GIOVANNI CANTONI, Cristianità n. 207-208 (1992)
Di fronte alla situazione politica, considerazioni su problematiche attuali, di fatto e di principio, e sulle loro implicazioni in alcuni casi concreti di particolare rilevanza e notorietà.
Dopo il rinnovo del parlamento e l’elezione a nono presidente della Repubblica Italiana dell’on. Oscar Luigi Scalfaro; dopo l’insediamento del governo guidato dall’on. Giuliano Amato — un esecutivo che contraddice nei fatti tutto il vociare sul “terremoto” che sarebbe stato prodotto dalla tornata elettorale del 5 aprile 1992, in quanto si regge con il sostegno delle stesse forze partitiche che hanno governato in precedenza —, il quadro politico, nonostante apparenze talora contrarie, non decresce in confusione, premuto da un lato dal cosiddetto “ingresso in Europa” e, dall’altro, dall’insistente e crescente “attenzione” che l’autorità giudiziaria rivolge a esponenti della classe politica, così facendo dello “scandalo delle tangenti” una nuova quinta, e non fra le meno vistose, della scena politica italiana, già resa vivace da quella costituita dalla “criminalità organizzata”.
Prima di un esame dettagliato della situazione — bisognoso di un numero considerevole di premesse, dal momento che si tratta con ogni evidenza della “crisi di un mondo” o della “fine di un ciclo” — può essere utile porsi qualche domanda, preceduta da un’osservazione e cioè che quanto viene accadendo non è senza legame, per dire il meno, con il crollo dell’impero ideocratico socialcomunista, che coinvolge non soltanto i paesi nei quali esso si è realizzato istituzionalmente, ma anche quelli in cui tale realizzazione è avvenuta per via di egemonia, soprattutto culturale, come nel caso dell’Italia; e alle conseguenze di tale crollo non può certamente rimanere estraneo il paese che ha avuto per decenni il triste primato del maggior partito comunista del mondo libero.
Ma per porsi qualche quesito è indispensabile prendere volontariamente oppure occasionalmente le distanze dal “foro”, cioè non guardare la televisione, non ascoltare la radio o non leggere i giornali per un conveniente lasso di tempo — tanto più necessariamente lungo quanto maggiore è la propria intossicazione da mass media —, così esponendosi indubbiamente al rischio di perdere contatto con lo Spirito del Tempo, ma anche a quello — se è un rischio — di riprendere contatto con la propria ragione. Allora — e solo allora — divengono palpabili e consistenti domande che aleggiano nell’aria, senza che a esse venga dato corpo adeguato neppure come domande, tanto meno da parte di chi potrebbe e dovrebbe farlo, dal momento che dichiara di ispirarsi a determinati princìpi e da questa dichiarazione trae la sua forza; e di tali domande diviene consapevole soltanto chi rinuncia a lasciarsi sommergere dall’informazione: si tratta di quesiti che hanno relazione con le riforme, con la loro inserzione in un determinato programma politico nonché con la fondazione della questione morale e con la sua applicazione a tanti casi concreti, di maggiore o di minor rilievo.
1. Nel cuore del dibattito, che si viene svolgendo a margine della vita politica italiana nell’orizzonte costituito dalla fase terminale del settennato del presidente della Repubblica Francesco Cossiga, poi dalle elezioni politiche del 5 e del 6 aprile 1992, quindi nel tempo a esse seguente, domina il tema delle riforme, cui si conviene attribuire l’aggettivo “profonde” quando non “radicali”, così come quello della pubblica moralità, che dà corpo appunto alla “questione morale”.
Se non pare particolarmente significativo interrogarsi circa l’opportunità delle riforme stesse, sulla quale opportunità non è difficile convenire, come non chiedersi quali riforme urgano e, soprattutto, a quali princìpi debbano ispirarsi? Si tratta di quesiti che mettono in questione l’esistente, che è un esistente storico: le riforme auspicate sono rese necessarie semplicemente dalla mutata situazione, cioè devono avere natura di adattamento, oppure si impongono da errore di fondazione, non più tollerabile? Comunque, si tratta di quesiti da difendere anzitutto e previamente dalla risposta senza significato determinato secondo cui si deve trattare evidentemente di riforme democratiche e democraticamente ispirate.
Quanto alla questione morale può darsi perfino che qualcuno si chieda, anche a questo proposito, di quale morale si tratti, dal momento che è terreno tutt’altro che caratterizzato dall’ovvietà: per esempio, la morale di cui si auspica il rispetto è quella che vieta e condanna l’uccisione dell’innocente in genere e l’aborto in specie, oppure quella che maliziosamente non vuole, o drammaticamente non sa, distinguere fra innocente e colpevole, se non quanto a capacità di resistenza, per cui è disposta a ritenere lecita l’uccisione dell’innocente, incapace di difendersi, mentre teorizza il rispetto onnimodo del colpevole, che potrebbe respingere l’attacco o avere amici vendicativi?
2. Tutti coloro che vengono incriminati in seguito all’”inchiesta sulle tangenti” — promossa dal sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Milano, dottor Antonio Di Pietro — possono essere considerati ladri nell’accezione corrente e consolidata del termine? Non è forse necessario identificare con maggior precisione i più significativi fra loro, avendo come primi riferimenti discriminanti sia la stessa quantità di denaro trattato, sia la sua destinazione parapubblica, con questa espressione indicando il mondo dei partiti politici? Infatti, anche se i mezzi di comunicazione sociale qualificano tutti e indiscriminatamente gli incriminati come ladri, se fossero tutti e indiscriminatamente ladri consueti, altrettanto secondo consuetudine sarebbero tempestivamente fuggiti con il maltolto, e se lo starebbero godendo in qualche “paradiso terrestre”. Invece, benché l’atto o gli atti risalgano spesso a molto tempo addietro, vengono trovati in ufficio: non sarebbe più puntuale chiamarli “ladri di regime”, e mettere sotto indagine, se non giudiziaria almeno culturale, il regime dei partiti e la democrazia ideologica di cui essi sono strutture essenziali, identificando nelle “tangenti” gli strumenti di una tassazione extra legem? E — nello stesso senso — non è da considerarsi ricapitalizzazione impropria la sovvenzione a partito politico proveniente dall’estero, come donativo oppure attraverso tangente su attività commerciale?
3. Non è improprio e dubbio continuare a presentare come fenomeno regionalistico la Lega Lombarda, come se si trattasse della versione appunto lombarda o almeno cisalpina della Südtiroler Volkspartei? In occasione della tornata elettorale del 5 aprile e delle consultazioni dell’on. Giuliano Amato per la formazione del governo destinato a subentrare al Governo Andreotti, giornali economici inglesi hanno equamente “tifato” per il Partito Repubblicano e per la Lega Lombarda: forse gli stessi ambienti che nel secolo scorso hanno finanziato l’Unità forzata, operano nel nostro per favorire la disgregazione? Il fine e la strategia di questi ambienti sono mutati, oppure il cambiamento è solamente tattico, quindi il sospetto è lecito?
4. In occasione del pellegrinaggio apostolico dal 19 al 21 giugno 1992 in alcune province della Lombardia, Papa Giovanni Paolo II ha fatto — fra altre — puntuali affermazioni relativamente al dovere di evitare gli scogli dell’egoismo. Ne è nata una polemica di basso profilo, nella quale è intervenuto il professor Gianfranco Miglio, docente emerito nell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. A tale polemica — da cui alcuni esponenti della Lega Lombarda si sono pubblicamente dissociati — si è reagito, in campo cattolico, con maggiore o minor vigore, spostando l’attenzione dal merito — inesistente — alla persona del polemista, e così sollevando implicitamente una domanda più che lecita, senza però dare a essa neppure un’ombra di risposta, né implicita né tanto meno esplicita: il pensiero dell’illustre studioso, oggi accreditato come ideologo del leghismo, è mutato da quando insegnava ancora oppure no? Nel caso si scopra che no — com’è fondato sospettare — come mai ha continuato a insegnare indisturbato nell’ateneo, per il quale annualmente si chiede il contributo economico dei cattolici italiani, senza che nessuno intervenisse? Solo perché quanto diceva non aveva conseguenze politiche immediate? Ma, in questo modo, quante “gazze ladre” sono state nutrite da questo “miglio”? Quanti sono stati “formati” alla separazione fra politica e morale? E quanti, fra i “formati”, sono divenuti dirigenti della Democrazia Cristiana e di altre forze politiche, e dalla separazione fra politica e morale sono stati facilmente “preparati” a comportamenti attualmente degni dell’attenzione della Magistratura?
5. Quando si lamenta il coinvolgimento di esponenti della Democrazia Cristiana nello “scandalo delle tangenti”, proponendo la sostituzione di “uomini politici onesti” ai “ladri”, vista la natura sui generis di una parte significativa di questi ladri, perché non si ipotizza che questa “scuola di ladri” sia tale
a. non solo da debolezza umana sollecitata dall’occasione;
b. non solo da inquinamento da parte della criminalità organizzata;
c. ma anche a causa di una prospettiva ideologica ben descritta dalla formula “dal diritto naturale alla sociologia”?
In altri termini, è lecito meravigliarsi se chi non vive come pensa finisce per pensare come vive, cioè per rappresentare la società com’è piuttosto che operare per farla diventare come deve essere?
6. A questo punto, perché non proseguire nella stessa direzione, cioè nella difficile direzione dell’approfondimento dottrinale e storico? Allora, di nuovo, la posposizione valutativa del pensiero alla vita, cioè l’affermazione teorica e pratica del primato della vita sulla verità è frutto dell’umana debolezza, oppure del riconoscimento del primato dell’esistente rispetto al vero? Più precisamente, del primato modernistico della vita sulla verità o di quello progressistico della storia sulla verità? La rivalutazione della dottrina sociale della Chiesa non è condizione indispensabile per procedere a questo esame? Esso diventerebbe così prova autentica del fatto che tale rivalutazione non è puramente verbale.
Giovanni Cantoni