Maurizio Brunetti, Cristianità n. 363 (2012)
1. È noto agli esperti che George Orwell [Eric Arthur Blair (1903-1950)] abbia avuto, fra le sue fonti d’ispirazione per il romanzo 1984, l’opera di Evgenij Ivanovič Zamjatin (1884-1937) Noi (1). Questo disperante romanzo, appartenente al genere della narrativa distopica, cioè dell’utopia negativa, descrive una futura organizzazione sociale, inesorabile come una macchina, nella quale sono banditi la libertà individuale e perfino il concetto stesso d’individualità. Orwell, scrivendo nel 1948, trasfigurava un regime — quello di Josif Vissarionovič Džugašvili “Stalin” (1878-1953) — che giŕ da molti anni mostrava, a chi non chiudeva volontariamente gli occhi, il suo carattere totalitario, sanguinario e liberticida. Nel 1922, invece, la descrizione da parte di Zamjatin di uno scenario ampiamente sovrapponibile a quello orwelliano era frutto di un’intuizione: sarebbe stata la sorte che ragionevolmente attendeva la Russia comunista post-rivoluzionaria se nelle decadi successive avessero continuato a inverarsi i principi del marxismo-leninismo e i suoi corollari meccanicisti dovuti alla riduzione dell’uomo a forza-lavoro.
È molto probabile — e molto meno noto — che Zamjatin abbia letto, a sua volta traendone ispirazione, l’opera di Jerome Klapka Jerome (1859-1927) The New Utopia (2) che, nella traduzione in russo, era apparsa con il titolo Il socialismo futuro (3). Il racconto satirico descrive una società perfettamente socialista del secolo XX in cui, come in Noi, i nomi propri sono stati aboliti — si usano, infatti, dei numeri per distinguere un uomo dall’altro — e si ricorre alla lobotomia per “sanare” quelli che la società giudica troppo disuguali rispetto agli altri (4).
2. “Jerome Klapka Jerome” è lo pseudonimo con cui si firmava — tranne l’eccezione costituita dal racconto Weeds, edito nel 1892 da Arrowsmith di Bristol ma mai messo in commercio, siglato con lo pseudonimo “K McK” (5) — lo scrittore, giornalista e umorista britannico Jerome Clapp Jerome, nato il 2 maggio 1859 a Walsall, città industriale e mineraria a nord di Birmingham. È priva di fondamento la storia riportata da molte fonti biografiche (6) secondo cui il nome “Klapka” fosse un tributo dei genitori al generale ungherese György Klapka (1820-1892) che, proprio a casa dei Jerome, avrebbe terminato di scrivere le proprie memorie sulla rivoluzione ungherese del 1848-1849. In realtà, il futuro scrittore viene battezzato con lo stesso nome del padre e, quando sceglie di esasperarne la palindromicità, è probabilmente solo per l’efficacia umoristica del gioco di parole ottenuto tramite una minima variazione fonetica.
L’infanzia, racconta Jerome nella sua autobiografia del 1926, “[…] mi rimane nella memoria come un tempo veramente felice. Solo molti anni dopo appresi quanto fossimo poveri — e la lunga e amara lotta che mio padre e mia madre combatterono contro il destino” (7). Il padre, un predicatore congregazionalista di discreto successo e relativamente benestante, aveva investito l’intero patrimonio di famiglia nell’acquisto di miniere di carbone; l’allagamento dei pozzi, tuttavia, aveva portato i Jerome sull’orlo della miseria.
A sedici anni il futuro scrittore è già orfano di entrambi i genitori, vive a Londra da solo in una stanza in affitto e da due anni ha un impiego presso le ferrovie. A diciotto fa le sue prime esperienze artistiche come attore, sotto il nome d’arte di Harold Crichton e, dopo tre anni, decide di tentare la carriera giornalistica acquisendo una certa notorietà con la pubblicazione nel 1886 di Pensieri oziosi di un ozioso (8), una collezione di saggi umoristico-sapienziali. Il 21 giugno 1888 sposa Georgina Elizabeth Henrietta Stanley “Ettie” Marris (1859-1938). La luna di miele lungo il Tamigi su una piccola imbarcazione gli dà l’ispirazione per Tre uomini in barca (per non dire del cane) (9). L’opera, pubblicata nel 1889, gli procura una fama internazionale vendendo, nei venti anni successivi, più di un milione di copie in tutto il mondo.
Negli anni 1890 fonda e dirige periodici illustrati — il mensile The Idler e il settimanale To-day — e diventa amico degli scrittori Thomas Hardy (1840-1928), Arthur Conan Doyle (1859-1930), James Matthew Barrie (1860-1937), Joseph Rudyard Kipling (1865-1936) e Herbert George Wells (1866-1946). Nel decennio successivo alterna alla stesura di romanzi, saggi, novelle e lavori teatrali, e lunghi viaggi all’estero, dov’è un applaudito conferenziere.
Allo scoppio della Prima Guerra Mondiale (1914-1918) il cinquantacinquenne Jerome si presenta volontario per arruolarsi, ma non accetta di ricoprire il ruolo, ben poco rischioso, che il War Office gli vorrebbe assegnare presso il reparto equipaggiamento al centro di Londra. Solo nell’autunno del 1916, inquadrato nell’esercito francese in qualità di autista di ambulanza, riesce a raggiungere, come desiderava, il fronte franco-tedesco.
L’esperienza diretta della guerra, “un pazzo conflitto di cui non v’era necessità” (10), segna profondamente lo scrittore. I suoi ultimi lavori — fatta eccezione per l’autobiografia scritta a un anno dalla morte — sono cupi e pensosi. Muore in seguito a un ictus cerebrale nel 1927.
3. Jerome nasce in una famiglia non conformista — così l’Inghilterra dell’epoca definiva quei protestanti che si rifiutavano di conformarsi alle dottrine e alla disciplina della Chiesa anglicana — e molto religiosa: per il fratello maggiore di Jerome, morto all’età di sette anni nel 1862, i genitori avevano scelto il nome di Milton Melanchton (11) e, dovendo ovviare all’ambiguità dovuta all’omonimia con il padre, ricorrevano al nome Luther per rivolgersi al piccolo Jerome Clapp.
Cresciuto nell’età vittoriana, cioè sotto il regno di Alexandrina Victoria di Hannover (1819-1901), durante la quale “[…] nessun rispettabile cittadino menzionava Dio, tranne la domenica” (12), Jerome vive gli anni della giovinezza in una sorta d’indifferentismo religioso: riconosce che vi “[…] dev’essere un Dio” (13), in quanto “l’orologio proclama l’orologiaio” (14), ma non lo convincono né il principio che Dio ami solo chi è buono, né quello della salvezza per mezzo della sola fede, due tratti tipici del cristianesimo calvinista dei genitori.
L’autore, con lo stile garbatamente ironico che lo ha reso celebre, descrive il disagio che, fin da bambino, provocava in lui questo tratto dell’impostazione teologica puritana: “Da ragazzo, la mia difficoltà era che io non ero mai certo se credessi o no. Era inutile fare ogni sforzo in mio potere per credere. La mia incredulità angosciava il cuore di mia madre. Io lo sapevo. Inoltre la mia incredulità significava andare all’inferno. […] Bocconi sul guanciale, ripetevo “credo” continuamente, e finivo talvolta col gridarlo ad alta voce, nel caso Dio non avesse udito i miei bisbigli soffocati. A tratti solevo essere fiducioso d’essere stato vittorioso […]. E poi mi tornava il timore che, dopo tutto, fingevo solamente di credere e che Dio vedeva entro di me e sapeva che non credevo” (15).
Un punto di svolta letterario — che forse corrisponde a un mutato atteggiamento nei confronti della religione — è costituito nel 1907 da The Passing of the Third Floor Back, “L’ospite di passaggio della stanza sul retro del terzo piano”, la più fortunata delle sue ventotto opere teatrali andate in scena (16). Si tratta di un vero e proprio morality play moderno i cui personaggi, ciascuno caratterizzato da un vizio dominante, ritrovano la propria umanità a contatto di uno straniero dall’aura misteriosa e dai tratti indubitabilmente cristici.
Nella maturità Jerome approda a un cristianesimo molto personale, che emerge nel romanzo di formazione All Road Lead to Calvary, e alla cui descrizione lo scrittore dedica l’ultimo capitolo dell’autobiografia: “Lo spirito di Cristo è in tutti gli uomini. È la parte dell’uomo che è simile a Dio. Con l’ascoltare il suo spirito, col farlo nostra guida, noi possiamo crescere più simili a Dio – diventare i suoi compagni, i suoi collaboratori” (17). Ed è una strada che si percorre abbandonando “[…] la via che guida al successo, all’esaudimento dei desideri, all’amore e all’approvazione dei nostri fratelli” (18) e che passa ineludibilmente attraverso l’accettazione della sofferenza, poiché “[…] solo col patire si concorre all’opera di Dio” (19).
Nonostante l’ammirazione per la religiosità “cattolica” delle sacre rappresentazioni, della cui fisicità si fa avvocato in Diary of a Pilgrimage (20), del suo retaggio puritano conserva sino alla fine della sua vita — registra uno dei suoi segretari — un’“irrazionale avversione nei confronti della Chiesa Cattolica Romana” (21), tanto che la figlia Rowena (1898-1966), per non causargli un dispiacere, preferirà attenderne la morte per formalizzare la propria conversione al cattolicesimo (22).
4. Il 17 febbraio 1927 Jerome torna nella sua città natale per ricevere un’onorificenza civica. Nel discorso dinanzi alla cittadinanza lo scrittore accenna all’evoluzione delle sue opinioni politiche: “Sono felice di poter dire che, in tempi diversi, mi sono trovato completamente d’accordo con le opinioni politiche di ciascuno di voi. Sono stato inizialmente un radicale. Quel tipo di radicale che era considerato all’epoca un vero spauracchio per la società rispettabile […]. Mi sono poi ravveduto, diventando un sostenitore senza riserve del Partito Conservatore. Ho dimenticato che cosa mi abbia convertito. Sarà stata, forse, la stampa del Partito Liberale. Dall’ideologia tory sono passato con naturalezza al socialismo, e ho aderito ai Fabiani in compagnia di Wells e Shaw [George Bernard, 1856-1950]. Insieme con loro, il fabianesimo mi venne a noia […]. Avrei aderito al Partito Laburista se, con il passare degli anni, non fossi giunto alla conclusione che il futuro dell’umanità non dipenderà da un partito politico, ma da leggi naturali che ci plasmano in accordo ai loro fini, in maniera abbastanza indipendente dai governi e dalla politica” (23).
In questa ricostruzione prevale il Jerome umorista e non va, perciò, presa troppo alla lettera (24). Siccome, tuttavia, nel 1901 The New Utopia è l’unico dei sei saggi originariamente pubblicati insieme con Diary of a Pilgrimage a non essere inserito in una nuova raccolta, è probabile che, a quell’epoca, Jerome non avrebbe più descritto il “socialismo dei così detti socialisti” (25) come aveva fatto dieci anni prima, e cioè come “[…] un sistema da carcere cellulare, un sistema sotto il quale ogni miserabile peccatore è spinto a faticare come una bestia da soma, non per il suo beneficio personale, ma solo per il bene della comunità: un mondo dove non vi saranno uomini, ma esclusivamente numeri” (26). I primi anni del nuovo secolo sono anche quelli in cui Jerome esprime opinioni decisamente “progressiste” sulla Russia zarista, in un saggio significativamente intitolato “Creature che un giorno saranno uomini” (27) e si avvicina al Partito Liberale di Herbert Henry Asquith (1852-1928), contribuendo all’elezione al parlamento di Philip Morrell (1870-1943) nel 1906 (28).
Sono forse questi anche gli anni di maggiore vicinanza alla Fabian Society. Si tenga comunque presente che in essa, come Wells spiega nella propria autobiografia, convivevano all’epoca diverse anime: “Alcuni denunciavano l’avvento della macchina come la causa di ogni disagio sociale, altri fondavano sulla meccanizzazione della società le proprie speranze di emancipazione dal lavoro, alcuni erano nazionalisti e altri cosmopoliti […] alcuni cristiani, altri atei […]. Alcuni proponevano di costruire una società a partire da famiglie felici che ne sarebbero state le unità di base, altri avrebbero voluto distruggere completamente l’istituto familiare alla stregua di Platone [427-347 a. C.]“ (29).
Jerome rimane un riformista moderato, sospettoso nei confronti di ogni progetto rigidamente ideologico. È favorevole all’estensione alle donne dei diritti politici degli uomini. Quando, però, il movimento delle suffragette inizia a intraprendere azioni dimostrative violente, Jerome reagisce scrivendo una commedia teatrale sostanzialmente anti-femminista (30). Degli anarchici e dei rivoluzionari russi che circolavano in Inghilterra dirà: “Ciò che più ammiravo in essi era il disprezzo di ogni finzione. Quattro pence dati a qualunque barbiere delle vicinanze avrebbero fatto perdere ogni loro traccia alla polizia. […] Un po’ prima della guerra, rinnovai la conoscenza dei rivoluzionari russi, questa volta a casa del principe Kropotkin [Pëtr Alekseevič, 1842-1921] a Brighton […]. V’era un tale con la barba fino alla cintura e una voce che scoteva i ninnoli sulla mensola del caminetto. Egli apparteneva a una nuova setta religiosa che riteneva peccato, fra l’altro, distruggere le mosche domestiche, ma non gli sorgeva scrupolo alcuno, appresi, [di annientare la] “petite bourgeousie“. Ahimé! I migliori di noi non sono sempre coerenti. Durante la guerra ho ascoltato i membri delle società umanitarie francesi ridacchiare al pensiero che i bambini tedeschi fossero affamati a morte” (31).
Jerome racconta di aver appreso la dichiarazione di guerra contro la Germania “con lieta soddisfazione” (32). Poi, “[…] i resoconti [ampiamente menzogneri] delle atrocità tedesche pubblicate giorno per giorno dalla stampa inglese […] mi fecero in principio dubitare che quella realmente fosse una guerra santa” (33). Certamente Jerome condivideva la “linea Asquith” contro la trasformazione del conflitto in una guerra totale. Se le cose precipitano è — a dire di Jerome — non tanto perché nel 1916 David Lloyd George (1863-1945) aveva sostituito Asquith nella carica di Primo Ministro, ma per la cessata neutralità degli Stati Uniti d’America (34).
Al termine del conflitto, un amareggiato Jerome si serve del medium narrativo per biasimare la violenza perpetrata all’insegna del progressismo: “Se ne trovavano a ogni passo. Riformatori che non sapevano riformare se stessi, credenti nella fratellanza universale che odiavano metà del genere umano, accusatori della tirannia che avrebbero voluto appendere a un lampione gli avversari, pacifisti assetati di sangue, moralisti persuasi che ogni ingiustizia fosse giustificata per chi combatte in pro del diritto” (35).
5. Il racconto La nuova utopia appartiene al genere del racconto satirico distopico di area anglosassone, cui vengono solitamente ascritti I viaggi di Gulliver (36), del 1726, di Jonathan Swift (1667-1745) ed Erewhon (37), del 1872, di Samuel Butler (1835-1902). Una vena ironica è ravvisabile anche ne Il mondo nuovo (38), del 1932, di Aldous Leonard Huxley (1894-1963).
L’autore che ricorra alla narrativa distopica — rileva una studiosa di tale genere letterario — avverte l’esigenza di lanciare campanelli d’allarme (39): lo scrittore percepisce come nefaste una o più tendenze in atto nella società del suo tempo e le esaspera in contesti che pone lontani nello spazio o nel tempo.
Nel mirino di Swift, ad esempio, vi sono alcuni miti illuministi: i luoghi visitati da Lemuer Gulliver, fra cui la società dei filosofi e degli scienziati di Laputa nonché quella degl’immortali mortalmente annoiati di Luggnagg, sono l’esito grottesco di un’antropologia che non tiene conto del peccato originale. Con Erewhon, che è l’anagramma – quasi l’inversione – di “nowhere“, “nessun luogo”, e di “now-here“, “adesso qui”, Butler puntava, invece, il dito contro alcuni aspetti della società vittoriana: la dubbia religiosità dei ministri di culto anglicani, l’esaltazione dell’automazione e l’eccessivo entusiasmo per il darwinismo — a Erewhon i malati vengono puniti e i criminali, completando la simmetria del rovesciamento, curati.
Vi è chi ha ipotizzato che Jerome, nello scrivere La nuova utopia abbia avuto il romanzo utopico News from Nowhere (40), del 1890, di William Morris (1834-1896), come diretta fonte di ispirazione (41). Anche nell’opera di Morris il protagonista si addormenta, risvegliandosi in un futuro dove le aspirazioni socialiste dell’autore, che negli anni della stesura dell’opera auspicava una riconciliazione dei marxisti con gli anarchici, sono ormai realtà consolidate.
In realtà, nell’anno in cui Jerome scrive il suo racconto, l’espediente del sonno profondo per giustificare un salto nel tempo, era già diventato classico (42) e vi è almeno un’altra opera di cui La nuova utopia potrebbe essere ragionevolmente la parodia: si tratta di Looking Backward (2000-1887) (43), pubblicata nel 1888 a firma dello statunitense Edward Bellamy (1850-1898). Anche in questo caso, il protagonista si risveglia dopo un lungo sonno e incontra un mentore che lo conduce alla scoperta della nuova società in cui la proprietà privata è stata abolita. Tuttavia, il paesaggio futuro del Morris scrittore, con i suoi edifici ornati e i suoi abiti dai colori sgargianti, è quello del mitico medioevo preindustriale vagheggiato dai preraffaelliti e non è, dunque, dissimile da quelli del Morris pittore e decoratore; nella società futura di Bellamy, invece, tutto è rigidamente squadrato perché l’organizzazione industriale, rigidamente gerarchica, raggiunga la massima efficienza. Lo scenario de La nuova utopia, che non concede spazio alcuno alla creatività, sembra più simile — fatto salvo l’accenno alle tre sole ore di lavoro giornaliere — alla società dirigista concepita, con valutazione di segno opposto, da Bellamy.
Nella società futura di Jerome — un incubo, in tutti i sensi — compaiono, come si è detto in esordio, molti elementi ricorrenti nella letteratura distopica successiva. Alcuni temi sono “classici”, come quello della riproduzione umana disancorata dall’amore coniugale — tema centrale, oltre che de Il mondo nuovo, anche di Anthem (44), del 1938, di Ayn Rand [pseudonimo di Alisa Zinov’evna Rozenbaum (1905-1982)] —, altri sono più originali come il “cubismo di Stato” e dei “blocchi”, ripreso, in particolare, nell’omonimo racconto scritto nel 1931 dall’olandese Ferdinand Bordewijk (1884-1965) (45). La morale del racconto di Jerome è la stessa dei più seriosi Les socialistes au pouvoir, del 1897, di Hippolyte Verly (1838-1916), e The Master Beast, del 1907 — un altro viaggio nel tempo in seguito a una perdita di coscienza —, di Horace Wykeham Can Newte (1870-1949): “Il socialismo è contro la natura umana” (46).
Note:
(1) Cfr. Evgenij Ivanovič Zamjatin, Noi, trad. it., Feltrinelli, Milano 1984. Orwell lesse Noi nella traduzione francese del 1928: cfr. l’Introduzione di Aldo Chiaruttini a George Orwell, 1984, trad. it., Mondadori, Milano 1982, pp. 7-13 (p. 12).
(2) Cfr. Jerome Klapka Jerome, La nuova utopia, in questo numero di Cristianità, pp. 51-62.
(3) Cfr. Elizabeth Stenbock-Fermor (1900-2001), A Neglected Source of Zamiatin’s Novel “We”, in Russian Review, vol. 32, n. 2, Lawrence (Kansas) aprile 1973, pp. 187-188. Jerome è stato letto avidamente nella Russia dei primi anni del secolo XX.
(4) Dell’opera esiste un’edizione in russo risalente al 1912. Per strano che possa sembrare, la censura zarista non ne permise, inizialmente, la pubblicazione; la poco perspicace motivazione è datata 22 maggio 1898: “Tenendo conto che una storia con questo titolo potrebbe avere una cattiva influenza sui lettori più ingenui e che, in ogni caso, la sua lettura non è di alcuna utilità visto il suo orientamento materialista, la pubblicazione di questo lavoro tradotto andrebbe vietata. Ciò in accordo con la disposizione dell’8 maggio 1895” (cfr. Arlen Viktorovič Blium, Orwell’s Travels to the Country of Bolsheviks, trad. ing. dell’articolo pubblicato sulla rivista moscovita Novoye Vremya, del 30-9-2003, pp. 51-52, consultabile sul sito Internet <http://orwell.ru/a_life/blum/english/e_papsb> visitato l’ultima volta il 21-3-2012).
(5) Cfr. Alan R. Whitby, Jerome’s Rarest Book – Weeds, in Jeremy Nicholas (a cura di), Idle Thoughts on Jerome K Jerome: A 150th Anniversary Celebration, The Jerome K Jerome Society, Great Bardfield (Regno Unito) 2009, pp. 51-55.
(6) Cfr., per esempio, Alfred Moss (1859-?), Jerome K. Jerome: His Life and Work, Selwyn and Blount, Londra 1929, p. 50; e Joseph Connolly, Jerome K Jerome. A Critical Biography, Orbis Publishing, Londra 1982, p. 7.
(7) J. K. Jerome, La vita e i miei tempi, trad. it., Sonzogno, Milano 1965, p. 32.
(8) Idem, Pensieri oziosi di un ozioso, trad. it., Rizzoli, Milano 2001. L’opera è dedicata alla “confidente delle [sue] gioie e delle [sue] speranze“, e cioè alla sua “vecchia e gagliarda PIPA” (ibid., p. 11).
(9) Cfr. Idem, Tre uomini in barca (per non dire del cane), trad. it., Rizzoli, Milano 2008.
(10) Idem, Le vie del Calvario, trad. it., Monanni, Milano 1929, p. 286.
(11) Certamente in onore di John Milton (1608-1674), poeta inglese autore di Paradise Lost (Il Paradiso Perduto, trad. it. con testo inglese a fronte, Bompiani, Milano 2009), e di Filippo Melantone, nome italianizzato di Philipp Schwarzerdt (1497-1560), studioso fra i primi e più autorevoli seguaci di Martin Lutero (1483-1546).
(12) J. K. Jerome, La vita e i miei tempi, cit., p. 85.
(13) Ibid., p. 310.
(14) Ibidem.
(15) Ibid., p. 308.
(16) Cfr. Idem, The Passing of the Third Floor Back: An Idle Fancy in a Prologue, a Play, and an Epilogue, Nabu Press, Charleston (South Carolina) 2010. L’opera ha avuto due trasposizioni cinematografiche; la seconda, diretta nel 1935 da Berthold Viertel (1885-1953) e interpretata da Conrad Veidt (1893-1943), è considerata un classico, sia pur minore, del cinema inglese.
(17) Idem, La vita e i miei tempi, cit., p. 314.
(18) Idem, Le vie del Calvario, cit., p. 15.
(19) Ibid., p. 275.
(20) Il romanzo, pubblicato nel 1891, descrive il viaggio che l’autore e un suo amico intraprendono verso la cittadina di Oberammergau, nella Baviera meridionale, per assistere alla Passionsspiele, la rappresentazione della Passione che ancora oggi si ripete per le vie del paese con cadenza decennale e che, fra attori, musicisti e tecnici, coinvolge più di duemila persone. Dopo avervi assistito, “[…] anche l’incredulo se n’esce pieno di cibo per il pensiero, nelle vie del villaggio. Il rude sermone predicato in questo tempio della montagna gli ha mostrato, in una luce che non ha mai prima veduto, il segreto che costituisce la forza del cristianesimo; la ragione [per cui questa fede] si sia diffusa più lungi nel mondo e abbia toccato la nota più profonda della vita umana. Non per la sua dottrina, neppure per le sue promesse Cristo è penetrato nel cuore degli uomini, ma per la storia della sua vita” (Idem, Il diario di un pellegrinaggio, trad. it., Sonzogno, Milano 1965, p. 162).
(21) Harold King (1898-1990), Chasing the News, in J. Nicholas, op. cit., pp. 149-154 (p. 152).
(22) Cfr. ibidem.
(23) Cit. in Peter Wilson, Jerome, the Party Politician, ibid., pp. 103-105 (p. 103).
(24) Sarebbe del resto impossibile: Herbert George Wells entra a far parte della Fabian Society nel 1903 e la lascia nel 1909; George Bernard Shaw vi aderisce, invece, già nel 1884 e, pur rinunciando nel 1911 all’incarico ufficiale di dirigente, ne rimane un convito sostenitore per il resto della vita. Cfr. un inquadramento della Fabian Society e del fabianesimo, in Paolo Mazzeranghi, Il fabianesimo, in IDIS. Istituto per la Dottrina e l’Informazione Sociale, Voci per un “Dizionario del pensiero forte”, a cura di Giovanni Cantoni e con presentazione di Gennaro Malgieri, Cristianità, Piacenza 1997, pp. 125-130; cfr. anche G. Cantoni, La socialdemocrazia fabiana, “new look” dell’”opzione socialista”, in Cristianità, anno XVIII, n. 186, ottobre 1990, pp. 3-5.
(25) J. K. Jerome, Il diario di un pellegrinaggio, cit., p. 26.
(26) Ibidem.
(27) Cfr. Idem, Idle Ideas in 1905, 1st World Library, Fairfield (Iowa) 2007, pp. 85-94 (trad. it., Idee oziose nel 1905, Sonzogno, Milano 1927).
(28) Cfr. P. Wilson, op. cit., pp. 104-105.
(29) Herbert George Wells, Experiment in Autobiography, cit. in Wallace Martin (1933-2010), The New Age under Orage, Manchester University Press, Manchester 1967, p. 27.
(30) Si tratta di The Master of Mrs. Chilvers, andato in scena per la prima volta il 26-4-1911. La signora Chilvers è una femminista militante, il cui marito non ne ostacola l’attivismo. Una serie di circostanze convincono la donna a sospendere per amore del coniuge la propria attività politica e a dedicarsi a tempo pieno ai doveri di moglie e di madre; cfr. J. Connolly, op. cit., pp. 157-159. Il messaggio è sostanzialmente sovrapponibile alle considerazioni che l’autore faceva vent’anni prima, quando spiegava che cosa apprezzava del popolo tedesco: “Le donne tedesche non sono belle, ma sono amabili e dolci […]. Non sembra ch’esse si turbino per i loro diritti, e appaiono molto liete e felici, anche senza il voto. I Tedeschi amano le donne, ma non le adorano; non stanno a lambiccarsi il cervello su qual sesso governerà lo Stato e su quale si fermerà a casa a badare ai bambini” (cfr. J. K. Jerome, Il diario di un pellegrinaggio, cit., pp. 216-217).
(31) J. K. Jerome, La mia vita e i miei tempi, cit., p. 106.
(32) Ibid., p. 279.
(33) Ibid. p. 282, trad. variata.
(34) “Se non fosse stato per l’America, la guerra sarebbe rimasta allo stesso punto. Tutta l’Europa si sarebbe convinta della futilità della guerra. Ne sarebbe risultata “la pace senza la vittoria”, la sola pace contenente qualche possibilità di durata” (ibid., p. 266).
(35) Ibid., p. 242, trad. variata.
(36) Cfr. Jonathan Swift, I viaggi di Gulliver, trad. it., Newton Compton, Roma 2010. La rilevanza dell’opera all’interno della letteratura distopica è discussa in Massimo Baldini (1947-2008), La storia delle utopie, Armando, Roma 1994, pp. 105-109. Swift usa sistematicamente “[…] l’utopia contro se stessa e la dissacra facendo ricorso alla caricatura e al grottesco” (Raymond Trousson, Viaggi in nessun luogo. Storia letteraria del pensiero utopico, trad. it., Longo, Ravenna 1992, p. 147).
(37) Cfr. Samuel Butler, Erewhon, trad. it., Adelphi, Milano 1993.
(38) Cfr. Aldous L. Huxley, Il mondo nuovo. Ritorno al mondo nuovo, trad. it., Mondadori, Milano 2000.
(39) Cfr. Jean Pfaelzer, The Utopian Novel in America, 1886-1896: The Politics in Forms, University of Pittsburgh Press, Pittsburgh (Pennsylvania) 1984, p. 96.
(40) Cfr. William Morris, Notizie da nessun luogo, ovvero un’epoca di riposo, trad. it., Guida, Napoli 1978.
(41) Cfr. Tony Gray, 1984 – George Orwell: 2900 – Jerome K Jerome, in J. Nicholas, op. cit., pp. 106-107.
(42) Utilizzato, sembra, per la prima volta nel 1771 da Louis-Sebastien Mercier (1740-1814) nell’opera L’an 2440, (trad. it., L’anno 2440, Dedalo, Bari 1993), è presente in altre opere del secolo XIX, alcune delle quali già molto celebri ai tempi di Jerome come Rip van Winkle, del 1820, dello statunitense Washington Irving (1783-1859); cfr. Hinrich Hudde, L’influence de Mercier sur l’evolution du roman d’anticipation, in Idem e Peter Kuon (a cura di), De l’utopie a l’uchronie, Gunter Narr, Tubinga 1988, p. 109-122.
(43) Cfr. Edward Bellamy, Guardando indietro (2000-1887), trad. it., UTET, Torino 1967.
(44) Cfr. Ayn Rand, Antifona, trad. it., Liberilibri, Macerata 2003.
(45) Cfr. Ferdinand Bordevijk, Blocchi, trad. it., Bompiani, Milano 2002.
(46) Horace Wykeham Can Newte, The Master Beast: Being a True Account of the Ruthless Tyranny Inflicted on the British People by Socialism, AD 1888-2020, cit. in Raymond Trousson, La distopia e la sua storia, in Artemio Enzo Baldini e Arrigo Colombo (a cura di), Utopia e distopia, Dedalo, Bari 1993, p. 29.