava se si considera la ferita causata dal peccato originale: nell’attuale economia il nostro intelletto è, oltre che debole, ferito. Ma questa difficoltà inerente alle cose e questa fragilità costituzionale e patologica dell’intelletto sono soltanto cause remote e talora occasioni e condizioni dell’errore. La causa prossima, quella che influisce immediatamente sull’intelletto e lo determina a emettere un giudizio falso e a cadere nell’errore, è la volontà. Infatti soltanto l’oggetto evidente e la facoltà spirituale che chiamiamo volontà possono determinare la mente a un assenso: dunque, se non lo impone l’oggetto evidente, lo comanda la volontà.
La volontà, che è ordinata alla promozione e alla conquista del bene conveniente all’uomo nella sua completezza, esige che ad essa siano sottomesse, sebbene in grado diverso, le altre facoltà umane, compreso l’intelletto; la volontà, che si occupa del fine dell’uomo, ha il diritto e il dovere di muovere le potenze incaricate di fornire i mezzi per questo fine. Nelle cose non evidenti, impone all’intelletto un assenso che va oltre ciò che esso percepisce. Indubbiamente in questo assenso imposto vi è uno sconfinamento della volontà, un abuso e una violenza della volontà sull’intelletto. La volontà ha la facoltà di scegliere e sceglie: sceglie quel particolare assenso. Se in questa scelta opera bene o male, se è peccato o non è peccato imporre l’errore, è poi un’altra questione, una questione molto importante.
È dottrina corrente fra i teologi che Adamo, nello stato di innocenza, non era soggetto a errore. In questo stato non esisteva alcun male, e l’errore è un male dell’intelletto. In questo stato Adamo non avrebbe mai saputo nulla per modo di opinione; tutte le sue conoscenze sarebbero state certe. Di qui l’affermazione di sant’Agostino secondo cui l’errore non appartiene alla natura dell’uomo così come uscì dalle mani di Dio, ma dell’uomo già punito dopo il peccato. Da questa dottrina possiamo arrivare a questa conclusione: almeno il primo errore è pena del peccato; e a quest’altra: di fatto nella vita del primo uomo prima dell’errore ci fu il peccato. Queste conclusioni ci autorizzano a generalizzare, affermando che ogni errore è accompagnato dal peccato? Senza dubbio possiamo affermare che ogni errore imprudente ha ragione di peccato. Se risultasse che ogni errore è imprudente, allora effettivamente potremmo pervenire alla generalizzazione. Ma come può non essere imprudente l’errore? L’errore non è semplice ignoranza: a essa l’intelletto aggiunge un atto, emette un giudizio, una sentenza falsa a proposito di ciò che ignora; e questo dice san Tommaso che non può avvenire sine praesumptione, senza imprudenza e leggerezza, soprattutto – aggiunge il santo – in materie dove c’è pericolo di sbagliare (1).
L’intelletto che sbaglia non ha da sé stesso motivi sufficienti per l’errore: né può trovarli nelle cose su cui sbaglia. Il suo è uno stato di indifferenza e di inerzia, dal quale viene a toglierlo la volontà, che gli comanda un atto di adesione falsa; e questo non per motivi intellettuali sufficienti e legittimi, altrimenti – come è ovvio – non vi sarebbe errore. Non che la volontà non abbia i suoi motivi: sono le sue simpatie e antipatie, inclinazioni e ripugnanze, i suoi desideri, amori e paure, le sue passioni e errori, la sua vanità, la sua pigrizia, i suoi interessi sconvenienti, i suoi tormenti… Nella fangaia di questi bassifondi covano gli errori, soprattutto quando riguardano materie che postulano ed esigono un determinato stile di vita pratica, una norma di condotta esigente.
L’influenza della volontà e della cattiva volontà sull’intelletto è attestata da pensatori delle tendenze più diverse. “La malvagità – afferma Aristotele nella sua Etica a Nicomaco – inganna a proposito dei principi pratici, cosicché è senza dubbio impossibile essere saggi senza essere buoni”. In questo senso si sono espressi anche Descartes, La Bruyère, Rousseau, Thomas Merton… per citare soltanto alcuni dei quali abbiamo sotto gli occhi le testimonianze, che omettiamo perché tutti ripetono le stesse idee. Ci interessa di più raccogliere alcune testimonianze dalla Sacra Scrittura, in cui si vede chiaramente l’influenza della cattiva volontà sull’intelletto. In san Giovanni leggiamo: “Chi in lui – il Figlio di Dio – crede non va condannato, ma chi non crede è già condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio. E la causa della condanna è questa: che la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini preferirono le tenebre alla luce, perché le loro opere erano cattive. Infatti, chi fa il male odia la luce e alla luce non vuole appressarsi, per paura che le sue opere vengano condannate. Chi invece opera secondo la verità si avvicina alla luce senza timore che appaiano manifeste le opere sue, perché son fatte secondo Dio” (2). La conclusione che scaturisce da queste parole è la seguente: secondo com’è l’etica è – o può essere – la metafisica. Così si spiega il mistero dell’incredulità degli uomini.
Nelle sue discussioni con i giudei Gesù ripete tali idee in questi termini terribili: “Chi è da Dio ascolta le parole di Dio. Per questo voi non le ascoltate, perché non siete da Dio” (3). Non siete da Dio moralmente e spiritualmente: siete increduli perché siete peccatori. Lo stesso Gesù descrive concretamente alcune cause della incredulità: “Come potete credere – dice ai giudei – voi che mendicate la gloria gli uni dagli altri e non cercate la gloria che viene solo da Dio?” (4). In questo versetto Gesù si scaglia contro la superbia, l’ambizione e la vanagloria, radice ultima di ogni peccato. Fu di questo tipo il peccato degli angeli, e anche quello dei nostri primi progenitori. Dice sant’Agostino che l’angelo, caduto per la superbia, passò questo stesso calice ad Adamo. E naturalmente il nostro progenitore lo trasmise anche ai suoi figli. Adamo pretese di uguagliarsi a Dio: eritis sicut dii, sarete come dei. Essere, come Dio, la norma del bene e del male: essere legge a sé stessi e godere di autonomia rispetto alla legge di Dio. Di più: essere, come Dio, il proprio fine e la propria felicità: bastare a sé stessi per raggiungere con le proprie forze naturali questo fine e questa felicità. Se mi si permette una certa disinvoltura nell’espressione, dirò che Adamo in questo brutto momento della sua vita si muoveva in un’atmosfera autenticamente laica, superava il suo tempo, preludeva a Protagora, era un kantiano…; si può anche dire che il laicismo è un fenomeno di ritorno ad Adamo nel suo primo peccato, e che la filosofia moderna, nel suo schema, è eminentemente regressiva, satanica, luciferina.
Senza un grande peccato che le serva di base, come si può spiegare che questa filosofia abbia negato non solo le verità contenute nel deposito della Rivelazione cristiana, ma anche le grandi verità di ordine naturale, oggetto della ragione? Come ha potuto diventare eretica e atea una filosofia inserita nell’area geografica e culturale della Cristianità? Se la fede non si perde in buona fede, se Dio non abbandona se prima non è abbandonato, come mai questa Europa e la cultura occidentale sono di nuovo state rapite dal toro di Giove del paganesimo? Come ha potuto l’Europa cristiana, consacrata dalle acque battesimali, ritornare al taurobolium di Giuliano l’apostata e, dopo aver cantato nelle sue acclamazioni medioevali il Christus vincit, può intonare oggi un Requiem aeternam Deo? Come ha potuto perdere di vista Dio? Questo è il grande problema e la tragedia del nostro mondo: la perdita di Dio.
San Paolo, scrivendo ai romani, ci dice che le aberrazioni della mente non si spiegano senza l’intervento di una volontà perversa. “Si manifestò infatti dal cielo la collera di Dio contro ogni empietà e contro ogni ingiustizia degli uomini che tengono ingiustamente imprigionata la verità; poiché quel che si può conoscere di Dio è cosa a loro nota, avendolo Dio manifestato ad essi. Infatti le sue invisibili perfezioni, come la sua eterna potenza e la sua divinità, appariscono chiare nel mondo creato, quando si considerino nelle sue opere; quindi non sono scusabili perché, dopo aver conosciuto Dio, non gli hanno dato gloria come Dio, né gli hanno rese grazie, ma si sono perduti nelle loro vane elucubrazioni e la loro mente insensata si trovò avvolta dalle tenebre. Sicché, mentre si vantavano d’essere sapienti, diventarono stolti; ed hanno cambiato la gloria di Dio incorruttibile con immagini di uomini mortali, di uccelli, di quadrupedi e di rettili” (5). L’Apostolo parla dei gentili, e afferma che sono colpevoli di fronte al tribunale di Dio; che sono inescusabili non tanto coloro che non giungono alla conoscenza di Dio attraverso le creature – anche se dà per certo che tutti lo possono -, ma coloro che opprimono e quasi annegano la verità chiaramente conosciuta nell’ingiustizia delle loro opere.
Da questa ingiustizia ha origine anche quell’ulteriore degradazione dell’uomo che arriva con l’idolatria al suo punto più basso. Gli idoli, però, in molti casi erano le passioni dell’uomo deificate.
Ci si può chiedere che cosa direbbe l’Apostolo, che parlava così dei gentili, del mondo del secolo XX, vedendolo curvo non davanti a idoli d’oro o d’argento, ma davanti a idoli fabbricati con tutti i detritus passionali; o che cosa direbbe di tanti intellettuali eterodossi il saggio che ha chiamato “stolti per natura“, e per conseguenza stupidi inguaribili, “tutti gli uomini nei quali si è trovato il rifiuto di riconoscere Dio” (6). Sicuramente pronuncerebbe la stessa terribile sentenza: sono inescusabili, sono più colpevoli degli antichi gentili.
LUCAS GARCÍA BORREGUERO
Note:
(1) Cfr. SAN TOMMASO, De Malo, q. III, a. 7.
(2) Gv. 3, 18-21.
(3) Ibid. 8, 47.
(4) Ibid. 5, 44.
(5) Rom. 1, 18.
(6) Sap. 13, 1.