GIOVANNI CANTONI, Cristianità n. 177 (1990)
La vita politica internazionale — soprattutto relativamente all’impero socialcomunista — ha assunto negli ultimi anni e, ancor più, negli ultimi mesi — ma, ormai, si devono includere in questa formula sia gli ultimi giorni che le ultime ore —, un’accelerazione straordinaria, nella quale mi sarebbe particolarmente gradito poter scorgere la verifica del classico motus in fine velocior, con riferimento almeno alla fine dell’impero socialcomunista stesso se non, addirittura, della “civiltà moderna” o “mondo moderno”. E non si tratta di un desiderio d’apocalisse, dal momento che “civiltà moderna” o “mondo moderno” non coincide assolutamente con “civiltà contemporanea” o “mondo contemporaneo”, cioè con la condizione attuale della civiltà o del mondo umano, ma rappresenta l’esito di un processo plurisecolare di rifiuto di Dio e della sua legge, che il pensiero cattolico contro-rivoluzionario indica con il termine “Rivoluzione”.
Credo però più realistico — a sottolineare la precarietà di ogni giudizio in fieri, che non intenda esporsi al rischio di essere soltanto espressione di un “pio desiderio” — limitarmi a rilevare alcuni elementi certi che mi sembrano emergere, appunto come certi, nel quadro confusionale offerto dall’impero socialcomunista, però non trattandoli more massmediatico, cioè come se fossero soltanto episodi dell’ovvia e ineluttabile vittoria di una non meglio qualificata “democrazia” su una ugualmente non meglio qualificata “dittatura”.
1. Dunque, oltre la Cortina di Ferro, che si stende ovunque la setta socialcomunista esercita un’egemonia istituzionale e non soltanto culturale, sta accadendo qualcosa, le cui cause scatenanti si possono definire molto semplicemente come “nodi venuti al pettine della storia”; e si tratta di nodi strutturali e storici già rilevabili, in quanto attuali o almeno in progress, “in corso”, oppure dei quali si può con qualche ragionevolezza prevedere l’imminente emergere.
a. Il primo nodo — il più elementare e il più macroscopico — è costituito dal fallimento del regime socioeconomico instaurato a partire dalla Rivoluzione d’Ottobre — più precisamente, golpe d’Ottobre — in Russia, e quindi, per via di successive annessioni militar-rivoluzionarie, in numerosi paesi dell’orbe terracqueo. La sua formulazione più semplice si può esprimere con i termini delle Prime nozioni della Fede cristiana, premesse al Catechismo della Dottrina Cristiana pubblicato per ordine del Sommo Pontefice S. Pio X, che definisce l’inferno come “patimento della privazione di Dio” “con ogni altro male senza alcun bene”. Dunque, il rifiuto tematico — anche se con diversa rilevanza formale pubblica — di Dio e della sua legge, rivelata positivamente ma inscritta anche nella natura dell’uomo, cioè la volontaria, aggressiva privazione sociale di Dio, costituisce propriamente un inferno e comporta il venir meno di ogni bene e il crescere di ogni male anche sociale. Poiché le nazioni non hanno una vita oltre la morte, il loro inferno è nella storia e il regime socialcomunista ne è espressione nel suo genere esemplare e nel nostro tempo massima; e la privazione di Dio porta con sé il venir meno di ogni bene, nel caso concreto anche di ogni bene materiale. Secondo una logica naturalistica, cioè escludente per principio il soprannaturale, il concentrarsi dell’uomo sulla realizzazione di una società atta a soddisfare tutte le sue esigenze materiali, doveva produrre inevitabilmente un mondo in cui i mutati rapporti economici — i rapporti strutturali — sarebbero ridondati in abbondanza materiale e nel mutamento dei rapporti sovrastrutturali, nel Regno della Libertà. Molto sinteticamente e per esempio, l’aver forzosamente vuotato i monasteri e le chiese dell’Ucraina non ha fatto realizzare un incremento della produzione in una terra che ancora all’inizio del secolo XX era il “granaio d’Europa”, si è anzi verificato proprio il contrario, quasi conferma sub specie societatis della proposizione evangelica secondo cui, quando si cerca il Regno di Dio e la sua giustizia, cioè ci si concentra realmente su Dio e, quindi, si opera secondo la sua legge, il resto viene dato in sovrappiù, beni materiali compresi. Ebbene, il capitalismo di Stato e l’abolizione della proprietà privata, che è frutto e mezzo della libertà d’iniziativa economica, hanno prodotto la socializzazione forzata della miseria in regime di collettivismo burocratico; né a sanare la situazione sono valse le fasi di alleggerimento del “socialismo di guerra” rappresentate dai periodi di NEP, di “nuova politica economica”, di cui la perestrojka, la “ristrutturazione” promossa da Mikhail Gorbaciov, è soltanto l’espressione maggiore negli oltre settant’anni di regime sovietico in Russia, un’espressione resa maggiore soprattutto perché, in ipotesi, destinata a fronteggiare la capitalizzazione pluridecennale del fallimento economico del regime.
b. Il secondo nodo, strutturale come il primo, dice riferimento al regime totalitario vigente oltre la Cortina di Ferro, un regime che però non costituisce il tratto specifico del socialcomunismo, ma che è piuttosto la realizzazione macroscopica e tendenzialmente perfetta dello Stato moderno. “Stato moderno”, a sua volta, non è sinonimo di “Stato contemporaneo” — anche se la gran parte degli Stati contemporanei è costituita da “Stati moderni” —, ma categoria politica definibile come “”organizzazione politica della società” invadente e invasa”, cioè “invadente” la società stessa attraverso l’uso prevaricatore di funzioni statuali destinate a controllarla, aiutarla e regolarla nella prospettiva del bene comune, e a sua volta “invasa” da “gruppi d’interesse” della più diversa origine e natura, anche se tutti, in qualche modo, espressioni collettive di mancanza di coscienza civica. E in tale organizzazione — sempre tendenzialmente — scompare ogni elemento di autorità come potere morale di dirigere la condotta degli altri, e si dilata — “la natura aborre il vuoto” — il potere come capacità effettiva di governare, come pura coercizione, senza legame con princìpi trascendenti, quindi illimitata e assoluta: è lo Stato totalitario, regime misto delle degenerazioni delle forme di governo secondo la dottrina politica classica, in quanto contemporaneamente dispotico, oligarchico e demagogico, anche se il momento dispotico, impropriamente qualificato pure come “dittatoriale”, è l’elemento descrittivo privilegiato sia dagli osservatori più superficiali e/o maliziosi che dalle vittime meno avvedute, e su di esso, quindi, si concentra l’attenzione dei mass media, come se si trattasse del carattere specifico di quanto è avversato dalle popolazioni viventi in regime totalitario. Ebbene, il regime socialcomunista realizza questo “ideale negativo” in quanto il partito comunista è in esso gruppo d’interesse unico, che elimina strutturalmente e persegue con cura l’eliminazione fattuale di ogni e qualsiasi libertà, e dilata questa eliminazione fino al campo economico: così, il partito comunista — attraverso il suo “ruolo guida” ufficialmente riconosciuto e costituzionalmente sanzionato — egemonizza la società in tutte le sue articolazioni instaurando il dispotismo del proprio segretario generale, l’oligarchia della Nomenklatura — talora selezionata anche su base etnica —, e la demagogia praticata con la manipolazione propagandistica della massa, direttamente e attraverso altri organismi al partito sinergicamente collegati. Ma non il partito unico e il suo ruolo guida specificano tale regime, bensì proprio l’eliminazione della libertà d’iniziativa economica, le cui conseguenze permettono la verifica materiale del suo fallimento globale; e l’offerta contingente e interessata, da parte del potere, di qualche libertà appunto economica, come avviene nelle fasi di “nuova politica economica”, produce immediatamente, da parte delle vittime, la ricerca di spazi politici e culturali — cioè anche spirituali —, ma queste “esagerazioni”, questo “andar fuori dal seminato”, causano fenomeni repressivi come quello che si è verificato in Cina nel 1989, dove è stato posto almeno temporaneamente termine a una perestrojka iniziata a partire grosso modo dal 1978.
c. Il terzo nodo venuto al pettine della storia è appunto storico, ed è costituito dalla condizione particolare dell’Unione Sovietica — lo “Stato guida” del sistema imperiale socialcomunista — che, erede dell’impero degli zar e delle sue colonie in Oriente — esito di una conquista coloniale meno facilmente rilevabile di quella realizzata dagli Stati dell’Europa Occidentale, in quanto svoltasi per via di terra e non di mare —, non ha patito il processo di decolonizzazione.
Dunque, capitalizzazioni del fallimento economico e dell’insofferenza politico-culturale da un lato e mancata decolonizzazione dall’altro, sono venute configurando una situazione che necessitava assolutamente di intervento non solo a medio o a lungo termine, ma anche nel breve periodo, una situazione valutata come morbosa e insostenibile dal vertice della Nomenklatura sovietica almeno dagli inizi degli anni Ottanta e, comunque, per certo inventariata e ben presente a Mikhail Gorbaciov — e al gruppo di cui offre l’immagine — ufficialmente a partire dal suo insediamento al vertice dell’impero socialcomunista nel mese di marzo del 1985.
2. Se quelle ricordate sono le cause “naturali” della perestrojka e della glasnost — la “trasparenza” che si è a essa accompagnata per fronteggiare le smagliature inevitabili a cui si espone la pretesa di un controllo assoluto sull’informazione nel “villaggio globale” contemporaneo —, tali cause servono non solo a render ragione della pratica coatta delle due manovre in questione, ma anche a spiegarne le modalità di realizzazione, caratterizzate in un primo tempo dal subire gli accadimenti, quindi dal permetterli, finalmente dal promuoverli, avendo ben presente la meta, paradossalmente — ma non troppo — esprimibile con la nota formula di un personaggio de Il Gattopardo, di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, quel Tancredi, nipote del principe Fabrizio di Salina, secondo cui “se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”.
Al momento questa pratica, con le sue corrispondenti modalità, si viene articolando con sempre maggiore evidenza. A fronte del fallimento economico e della conseguente gravissima congiuntura politico-culturale ed etnica, che il fallimento economico stesso contribuisce a evidenziare, il gruppo dirigente della setta socialcomunista sta procedendo a una sorta di arroccamento, con doppio regime in relazione, rispettivamente, all’Unione Sovietica e alle parti dell’impero non di eredità zarista.
a. Nel primo caso, cioè per quanto riguarda l’Unione Sovietica, gli elementi di liberalizzazione economica e politico-culturale sono puramente declaratori e non assolutamente istituzionali e strutturali, a meno di non confondere quanto qualcuno fa forzando la glasnost con eventuali realizzazioni della perestrojka, cioè il dire, da parte del Potere, e l’auspicare, da parte di chi si oppone a esso oppure soltanto ai suoi gestori, con il fare. Infatti, non viene meno la chiave di volta del sistema, cioè il ruolo guida del partito comunista, né il “dogma” del sistema stesso, cioè l’abolizione della proprietà privata. Con buona pace degli ingenui, e a confutazione di chi maliziosamente afferma che ormai l’anticomunismo non avrebbe più ragion d’essere, ricordo che “i comunisti possono riassumere la loro dottrina in quest’unica espressione: abolizione della proprietà privata” (1); perciò l’anticomunismo in senso proprio e specifico perderà la sua ragion d’essere pratica — mai quella teorica — soltanto quando anche nell’Unione Sovietica la libertà d’iniziativa economica non si ridurrà derisoriamente alla “libertà d’investimento” da parte delle multinazionali, ma verrà ufficialmente e realmente restaurata la proprietà privata pure dei mezzi di produzione, non soltanto dei beni di consumo; e si tratterà veramente di proprietà privata, cioè individuale, cioè — ancora — personale, e non di altre forme di appropriazione in qualche modo collettiva, anche se non unicamente statale, perché tutte le modalità di appropriazione sono in tesi lecite purché sussidiarie e non alternative — e tanto meno radicalmente sostitutive — rispetto alla proprietà privata, che costituisce la forma di appropriazione per eccellenza e lo strumento privilegiato per la pratica e la realizzazione della destinazione universale dei beni.
b. Nel secondo caso, cioè relativamente agli Stati satelliti, parti dell’impero sovietico non di eredità zarista, il Potere lascia accadere i fatti che non può impedire semplicemente non ostacolandoli, quindi controllandoli quando non evidentemente promuovendoli, nell’intento di costruire attorno all’Unione Sovietica stessa una sorta di cordone sanitario costituito da Stati retti da regimi a tasso tendenzialmente elevatissimo di socialismo, specie di “zone economiche speciali”, in cui si continui la “nuova politica economica”: “In tale prospettiva — osserva Gianfranco Miglio —, l’effetto principale della perestrojka sembra essere quello esterno e cioè la “liberazione” dei Paesi vassalli dell’impero. Questi ultimi, infatti — autorizzati a ritornare ai loro originari regimi “borghesi” (e aiutati dall’Occidente) — dovrebbero raggiungere una certa prosperità e quindi potrebbero aiutare (meglio di quanto già fanno) l’ansimante economia sovietica. I regimi “collettivi-puri” (come quello dell’Urss) sopravvivono infatti sempre e soltanto perché possono utilizzare un’economia di mercato “esterna” che, con una circolazione per così dire “extra-corporea” — sopperisca ai loro bisogni elementari. Si pensi al ruolo che hanno avuto per i russi negli scorsi anni gli aiuti alimentari e tecnologici dell’Occidente” (2). Sembra quindi in via di realizzazione un progetto di trasformazione degli Stati satelliti in “Stati cuscinetto”, legati al centro del sistema imperiale da rapporti economici e militari bilaterali piuttosto che dall’adesione a gruppi — il Patto di Varsavia e il COMECON, in quanto organismi collettivi, possono essere eventualmente mutilati oppure sacrificati sull’altare dell’offensiva propagandistica o della reciprocità nei rapporti internazionali —, mentre i legami dell’Unione Sovietica con essi vengono gestiti come relazioni con “organi” formalmente amministrativi ma sostanzialmente polizieschi piuttosto che con i governi in quanto tali, non più ufficialmente condizionati dall’esercizio di un ruolo guida da parte del partito comunista.
Senza scendere in particolari, osservo che, se qualche membro della Nomenklatura ad extra rispetto all’Unione Sovietica — cioè un capo di Stato o un segretario di partito satelliti — non si presta al gioco delle parti intrinseco alla manovra, in quanto non sufficientemente motivato e non animato da un “eroico” spirito rivoluzionario — come pure per qualche ragione non ideologica —, si provvede alla sua eliminazione anche rapida — così, forse, è accaduto nel caso del presidente della Repubblica Socialista di Romania, nonché segretario generale del Partito Comunista Rumeno e presidente del Fronte della Democrazia e dell’Unità Socialista, Nicolae Ceausescu — affinché non abbia a fare, all’estero o in sede di processo, rivelazioni sgradevoli per l’immagine della setta. Vi è invece chi è sorretto dal citato spirito rivoluzionario — lo stesso che sosteneva gli imputati dei processi staliniani, vittime certe del loro esito —, come il capo della Repubblica Democratica Tedesca, nonché segretario generale del Partito di Unità Socialista di Germania, Erich Honecker, e accetta il ruolo storico di capro espiatorio, cioè carica su di sé le colpe del regime, prestandosi a trasformare in effetto di “corruzione di potente” l’esito connaturato al regime socialcomunista in quanto tale, forse nella prospettiva di un “aldilà” intramondano — semplice ulteriorità storica — costituito da una futura riabilitazione.
3. Mentre l’impero sovietico versa in drammatiche condizioni socioeconomiche e politico-culturali, l’attenzione del suo vertice per il potenziale militare non viene assolutamente meno; infatti, la riduzione quantitativa di questo potenziale sembra essere ampiamente compensata dalla sua “ristrutturazione” qualitativa: “tutti gli esperti del Pentagono, della NATO, degli Stati neutrali […] — nota Pierre Faillant de Villemarest — sanno, e lo dicono o lo tacciono a seconda dei luoghi:
“che il budget militare e gli armamenti dell’URSS sono razionalizzati, ridotti numericamente, ma accresciuti dal punto di vista tecnico, in efficacia, in potenza di fuoco, in mobilità, in rapidità d’intervento. D’altronde, dal 1971 al 1982, quando Breznev parlava già del “carattere difensivo” della dottrina [militare] sovietica (a Tula, nel 1971), di fatto gli armamenti sovietici hanno raggiunto, quindi superato il potenziale americano e quello della NATO;
“che le forniture d’armamenti e il sostegno logistico a favore de L’Avana, di Managua, di Panama, di Kabul, di Hanoi, di Damasco, di Tripoli, di Nuova Delhi e di Teheran, vengono mantenute a un livello sufficiente per andare a profitto dei movimenti rivoluzionari e terroristici dei diversi paesi legati all’una oppure all’altra di queste capitali;
“che lo spionaggio e la sovversione non diminuiscono, anzi, incrementano le loro attività anche in paesi come la Svizzera o la Svezia… che non minacciano assolutamente l’Unione Sovietica!” (3). Stando così le cose, si capisce perché “il quadro strategico — secondo uno studio dell’IAI, l’Istituto Affari Internazionali, di Roma — vede il passaggio da una minaccia ad alta intensità ma di probabilità relativamente bassa, a una minaccia di minore intensità ma di probabilità più alta” (4).
Infine, se il sostegno militare fornito dall’Unione Sovietica a focolai di sovversione come Cuba e Nicaragua viene ridotto a livelli di sopravvivenza, comunque con una ricaduta sulle guerriglie e sui gruppi terroristici sufficiente a garantire la loro operatività, merita di essere notato che — a conferma della manovra di arroccamento evocata — l’impegno in Afghanistan cresce, “è passato da duecentocinquanta a oltre trecento milioni di dollari al mese e a cinquanta aerei da trasporto al giorno” (5), certamente anche a causa della contiguità fisica del territorio afgano con quello sovietico e del fatto che la Resistenza anticomunista in questo paese costituisce un potenziale detonatore nell’area centroasiatica a popolazione turanico-musulmana.
4. Ho parlato — en passant — di “offensiva propagandistica”, parte non secondaria del quadro che vengo descrivendo. Infatti, mentre la Rivoluzione socialcomunista deve battere in ritirata — costretta soprattutto dalle situazioni in cui versa il paese che ne costituisce la base principale, a partire da quelle economiche, le più palesemente disastrose —, con un effetto ottico ben congegnato, prodotto principalmente attraverso il piccolo schermo — ma gli altri mass media portano all’operazione un contributo tutt’altro che insignificante —, il suo vertice si sforza di far percepire tale ritirata all’opinione pubblica mondiale come un’avanzata e di presentare le proprie sconfitte come altrettante vittorie. “Gorbaciov — scrive Saverio Vertone — sembra possedere la misteriosa capacità di trasformare in successi internazionali i suoi insuccessi interni, e sta diventando a poco a poco l’eroe di una leggendaria ritirata. Da quando ha iniziato l’anabasi verso un rifugio ignoto (ignoto probabilmente anche a lui), ha guidato l’Unione Sovietica attraverso un crescente marasma economico e politico, mentre crollava la cintura strategica e ideologica che la proteggeva nel mondo.
“Una valutazione contabile della sua opera in questi primi cinque anni di governo imporrebbe il ricorso alla parola catastrofe. Ed è certo che molto raramente nella storia (e mai nell’URSS) un autocrate ha potuto tenersi in sella dopo aver voltato il cavallo e dato il segnale della fuga. Ma proprio per questo salta agli occhi la natura particolare di questa fuga, che è al tempo stesso obbligata perché senza alternative e inventata, vale a dire guidata freddamente come si guida una ritirata strategica” (6).
Questa “misteriosa capacità” spinge a ricercare e a identificare, almeno genericamente, i potenti partner della Rivoluzione socialcomunista che nel mondo operano per coprirne il fallimento. Così, nel quadro prendono consistenza quanti, personaggi noti e occulti insieme, hanno sostenuto soprattutto finanziariamente fin dal suo esordio il regime socialcomunista, dopo averne favorito l’insediamento. Questi personaggi — propugnatori del rovesciamento del rapporto fra la politica e l’economia e, in campo economico, della gerarchia fra i settori primario, secondario e terziario, nonché della relazione che deve intercorrere fra bisogni e produzione — sono magna pars nei gruppi d’interesse operanti sull’establishment degli Stati del mondo non comunista. Essi, dopo oltre settant’anni di regime comunista, a fronte del suo radicale fallimento, cercano di sostenere con ogni mezzo Mikhail Gorbaciov, a trasformare in una sorta di vittoria una sconfitta per dire il meno clamorosa. Ma, poiché l’aiuto che questi manutengoli della Rivoluzione socialcomunista devono fornire a essa ha obbligatoriamente anche una fisicità, e una conseguente visibilità, proporzionate alle dimensioni dei guasti cui porre rimedio, a tale aiuto vengono premessi, a esso si accompagnano e tentano di coprirlo, la promozione e il sostegno di un’offensiva propagandistica di dimensioni straordinarie perché sia il meno possibile evidente il vero e cioè che i maggiori fautori del socialcomunismo non sono nei paesi che lo hanno realizzato, ma in Occidente; che costoro non intendono lasciar crollare il loro ideale, o il loro strumento — i livelli di implicazione sono diversi, e non obbligatoriamente ideologici —, ma fanno il possibile per salvarne l’immagine come premessa per poterne salvare la realtà — nello stesso tempo salvando anche la propria immagine e, in prospettiva, la propria realtà —, grazie alle capacità “teatrali” del loro partner e agli strumenti di comunicazione sociale, cioè a quel quarto potere che è per loro meno difficile manipolare di quanto non accada nel caso del legislativo, dell’esecutivo e del giudiziario, dal momento che nasce con loro e vive da loro, sì che — è doloroso dirlo — la sua eventuale oggettività costituisce piuttosto un’apprezzata eccezione che una regola ipoteticamente infranta. In questo modo, i sostenitori della Rivoluzione mondiale, “compagni di strada” di quella socialcomunista, tentano di aggiornare la verifica dell’inequivocabile fallimento di un processo plurisecolare attraverso un sostegno materiale, sostanzialmente incondizionato, al suo esito catastrofico, e mediante la copertura propagandistica di questo esito, realizzata con la trasformazione dei socialcomunisti “reali” in “staliniani” o in “corrotti”, cui vengono contrapposti socialcomunisti non meno reali, ma “riformisti”.
5. Se i potenti al di qua e al di là della Cortina di Ferro stanno manovrando per “ristrutturare” il mondo nel quale si è consumato il loro fallimento, le vittime di questo fallimento, i popoli che da decenni — e, in questa prospettiva, il popolo russo costituisce veramente la “nazione guida” — soffrono sotto il regime socialcomunista, sono protagonisti solamente parziali di quanto accade, e, quindi, parzialmente ancora vittime, se non della violenza attuale almeno dell’inganno che può facilmente essere esercitato su chi dalla violenza e dall’inganno — praticati alternativamente o congiuntamente — è stato segnato in profondità quando non spezzato.
In questo modo, “vista dall’esterno — nota sempre Saverio Vertone —, considerata nei suoi effetti visibili, la spallata che sta cancellando regimi, partiti, costituzioni, sistemi economici e persino interi Stati nell’Europa centro-orientale, sembra un miracolo della volontà popolare. E il Muro di Berlino che cade scoperchiando prigioni e latrine di Stato può ricordare a qualcuno le Mura di Gerico che si afflosciano come cartapesta sotto l’urto sonoro delle trombe di Giosuè.
“Non è così. La spallata dei popoli è stata data quando i guardiani avevano aperto le gabbie. Lo schianto improvviso dell’impero comunista finisce nella consapevolezza e nello spirito, ma è cominciato nella materia e nell’economia, ed è passato al vaglio razionale della Realpolitik. […]
“L’erede di Lenin non ha scelto la libertà, ma la sopravvivenza […] [e] cerca adesso di convincere il mondo capitalista a partecipare in extremis al salvataggio di un sistema che per settant’anni si è presentato come un’antitesi mortale al capitalismo” (7). Quindi, quello di Mikhail Gorbaciov “non è un ripensamento, non è una conversione al liberalismo, non è una riaccensione improvvisa della utopia umanitaria racchiusa nel progetto comunista. È lucido, disperato, accanito istinto di conservazione. E va incontro a gravi delusioni chi, rinfacciando all’Occidente il suo naufragio nella carne, la sua torpida sazietà consumistica, attende ancora dall’URSS, dove la carne è stata razionata insieme al sale, al sapone e allo zucchero, la rinascita dei grandi ideali che hanno squassato ed eccitato il nostro secolo. Un contatto anche rapido con il popolo sovietico dimostra che lì, proprio lì, il consumismo è diventato addirittura un’utopia, l’unica vera utopia, proprio perché non ci sono i consumi; che nel Paese del comunismo sono ormai ideali, e non più oggetti d’uso, persino i blue-jeans e le scarpe Saxone; insomma che il pavimento sul quale passeggiano annoiate le masse dell’Occidente, in URSS è diventato il cielo al quale si rivolgono le speranze del popolo, anzi il cielo delle sue più grandi e sentite aspirazioni” (8).
Lo stesso quadro suggerisce a Michail Heller “la pace di Brest-Litovsk nel 1918, firmata dai rappresentanti del governo bolscevico e da quelli tedeschi”, con la quale “Lenin cedette gran parte del territorio russo per conservare il potere”: in analogia, “Gorbaciov vuole e organizza una gigantesca Brest-Litovsk”, sì che lo storico, anche se “non crede che proprio tutto [quanto sta accadendo oltrecortina] sia organizzato”, afferma che “di sicuro [i detentori del potere] hanno organizzato l’essenziale” (9). E questo “aver organizzato l’essenziale” da parte della Rivoluzione, socialcomunista e non, evidenzia crudelmente un’ulteriore “povertà” fra le tante che affliggono i popoli che ha schiavizzato, cioè quella costituita dalla mancanza di gruppi dirigenti alternativi, capaci di denunciare efficacemente, agli occhi di popolazioni provate e fiaccate, la natura mistificante di quella sorta di passerella di “uomini nuovi” che si presentano come alternativi a quelli del passato, e che vengono “de-rubricati” — mai il termine è stato più puntuale — finché il “pubblico” cessa di tumultuare: gesto interpretato immediatamente dai mass media come segno inequivocabile di consenso, mentre il contrario lascerebbe intravvedere altrettanto inequivocabili “rigurgiti nazionalisti”.
6. Ma la realtà predica per sé stessa e non è retorica affermare che, oltre la sofferenza e il dolore indicibili degli uomini, sunt lacrimae rerum: il fallimento che l’estensione della Rivoluzione al campo socioeconomico — cioè la Rivoluzione socialcomunista — permette di verificare è fallimento che coinvolge l’intera Rivoluzione, e non soltanto il suo aspetto socioeconomico, quali che siano gli sforzi messi in campo sia per impedire la verifica di tale fallimento, sia per desolidarizzare appunto la fase socioeconomica della Rivoluzione stessa dalle fasi o aspetti propriamente sociopolitici e socioculturali. Nella sua materialità, la fame colpisce e rivela l’infecondità della rivolta contro Dio, ma questa disastrosa rivolta contro la natura, e quindi contro Dio creatore della natura, è soltanto il momento socioeconomico della rivolta simpliciter contro Dio. E, se “senza dubbio l’uomo può organizzare la terra senza Dio, ma “senza Dio egli non può alla fine che organizzarla contro l’uomo”” (10), come si verifica chiaramente in campo socioeconomico là dove la catastrofe non è conseguenza di calamità naturali, ma solo ed esclusivamente di calamità storiche, cioè promosse dagli uomini stessi, si può e si deve confessare apertamente che tutti gli aspetti della rivolta contro Dio, che nel tempo si dispiegano come fasi della Rivoluzione, come momenti di essa, aut simul stant aut simul cadent. Evidentemente non si tratta di una simultaneità cronologica, ma, per così dire, di una simultaneità logica, di una solidarietà per cui, se è dannoso negare Dio nel settore socioeconomico — e quanto sia dannoso lo gridano le nazioni sotto regime socialcomunista —; se è dannoso allontanare Dio dal settore in cui — a causa di un certo “igienismo” spirituale o “spiritualismo” ignaro dell’Incarnazione — riesce più difficile immaginarlo presente, cioè in quello socioeconomico, l’esito catastrofico di un’”economia senza Dio” induce a riconoscere — o almeno a sospettare — che anche le difficoltà e i danni che si riscontrano in altri settori della vita individuale e sociale degli uomini dipendano dalla stessa causa: infatti, un’”economia senza Dio” richiama, per esempio, una “politica senza Dio”, e così via. E, all’orizzonte, appare evidente che il fallimento dell’aversio a Deo indica nella conversio ad Deum il suo rimedio radicale e unico.
7. Nel 1917, mentre l’avventura socialcomunista prendeva corpo e lo “spettro del comunismo” cessava di aggirarsi “per l’Europa” (11) e si insediava in Russia, per poi da lì prendere a diffondersi con tutti i mezzi in tutto il mondo, la Madonna, a Fatima, in Portogallo, attraverso tre piccoli veggenti, inviava all’umanità un messaggio, un “segreto” in tre parti. Nella prima — relativa agli individui — ribadiva che, se gli uomini non si convertono, vanno all’inferno; nella seconda — riguardante le nazioni — parlava del loro “inferno”, collegandone la tragica realizzazione alla Russia e alla diffusione dei suoi errori; nella terza — credo ormai lo si possa dire almeno indiziariamente — ipotizzava un “inferno” della Chiesa, cioè — considerata la natura della Chiesa, comunità ormai in possesso dei beni celesti e comunità terrena, quindi con una vita anche storica come le nazioni — un “inferno” nella Chiesa, del quale doveva costituire dolorosa conferma — all’inizio degli anni Settanta — la drammatica considerazione di Papa Paolo VI, cui pareva che “da qualche fessura sia entrato il fumo di Satana nel tempio di Dio” (12). Dunque, a Fatima veniva annunciato l’inferno per l’eternità agli uomini, e nella storia alle nazioni e alla Chiesa; e, al messaggio di sventura condizionata e meritata, si accompagnava quello di salvezza e di trionfo, il Regno del Cuore Immacolato di Maria, mediante un ritorno a Dio sostanziale e formale. Relativamente alla Russia, cioè allo strumento dell’inferno storico, la richiesta avanzata dalla Vergine Santissima attraverso uno dei veggenti di Fatima, suor Lucia, comportava, accanto all’aspetto sostanziale costituito dalla conversione e dalla penitenza, quello formale rappresentato dalla consacrazione, con atto solenne e pubblico, della Russia stessa ai Santissimi Cuori di Gesù e di Maria, da parte del Santo Padre e di tutti i vescovi del mondo cattolico.
Avendo presente l’insoddisfazione più volte espressa da suor Lucia per quanto a tutt’oggi fatto nella Chiesa dalla Gerarchia per ottemperare alla richiesta della consacrazione, di fronte a ciò che accade sotto gli occhi del mondo intero, cioè allo spettacolo offerto dal modo con cui la Provvidenza si sta servendo di nodi storici per far avanzare il suo meraviglioso progetto, credo si possa affermare che, se non è stata data esecuzione a tutto quanto richiesto dalla Madonna, poiché qualcosa è stato fatto, qualcosa succede; e che la carenza formale sembra esser stata in qualche misura surrogata dalle “dolorose prove a cui furono sottoposti tanti […], a motivo della loro fede” (13), cioè dal sostanziale tributo di sangue versato, a testimonianza di una conversione radicale, dagli innumerevoli martiri che — fra le centinaia di milioni di vittime — la Rivoluzione socialcomunista ha fatto in oltre settant’anni di potere totalitario esercitato su una parte rilevante della terra e di operazioni sovversive svolte in tutto il mondo.
Quindi, non è forse ancora utile il compimento di atti formali e di gesti sostanziali, affinché quanto sta accadendo non abbia a essere almeno contingentemente vanificato, non ricavando da esso e dalle sue cause tutte le lezioni che se ne possono e se ne devono ricavare, magari permettendo, per colpevole ingenuità, un recupero da parte della Rivoluzione, socialcomunista e non? Saverio Vertone crede di cogliere in Mikhail Gorbaciov “qualcosa di stranamente napoleonico” (14): sarà necessario — conservando la stessa metafora storica — passare attraverso i “cento giorni” prima di assistere al trionfo di Waterloo, presupposto di una Restaurazione, questa volta reale riconciliazione dell’umanità con Dio e la sua legge? Oppure è lecito “sperare adesso che al sarcasmo della storia non si aggiungano l’ipocrisia della cultura, il cinismo della politica e l’indifferenza del mondo” (15)? Ma come sperarlo seriamente, se non da, per e con Maria Santissima, nella prospettiva del trionfo del suo Cuore Immacolato?
Giovanni Cantoni
***
(1) Karl Marx e Friedrich Engels, Manifesto del Partito comunista, a cura di Franco Ferri, con una Introduzione di Palmiro Togliatti, trad. it., 14a ed., Editori Riuniti, Roma 1971, p. 78.
(2) Gianfranco Miglio, Metamorfosi di due imperi, in Il Sole-24 Ore, 20-12-1989.
(3) Pierre Faillant de Villemarest, Les “non-dits” de la vie et de la pensée de Gorbacev, Les dossiers du C.E.I., pp. 7-8, in la lettre d’information, anno XIX, n. 13, 25-11-1989.
(4) Corriere della Sera, 15-12-1989.
(5) P. Faillant de Villemarest, Editorial, in la lettre d’information, cit., p. II.
(6) Saverio Vertone, Il genio della disfatta, in Corriere della Sera, 11-12-1989.
(7) Ibidem.
(8) Ibidem.
(9) Michail Heller, “Attenzione, il demone comunista resta vivo”, intervista a cura di Ulderico Munzi, in Corriere della Sera, 12-11-1989.
(10) Paolo VI, Enciclica Populorum Progressio, del 26-3-1967, n. 42.
(11) K. Marx e F. Engels, op. cit., p. 53.
(12) Paolo VI, Omelia per il nono anniversario dell’Incoronazione, del 29-6-1972, in Insegnamenti di Paolo VI, vol. X, p. 707.
(13) Giovanni Paolo II, Discorso al Presidente del Soviet Supremo dell’Urss, S.E. Michail Gorbaciov, del 1°-12-1989, in L’Osservatore Romano, 2-12-1989.
(14) S. Vertone, art. cit.
(15) Idem, Attenti ai gattopardi, in Corriere della Sera, 29-12-1989.