GIOVANNI CANTONI, Cristianità n. 209-210 (1992)
Tre esempi di “indocilità” al magistero della storia. Qualche considerazione proposta a chi intende “reimparare il buon uso della libertà”.
Qualificare la storia come magistra vitae (1) comporta, nello stesso tempo, affermare una verità straordinaria ed esporsi a una sofferenza altrettanto straordinaria. Se la verità sta nel fatto che l’uomo è protagonista della storia, quindi che da essa si possono ricavare preziose informazioni sulla natura umana, che integrano quelle puramente teoretiche e quelle della Rivelazione, la ragione della sofferenza è che al magistero degli accadimenti — un insegnamento sui generis, in quanto gli accadimenti stessi sono assolutamente bisognosi di ricostruzione, cioè d’interpretazione — si accompagna una corrispondente e significativa mancanza di docilitas a esso. Infatti, tale docilità è insidiata da un’insaziabile curiosità che, invece di acuirla, alimenta uno sforzo in senso contrario, mirante a vanificare appunto il magistero dei fatti sotto la spinta di un’impropria nozione di novità, intesa come realtà assolutamente nuova piuttosto che come ri-presentazione della realtà nota eventualmente consunta.
Le prove di quanto vengo affermando si accumulano sotto gli occhi di chiunque, benché esposto al rischio di essere sommerso dalle informazioni, solo abbia l’avvertenza di sottrarsi acrobaticamente alla loro colata lavica quanto basti per non esserne travolto.
- Comincio con l’esempio più macroscopico: il 9 novembre 1992 cadrà il terzo anniversario dell’apertura del Muro di Berlino, episodio emblematico di ben più significativo avvenimento, realisticamente descrivibile come il momento da cui — almeno in tesi — si è fatto lecito, il che significa solo “formalmente tollerato”, denunciare le condizioni di un mondo umano costruito non solamente senza Dio ma contro Dio. Due anni dopo l’emblematico accadimento, dal 28 novembre al 14 dicembre 1991, in Vaticano, si è tenuta un’Assemblea Speciale per l’Europa del Sinodo dei Vescovi, chiusa con un documento, la Dichiarazione “Siamo testimoni di Cristo che ci ha liberato”, reso pubblico il 13 dello stesso mese (2). In tale documento veniva fatto il punto non soltanto su quanto accaduto due anni prima, ma si portava il giudizio sull’itinerario culturale da cui era nata una situazione drammatica, sfociata in una pluridecennale tragedia; e il giudizio, che coinvolgeva un processo plurisecolare senza fare disorientanti riferimenti personali, non ha avuto recezione di sorta, di fatto a nessun livello, né vi sono sintomi in contrario. Infatti, il socialcomunismo non viene assolutamente letto come esito di un processo, che dal suo fallimento risulta compromesso radicalmente, ma — nella migliore delle ipotesi — tale fallimento è inteso come rottura di una protesi, perciò organicamente indifferente al corpo di cui costituiva articolazione funzionale artificiale, rivelata inaccettabile dal rigetto sociale. Insomma, il socialcomunismo non viene considerato un frutto che permette di giudicare la pianta, ma — al massimo — un innesto fallito, sì che la storia pare riportata al 1847, cioè all’anno precedente la pubblicazione del Manifesto del partito comunista. Prove: talora — spesso —, sotto lo specioso titolo di pratica del perdono, si dimentica la giustizia, come se potesse esistere perdono senza giustizia (3) e come se il perdono senza giustizia non fosse l’ultimo travestimento “pio” del compromesso con l’errore e con la colpa; né si auspica conversione culturale verificabile, a essa equiparando semplicisticamente la frettolosa cosmesi di un mutamento di sigla, dietro la quale rubricare in modo confuso e ingiusto, con il termine collettivo di “partito popolare”, i mentori dell’errore, le loro vittime consenzienti e quelle insipienti.
- Se l’esempio di disattenzione alla storia che ho evocato è macroscopico, ve ne sono altri non meno significativi, anche se di minore corposità oggettiva.
A proposito della situazione della Democrazia Cristiana dopo l’esito della tornata elettorale parziale svoltasi domenica 27 e lunedì 28 settembre 1992, a Mantova, si parla di dramma del partito di “ispirazione cristiana”, cui si pensa di porre rimedio con la nomina del sen. Mino Martinazzoli alla segreteria nazionale.
Non mi abbandono a risate carnascialesche principalmente per due ragioni: anzitutto, perché non posso vantare, e non intendo prendere, nessuna distanza dalla situazione italiana; quindi, perché il partito democristiano continua a essere fatto oggetto di particolare attenzione da parte dell’autorità ecclesiastica e… l’autorità ecclesiastica — evidentemente — da parte mia.
Scartata l’eventualità del riso, devo richiamare quella, già evocata, della sofferenza. Infatti, l’ipotesi di soluzione del problema, riproposto dalla congiuntura e costituito dalla Democrazia Cristiana per rapporto sia all’elettorato in genere che al mondo cattolico in specie, denuncia con ogni evidenza una recidività che credo si possa ormai qualificare tanto insipiente quanto maliziosa, analoga a quella di chi continuasse a somministrare a un paziente in costante peggioramento la stessa pozione, benché si sia rivelata palesemente inefficace, per non dire controproducente, e non solo quanto a effetti collaterali. Infatti, ancora, la sociologia e la storia, cioè le realtà sociali e la loro dinamica nel tempo — una dinamica genericamente culturale e specificamente politica —, aiutano certamente a distinguere fra il mondo cattolico e la sua contingente rappresentanza politica, ma non tollerano prestidigitazioni quando, dalla “confusione dei fatti”, si passi a farne decantare i princìpi. In quest’ottica, la “novità” escogitata per fronteggiare la situazione costituisce in realtà un vecchiume evidente: se è necessario e doveroso operare tutti i distinguo possibili e immaginabili — non si deve rifiutare a nessuno la fruizione di quella perizia di bisturi di cui ciascuno vorrebbe poter profittare personalmente —, non si deve neppure nascondere che, a risolvere il problema, non si può immaginare di officiare chi costituisce se non il problema, certo un problema: infatti, la classe dirigente democristiana, nella sua globalità, è stata ed è portatrice di una cultura — politica e non — di compromesso più o meno ampio e profondo con la cultura — politica e non — che è fallita con il fallimento del socialcomunismo, non certo di una cultura di confronto con essa, cioè capace di coniugare l’indispensabile comprensione per le esigenze degli uomini con l’alternativa radicale nella visione dell’uomo.
Ma ormai — si dirà — non vi sono alternative praticabili, almeno a breve: se vi è del vero nella tesi, si tratta di un vero comunque parziale, dal momento che il mondo cattolico non coincide ancora completamente con chi ne pretende la rappresentanza politica; in ogni modo, nella misura in cui la situazione è resa ancora più tragica dalla mancanza di soluzioni a breve, emerge come altro profilo di drammaticità appunto l’assenza di riserve umane per affrontare la situazione drammatica, anche se nel mondo cattolico, negli ultimi decenni — per non dire grosso modo nell’ultimo secolo —, sono continuamente nati nuovi soggetti, i quali però sono stati metodicamente non dotati di adeguata preparazione morale all’impegno latamente sociale, sì che oggi pare non vi sia nessuno per sostituire nessuno; e questa carenza non solo non è ragione sufficiente per negare oppure per nascondere inopportunamente lo status quaestionis, ma costituisce piuttosto un aspetto di esso, e non il meno drammatico.
- Vengo a un terzo esempio, non meno significativo. La disastrosa situazione finanziaria della Repubblica Italiana e i suoi riflessi sulla vita economica — escludo tutti gli elementi relativi alla congiuntura internazionale non perché ininfluenti, ma perché contribuiscono a massimizzare il disagio, piuttosto che a determinarlo — costituisce fase comatosa del Welfare State, cui certamente si sono aggiunti elementi inflattivi extra legem — in questo modo indico il corrispettivo del cosiddetto “voto di scambio” —, ma senza mutare la natura dello Stato assistenziale e la sua radicale fecondità appunto inflattiva.
Ebbene, a fronte di un esito inflattivo tutt’altro che imprevedibile, chi si fa seriosamente carico dell’austerità che finalmente s’impone, aggressivamente esigendo e con arroganza coartando a collaborare al ripianamento di un bilancio che ha orientato e guidato orgogliosamente a un disavanzo da vertigine? Precisamente chi si è fatto sempre sfacciato propugnatore dello Stato assistenziale e redditiero, profittando dei ritorni politici, cioè partitici, dell’”ipoteca sul futuro” in cui tale Stato assistenziale abbondantemente si esaurisce, compresi gli ufficiali “difensori dei deboli”, i sindacalisti. Si tratta di un chiaro esempio di conversione, sempre mirabile in quanto la conversione comporta sempre una sconfitta dell’orgoglio, e non si dà sconfitta dell’orgoglio senza grazia? Sembra piuttosto che la classe politica speri il proprio salvataggio anzitutto attribuendo parte cospicua dell’esito disastroso alla devianza individuale; poi, denunciando più o meno implicitamente il corpo sociale per un consumismo cui è stato anche indotto; infine — “il lupo perde il pelo ma non il vizio” dialettico —, aizzando la pubblica opinione indiscriminatamente contro gli evasori fiscali; comunque, mai permettendo che venga identificato nell’errore socialista il “peccato intellettuale” politico che ridonda in “peccato sociale” istituzionale.
- Il 20 settembre 1992, a Praga, si è tenuto un simposio internazionale sul tema La nuova libertà religiosa all’Est e il liberalismo dell’Ovest. L’intervento conclusivo è stato svolto da S. Em. il card. Paul Poupard, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, che ha fra l’altro affermato: “La Chiesa si trova oggi dinnanzi a una situazione nuova. Ieri il nemico era chiaramente identificato e vi era dell’eroismo nel combatterlo.
“Oggi la minaccia ha tante forme e bisogna rischiare il ridicolo per combatterla. Il cristiano deve reimparare il buon uso della libertà” (4). Per parte mia, ho iniziato.
Giovanni Cantoni
Note:
(1) Cfr. Marco Tullio Cicerone, De oratore, libro II, cap. 9, 36.
(2) Cfr. il mio Per la “nuova evangelizzazione” dell’Europa, in Cristianità, anno XIX, n. 200, dicembre 1991.
(3) Cfr. don Jean Laffitte, Il Per-dono dell’Altro. Il perdono come modo di esistere della “communio personarum”, in Il Nuovo Areopago, anno 11, n. 1 (41), primavera 1992, pp. 20-50, soprattutto pp. 36-40.
(4) Card. Paul Poupard, “La nuova libertà religiosa all’Est e il liberalismo dell’Ovest”, in L’Osservatore Romano, 28/29-9-1992.