GIOVANNI CANTONI, Cristianità n. 197-198 (1991)
1. Il 19 agosto 1991, alle 04.00, ora di Mosca, alla vigilia della firma del nuovo Trattato dell’Unione, viene imposto in URSS lo stato di emergenza, dando così inizio alla realizzazione di un golpe, fallito entro i due giorni seguenti. Protagonisti evidenti del golpe e del suo fallimento, con ruoli non sempre ben definiti e ben definibili, sono esponenti di rilievo della nomenklatura — dal Governo dell’Unione Sovietica al KGB e all’Armata Rossa —, il presidente dell’URSS e segretario generale del PCUS, il Partito Comunista dell’Unione Sovietica, Mikhail S. Gorbaciov, il presidente della Federazione Russa, Boris N. Eltsin, nonché, con tratti enigmatici, Eduard Shevardnadze e Aleksandr Iakovlev.
2. Gli scenari ipotizzati per spiegare gli avvenimenti sono di diversa natura, e all’interno di ciascuno di essi le ipotesi subordinate si sprecano. Tutti, comunque, sono più interessati a determinare il grado di maggiore o di minore spontaneità di quanto accaduto contro il golpe, nonché il ruolo svolto da Mikhail S. Gorbaciov, che non a identificare le cause del golpe stesso, abbastanza facilmente identificabili. Queste cause possono essere raccolte in tre gruppi.
a. Il primo gruppo è felicemente sintetizzato da un’affermazione del sovietologo Alain Besançon — pubblicata il 20 agosto, immediatamente a ridosso dell’inizio degli accadimenti —, secondo cui “dopo cinque anni non vi è stata nessuna riforma in URSS, salvo che nell’immaginazione dei giornalisti” (1). E la tesi di Alain Besançon ripropone quanto un anno prima, proprio nell’agosto del 1990, sosteneva lo storico Michel Heller nella conclusione di un’opera cospicua su Mikhail S. Gorbaciov: “La domanda “perché Gorbaciov ha intrapreso la perestrojka“ tollera un’unica risposta: per rimandare al massimo la caduta del sistema sovietico” (2), documentando il drastico giudizio — fra l’altro — con un pregevole capitolo intitolato significativamente Parole, parole, parole… (3).
Dunque, senza mezzi termini, gli anni della perestrojka sono stati anni di parole, cui i fatti talora seguono, ma come pura concessione inevitabile, nello stile della glasnost, della “trasparenza”, consistente nel far sapere quanto non si riesce più a nascondere. Inoltre, il vertice di Londra fra i sette paesi più industrializzati — svoltosi nel luglio del 1991 — segna una gravissima battuta d’arresto per la fortuna di Mikhail S. Gorbaciov, che ha sempre compensato il rapido venir meno del consenso all’interno, raccolto al tempo del lancio della perestrojka, a metà degli anni Ottanta, con il consenso all’estero.
Nello stesso senso della valutazione di Alain Besançon e di Michel Heller va una considerazione dell’economista Georges Sokoloff — pubblicata sempre il 20 agosto —, secondo cui “Gorbaciov aveva perso la fiducia della popolazione e quella dell’apparato” (4). Se la fiducia della popolazione nei confronti di Mikhail S. Gorbaciov è evidentemente venuta meno per delusione, dopo tante promesse non mantenute e tante speranze appunto deluse, quella dell’apparato è certamente venuta meno a seguito del mancato risultato di Londra. E questo mancato risultato è conseguenza, forse, del fatto che anche i maggiori sponsor del leader del Cremlino, soprattutto quelli americani, non sono riusciti a coprire ulteriormente gli inganni sovietici, principalmente militari, rilevati — per esempio e fra l’altro — in occasione della Guerra del Golfo, della visita alle installazioni militari in costruzione a Cuba, svolta dal direttore del KGB, Vladimir Kriuchkov, nel maggio del 1991, nonché dal sostegno costante e oneroso al governo fantoccio afgano; non sono riusciti, quindi, a ottenere dalle istanze governative statunitensi meno soggette a pressioni da parte delle lobby internazionali l’autorizzazione a ulteriori massicci aiuti economici incondizionati all’Unione Sovietica.
b. Il secondo gruppo di cause va ricercato in campo economico, dove la situazione, sulla quale — come negli altri settori — non sono stati operati interventi reali, si fa sempre più drammatica.
c. Infine, il terzo gruppo si trova nelle tendenze centrifughe, cioè nei fenomeni di liberazione nazionale e di decolonizzazione, che mettono in forse la stessa struttura dell’URSS come Stato — quindi dello Stato guida del socialcomunismo internazionale, sì che, sempre secondo Alain Besançon, “sostenere l’unità dell’impero era conservare il comunismo” (5) —, provocando il grottesco e tragico discorso pronunciato da George Bush a Kiev, contro gli indipendentisti ucraini e, quindi, a sostegno dell’URSS “una e indivisibile” (6).
Stando così le cose, a giudizio di significativi membri dell’alta nomenklatura si impone un intervento, il cui scopo potrebbe — dovrebbe — essere anzitutto quello di colpire duramente chi è andato oltre il “lecito”, cioè ha scambiato il “detto” con il “fatto” — come, per esempio, i popoli baltici —, quindi — in una fase di ricompattazione, con “il prevalere del buon senso”, ma a colpi significativi assestati — di raccogliere attorno a Mikhail S. Gorbaciov quel consenso interno che permetta di affrontare il “generale inverno” senza grandi sostegni dall’Occidente oppure di raccoglierli dopo l’irrigidimento, sulla base del timore che si possa ripetere.
È il golpe, che però impressiona per la sua grossolanità, indegna di una grande scuola di sovversione e di repressione, anzitutto perché non arresta preventivamente i suoi possibili oppositori — “nessun putsch al mondo è mai riuscito senza che i suoi autori abbiano eliminato oppure arrestato i loro avversari più pericolosi. Crudele o no, la legge è questa. Bene, i neostaliniani di Mosca hanno immaginato che sarebbe bastato esibire la loro forza per non doversene servire” (7) —; quindi, perché permette il contatto fra chi dovrebbe reprimere e i destinatari della repressione incombente; infine, perché, di fatto, tutto avviene sotto gli occhi dei mass media.
3. Poiché la ragione di questa grossolanità — secondo l’analisi di Pierre Faillant de Villemarest — pare piuttosto da attribuire a un “non essere riusciti” che a un “non aver pensato” (8), sembra serio esprimersi in questi termini: “Le situazioni storiche sono somme — spesso, per non dire sempre, operazioni ben più complesse della somma — evidenti — o abbastanza evidenti — nel loro risultato quantitativo e qualitativo, ma difficili da decifrare quanto agli addendi — o ai fattori — che le hanno prodotte: in altri termini, l’esito, o almeno una parte di esso, degli accadimenti è rilevabile, ma il come si sia giunti a tale esito è campo di analisi degli storici, sia di corto che di lungo respiro, e storici, in questo senso, sono tutti gli analisti dell’accaduto, recente oppure remoto, dal momento che la storia non è esaurita dal passato. Nel caso concreto — se non in genere —,
a. poiché è irrealistico dare per scontata la “bontà” dei protagonisti — il che non esclude assolutamente la loro “convertibilità”, sempre imminente —,
b. poiché l’esito è, in ultima analisi, certamente positivo,
c. non resta che evocare la vichiana, poi delnociana, eterogenesi dei fini, che la saggezza popolare compendia — all’interno di una concezione drammatica dell’esistenza — nell’espressione secondo cui “il diavolo fa le pentole, ma non i coperchi”, senza dimenticare assolutamente il messaggio di Fatima”.
4. Fra i fattori degli accadimenti che si sono svolti sotto gli occhi del mondo intero si può certamente rubricare l’azione di Boris N. Eltsin.
Per tentare di comprenderne la logica — una possibile logica — riesce di indubbia utilità la considerazione conclusiva del volume autobiografico del politico russo, edito in Italia — e nel mondo — nel febbraio del 1990: “A Mosca si dice che al prossimo plenum si prepara un rivolgimento: vogliono togliere a Gorbaciov l’incarico di segretario generale del comitato centrale del PCUS e lasciargli la direzione dei deputati del popolo. Non credo a queste voci, ma se dovesse succedere davvero, al plenum mi schiererei dalla parte di Gorbaciov. Proprio così, dalla parte del mio eterno oppositore, dell’amante delle mezze misure e delle mezze decisioni. E sarà questa tattica a portarlo in definitiva alla rovina, a meno che non riconosca egli stesso questo suo fondamentale errore. Ora però, almeno fino al prossimo congresso, nel quale forse compariranno altri leader, Gorbaciov è l’unico in grado di evitare al partito lo sfacelo definitivo.
“La destra, purtroppo, non lo capisce. Secondo i suoi esponenti non si farà tornare indietro la storia con una banale votazione ad alzata di mano.
“È chiaro: il fatto che circolino queste voci è di per sé sintomatico. Un paese immenso si trova in equilibrio sul filo del rasoio, e nessuno sa cosa accadrà domani.
“Il lettore di questo libro è in una situazione avvantaggiata rispetto a me, perché conosce già questo domani: sa dove sono io, che cosa è stato di me.
“Ormai sa che cos’è accaduto al nostro paese, e a noi tutti…” (9).
Inoltre, aiuta non poco ad ampliare il ventaglio delle componenti del reale storico la lettura di una dichiarazione dello stesso Boris N. Eltsin nel corso di un’intervista raccolta dall’Isvestia, il 23 maggio 1991: “Domanda: In questi ultimi tempi è diventato consueto vedere personalità del governo e della politica assistere a cerimonie religiose riprese dalla televisione. Vedendo questo, sia i non credenti che i credenti si chiedono: “A che scopo e per quale ragione dirigenti, fra i quali Eltsin, si sono volti verso Dio?”.
“Risposta: Parlo per me: Anzitutto, sono battezzato. Il mio nome e la mia data di nascita, com’era regola, sono scritte nel registro dei battesimi. Mio nonno e mia nonna erano credenti. Come mio padre e mia madre, fino a quando abbiamo lasciato la campagna per la città. Poi, ricevendo a scuola e all’università una formazione smisuratamente ideologizzata, ho costantemente ascoltato, letto e — perché nasconderlo — vissuto e condiviso le opinioni più oltraggiose sulla Chiesa e sulla religione. Si tratta di un’educazione che costituisce una colpa pesante e una grave ingiustizia. Come la divisione della gente in credenti e in non credenti. Dopo tutto oggi questa separazione si è venuta a poco a poco attenuando. Detto questo, personalmente rispetto molto la Chiesa ortodossa, la sua storia, il suo contributo alla vita spirituale russa, la sua morale, la sua tradizione di misericordia e di beneficenza. Oggi il ruolo della Chiesa in questi campi progredisce. E, da parte nostra, è nostro dovere reintegrare la Chiesa nei suoi diritti. Non è raro che incontriamo il Patriarca e altri ministri del culto. Quando mi trovo in una chiesa, prendo una candela. Una funzione religiosa di quattro ore non mi annoia. Né me, né mia moglie. Spesso, quando esco da una chiesa, penso che è entrato in me qualcosa di nuovo, di luminoso. E tuttavia non giungo a fare il segno della croce, in pubblico. Qualcosa me lo impedisce. In verità, il fatto è che non bisogna credere a metà. In generale, questo processo è un lavoro spirituale, un lavoro che procede, e che non è più facile della rimessa in questione, a suo tempo, del totalitarismo.
“Domanda: Lei che, in passato, è stato un membro influente del Partito, oggi non si sente colpevole davanti al popolo per quanto è accaduto?
“Risposta: Certamente, provo questo sentimento” (10).
5. Dopo la lettura di due documenti, che costituiscono — in un certo senso — “autopresentazioni” del maggior protagonista dell’agosto 1991, sono di indubbio interesse un giudizio prossimo su di lui emesso da Alain Besançon e valutazioni prossime e remote di Pierre Faillant de Villemarest.
Alain Besançon si chiede: “È Petre Roman o Walesa? Siccome aveva commesso l’errore di collaborare con Gorbaciov, siccome è un ex membro dell’apparato, a Mosca si è dovuto pensare che avrebbe potuto essere, dopo Gorbaciov, l’ultima risorsa del comunismo. Shevardnadze, dal passato tanto torbido, considerato nella sua Georgia natale come un boia, Iakovlev, l’architetto della perestrojka, si prestano ancor più ai sospetti.
“Ma, qualunque sia il suo pensiero intimo, Eltsin ha agito nel momento decisivo e ha smantellato il potere comunista. Vi è spinto da tutto il paese che, da anni, reimpara a pensare, reimpara a parlare e comincia a cacciare la vecchia paura. Egli diventa, bon gré mal gré, il Walesa della Russia. Il comunismo sovietico è in fase terminale? Personalmente sono stato assai prudente in passato, ho sufficientemente denunciato la posizione della perestrojka per nascondere la mia gioia nel rispondere sì. Detto questo, per il nuovo potere, qualunque esso sia, le preoccupazioni stanno per iniziare” (11).
Dal canto suo Pierre Faillant de Villemarest, nel luglio del 1991, affermava che “[…] non bisogna fare il tifo per nessuno, ma neppure “fare gli schifiltosi” […]. Eltsin è meglio di Gorbaciov. Fra i due non vi è una “combinazione”. Le nostre fonti in URSS lo provano settimana dopo settimana. Poi si vedrà, con gli stessi russi, se vi è di meglio rispetto a Eltsin. Non si rimontano settant’anni in un anno o in due” (12); e nell’agosto del 1990 scriveva un articolo intitolato Les Occidentaux, au lieu de soutenir Gorbatchev, devraient traiter avec Eltsine (13).
Finalmente, sempre a proposito dell’uomo politico russo, merita di essere ricordata — qualunque sia la portata che si vuole attribuire al fatto — l’avversione che per lui hanno sempre mostrato e continuano a mostrare esponenti significativi dell’establishment occidentale (14).
6. Il giudizio sull’accaduto mi pare debba essere positivo, sia in sé, sia come passaggio di un processo:
a. in quanto parte di un processo, quello relativo al crollo dell’impero socialcomunista, si passa da situazioni pendenti a fatti concludenti, che consolidano acquisizioni precedenti — quanto avvenuto dal marzo del 1985, ma, soprattutto, dal 9 novembre 1989, data della caduta del Muro di Berlino, ai primi mesi del 1990 —, che possono così essere ascritte nel novero delle situazioni irreversibili, storicamente irreversibili;
b. in sé, poi, si deve rilevare che il motore dell’impero, il Partito Comunista dell’Unione Sovietica, viene fatto emergere da dietro le quinte del golpe e derubricato a forza politica infrastatuale e non più metastatuale, talora privato addirittura di agibilità, attraverso la sua messa fuori legge, talora semplicemente di mezzi operativi, con la nazionalizzazione dei suoi beni; il braccio armato dell’impero, le forze speciali, patiscono almeno un ridimensionamento; alla fine almeno teorica dei “mandati di Yalta” sui paesi dell’Europa Centrale — che ha caratterizzato il 1989 e il 1990 — si affianca la perdita del “bottino di guerra”, costituito dalle repubbliche baltiche e l’esplosione, molto probabilmente non esaurita, della decolonizzazione dell’impero che la Russia socialcomunista ha ereditato dagli zar; l’Unione Sovietica scompare e viene sostituita da una confederazione plurinazionale, non più costituita dalle quindici repubbliche che facevano parte dell’URSS, una confederazione nella quale non mancano certo i condizionamenti per i “minori”, ma indubbiamente i condizionamenti sono minori.
7. Un inventario della situazione dell’impero socialcomunista può essere, allo stato, così descritto:
a. il mito, cioè l’impero socialcomunista come “regno della libertà”, nel quale tocca a ciascuno secondo le sue necessità e a cui ciascuno contribuisce secondo le sue capacità, è assolutamente crollato, anche se ne rimangono elementi sia nei militanti idealisti — per i quali, spesso, militanza significa “gioventù”, per tacere di un’analisi psicosociale prima di genere e poi di specie — sia fra i seguaci della “teologia della liberazione”, e non mancano conseguenze anche fra i cattocomunisti;
b. il potere, cioè l’impero socialcomunista come opera internazionale del “moderno Principe”, è in fase di regressione, soprattutto perché il centro — ormai da qualche anno e sempre più ansiosamente — è impegnato nella propria diretta conservazione: le strutture importanti e specifiche passano da una condizione di presenza patente, anche se di tipo iceberg, alla latenza, attraverso la latitanza e la “riconversione”, la vera perestrojka o “ristrutturazione”; del regresso sono testimonianza gli avvenimenti che hanno interessato i dispotismi africani, e nello stesso senso vanno il caso jugoslavo e quello albanese, mentre anche quelli cubano e afgano sono ormai chiaramente definiti; quanto alla latitanza e alla riconversione, ne costituiscono esempi altamente significativi quelli interessanti i servizi tedesco-orientali, la Stasi, con Die Rote Faust, “Il Pugno Rosso”, da un lato e l’impegno in gruppi industriali dall’altro (15);
c. l’errore, cioè il socialcomunismo come dottrina, tenta di parare il colpo distinguendo dialetticamente fra dottrina e realizzazione, e l’”orchestra” dell’errore è quella che sta patendo meno, in quanto è protetta dall’impunità di cui gode in atmosfera liberale il “cattivo maestro”, nonché da quanti — formalmente non compromessi — tentano il salvataggio intellettuale del proprio “compagnonaggio di strada”; ma non manca chi coglie puntualmente le conseguenze del crollo non solo sul comunismo stricto sensu, ma anche, più generalmente, sul socialismo, e studia provvidenze confessando appunto che “[…] l’idea del socialismo non esce intatta dal crollo del profetismo rivoluzionario e dall’autodissoluzione del comunismo di Stato” (16);
d. il vizio, cioè il socialcomunismo come pratica, come relativismo aggressivo e corrosivo, viene a mancare di un importante referente storico, ma può venir meno solamente grazie alla conversione esistenziale o scomparire con la scomparsa del suo portatore storico; e del vizio è esempio non trascurabile in Italia la pubblicazione Cuore — un “estratto” da l’Unità attraverso l’inserto Tango —, che si presenta come Settimanale di resistenza umana, distribuito dalla Arnoldo Mondadori Editore spa, e descrive adeguatamente che cosa resta dell’errore quando il potere e il mito gli sono venuti meno (17).
8. Considerazione a parte merita un aspetto di quanto sommariamente esposto, e che dice relazione alle possibili conseguenze di esso nel mondo in genere, e in Occidente in specie. Infatti, se i giorni dell’agosto hanno fatto in qualche modo emergere “uomini liberi” — forse, più realisticamente, nella misura in cui vengono emergendo “uomini liberi”, cioè non “tenuti” da organizzazioni internazionali —, una parte del destino del mondo in genere, e dell’Occidente in specie, è nelle loro mani. Si tratta di una parte non strutturale, ma relativa al personale culturale — quindi anche religioso —, politico ed economico: il materiale informativo sigillato nella sede centrale del KGB — lo chiamerei, in analogia con il wagneriano “oro del Reno”, l’”oro della Moscova” — è infatti in grado di destabilizzare e di condizionare — leggi anche “ricattare” — non pochi esponenti di rilievo dell’establishment internazionale.
Giovanni Cantoni
***
(1) Cit. in Pierre Faillant de Villemarest, Les raisons d’un coup d’Etat et de son échec, in la lettre d’information, anno XX, n. 10, 22-8-1991, p. 6.
(2) Michel Heller, Le 7e Secrétaire. Splendeur et misère de Mikhail Gorbatchev, Olivier Orban, Parigi 1990, p. 400.
(3) Cfr. ibid., pp. 383-391.
(4) Cit. in P. Faillant de Villemarest, art. cit., ibidem.
(5) Cit. ibidem.
(6) Cfr. Gianni Riotta, Bush: “Nazionalismo, scelta suicida”, in Corriere della Sera, 2-8-1991; e Appoggio totale di Bush alla politica di Gorbaciov, in L’Osservatore Romano, 3-8-1991.
(7) P. Faillant de Villemarest, art. cit., pp. 6-7.
(8) Idem, URSS, agosto 1991: il fallimento di un colpo di Stato, in questo stesso numero di Cristianità.
(9) Boris Eltsin, Confessioni sul tema, trad. it., Leonardo, Milano 1990, pp. 230-231.
(10) Isvestia, 23-5-1991, trad. francese del passo in cui viene affrontato il problema religioso con il titolo Union soviétique: Boris Eltsine et la religion, in la documentation catholique, anno 73°, n. 2033, 4/18-8-1991, p. 763.
(11) A. Besançon, Les grandes options, in Le Figaro, 31-8-1991.
(12) P. Faillant de Villemarest, La Russie contre l’URSS, in Monde et Vie, anno 19°, nuova serie, 27-6/17-7-1991, p. 7.
(13) Cfr. Idem, Les Occidentaux, au lieu de soutenir Gorbatchev, devraient traiter avec Eltsine, in la lettre d’information, anno XIX, n. 9, 16-8-1991, pp. IV-V.
(14) Cfr. Idem, Les affronts à Boris Eltsine, in Monde et Vie, anno 19°, nuova serie, n. 513, 25-4/15-5-1991, p. 6; Alberto Pasolini Zanelli, Solo Cheney e il Congresso vogliono Eltsin, in il Giornale, 2-9-1991; e Mino Vignolo, Eltsin, tutti i dubbi di Bush, in Corriere della Sera, 15-9-1991.
(15) Cfr. P. Faillant de Villemarest, Le coup d’État de Markus Wolf. La guerre secrète des deux Allemagnes. 1945-1991, Stock, Parigi 1991, pp. 317-334.
(16) Così il testo provvisorio del nuovo progetto del Partito Socialista francese, presentato il 7 e l’8 settembre 1991, discusso dalla direzione del partito l’11 e il 12 dello stesso mese nella prospettiva della sua adozione in occasione del congresso straordinario convocato dal 13 al 15 dicembre: cfr. “L’idée du socialisme ne sort pas intacte de l’effondrement du prophétisme révolutionnaire”, in Le Monde, 10-9-1991.
(17) Fra i prodotti del comunismo senza mito e senza potere ricordo, in Polonia, la pubblicazione porno-satirica No, “settimanale politico d’opposizione”, di proprietà di un noto esponente della nomenklatura del passato regime, Jerzy Urban, portavoce del Governo comunista negli anni Ottanta: cfr. Marcello Mazzeo, Polonia, una democrazia a luci rosse, in Corriere della Sera, 13-7-1991.