GIOVANNI CANTONI, Cristianità n. 249 (1996)
Grazie a Dio sono cattolico. Non solo “in religione” — per così dire —, ma da un punto di vista lato sensu culturale, quindi sono anche un “cattolico di civiltà”. Perciò, sono cattolico pure in politica. Il che non significa assolutamente essere democristiano. Ma significa che — credente in una religione in cui è centrale l’Incarnazione — apprezzo non solo la cosiddetta sostanza, ma anche la forma. Per cui dissento vistosamente da chi — il professor Armando Plebe —, dopo la manifestazione del 2 dicembre 1995 — che ha visto riunita a Roma, in Piazza San Giovanni, una folla cospicua in risposta all’appello di Alleanza Nazionale La Destra in piazza per il cambiamento. Presidenzialismo, lavoro, lotta ai privilegi, elezioni —, lunedì 4 dicembre, su il Giornale, ha stigmatizzato l’avvenimento enunciando la tesi secondo cui Il chiasso non si addice alla destra (4).
La prospettiva è decisamente riduttiva. Infatti, che più persone non producano un brusio è un’ovvietà. Ma importa chiedersi qual è la ragione del congregarsi in piazza, nel foro, di un numero consistente di cittadini.
Comincio dalla premessa, che può suonare enigmatica. Essere cattolico significa non essere né protestante, né giansenista, né — tanto meno — un “libertino di destra”: come si vede, dopo la fine delle ideologie, gli sforzi classificatori dei continuatori di Linneo sono necessariamente erculei. Essere cattolico significa apprezzare non solo la ritualità liturgica stricto sensu religiosa, ma anche quella politica, quando non intende sostituirsi a quella religiosa, ma si affianca a essa. Infatti, se la politica è un’attività naturale — il che non significa né biologica né “laica” —, cioè derivante dalla natura dell’uomo come voluta dal Creatore, essa ha una sua sacertà, un suo mistero — Bertrand de Jouvenel ha ritenuto di poter parlare de “il mistero dell’obbedienza civile” (5), erede dei classici arcana imperii —, quindi anche un’espressione esemplare del suo ordine, una sua ritualità. Alla liturgia religiosa si accompagna lecitamente, anzi opportunamente — sia come premessa che come conseguenza —, una para-liturgia, espressione della cosiddetta “religiosità popolare” — tanto avversata dall’igienismo proprio di ogni progressismo —, che si manifesta, per esempio, nei pellegrinaggi e nelle processioni. Analogamente, alla liturgia politica, che in regime democratico ha al proprio centro il rito elettorale, si affianca una corrispondente para-liturgia politica, che si concretizza in manifestazioni, in comizi e in cortei.
Sento levarsi forte la denuncia del populismo teorizzato, cui fa eco — nella stessa area di destra — il lamento pretesamente aristocratico, in realtà dandystico, per il “chiasso”, che non sarebbe adatto, appunto, alla destra, così confondendo la privacy con l’isolamento. Ma non mi turbo più di tanto. Come ho detto, prendo atto del fatto che il rito politico centrale del regime democratico è la consultazione elettorale, ma rifiuto la riduzione della liturgia politica al voto, magari espresso telefonicamente o, comunque, telematicamente, dopo una campagna elettorale televisiva, cioè mediatica, cioè — ancora — mediata. E confermo il mio apprezzamento per la para-liturgia costituita dai comizi, dai cortei e dalle manifestazioni.
Perché? Perché si tratta di espressioni concrete, incarnate, della volontà politica, manifestazioni che comportano un’”ascesi”, un autentico sforzo: andare in un posto invece di stare a casa, essere presenti invece di farsi rappresentare, farsi vedere da tutti invece di esprimersi segretamente nel chiuso della cabina elettorale, parlare invece di ascoltare soltanto e — magari — di addormentarsi riflessivamente davanti al piccolo schermo, sacrificare il proprio tempo e manifestare il proprio entusiasmo per un motivo diverso da quello costituito da un incontro di calcio o da una corsa ciclistica o automobilistica, mobilitarsi per una ragione in rapporto con il bene comune, quindi superare il proprio “egoismo”, il proprio “particulare”; finalmente — e soprattutto —, mostrare di perseguire una libertà non solo interiore, neo-stoica, ma anche politica, pubblica, illustrando fisicamente che la piazza non viene colta soltanto come il luogo del mercato, il luogo dove si compera e si vende, ma anche come il foro, il luogo in cui ci si esprime, si è attori, si è persone, perché si sa e si prova che “[…] la libertà — come ha detto Papa Giovanni Paolo II l’8 ottobre 1995 nell’Oriole Park at Camden Yards di Baltimora, negli Stati Uniti d’America — non consiste nel fare ciò che piace, ma nell’avere il diritto di fare ciò che si deve” (6).
Mi sembra che non si tratti di pochi argomenti né di argomenti da poco. Ricordando, fra l’altro, che la presenza “faticosa” e supererogatoria di un numero consistente di cittadini è caparra di una maggiore affluenza alle urne: infatti, tanto più consistente è il focus, tanto maggiore può essere la sua irradiazione, la sua capacità di accreditare e di diffondere la tesi secondo cui “gli assenti hanno sempre torto”; quindi di “far uscire di casa”, di “sdoganare” psicologicamente e materialmente quel “partito dell’astensione” di cui — nonostante la sua corposità — non si studia con adeguata attenzione la natura, e a proposito del quale non basta dire che si tratta di un fenomeno presente in tutte le democrazie avanzate, dal momento che tali democrazie avanzate sono principalmente protestanti, quindi di ridotta esemplarità per interpretare il comportamento del popolo italiano, che non è di cultura protestante.
Né ha senso affermare che comizi, cortei e manifestazioni sono espressioni della sinistra, e che — quindi — è imprudente entrare in concorrenza con essa su questo terreno, che a essa apparterrebbe naturalmente. È vero il contrario. La sinistra è minoritaria e “settoriale”, cioè settaria, “parziale”, cioè partigiana; può servirsi della massa, ma spregia il popolo, e lega il suo successo alla smobilitazione popolare, non alla sua mobilitazione, alla disattenzione del corpo sociale piuttosto che alla sua attenzione: “[…] quando si parla di “mobilitare” le masse — dice magnificamente un personaggio sinistro, un reclutatore del KGB, ne Il Montaggio di Vladimir Volkoff —, in realtà non si ha che uno scopo: immobilizzarle” (7), dal momento che, “[…] a differenza delle rivoluzioni del tempo passato le rivoluzioni moderne si fanno contro la maggioranza e non contro una minoranza” (8), per cui, per esempio, “talvolta […] bisogna frazionare la popolazione in milioni d’individui; ogni cittadino si trova solo di fronte alla maschera di Gorgone che gli viene presentata, si sente disarmato e pronto a capitolare. Si crea quel panico muto alimentando la leggenda della superiorità del nemico, creando un po’ di terrorismo, esercitando il fascino che la biscia esercita sulla rana” (9).
Finalmente, se un giorno — come si deve auspicare — la politica, senza assolutamente tornare a essere tutto, tornerà però a essere ordinamento e orientamento della vita del corpo sociale, garanzia della soggettività della società, cioè riprenderà la sua corretta posizione gerarchica, questo avverrà — non è profezia, ma legittima previsione — quando i politici potranno godere di un consenso non segreto, ma pubblico, espresso non solo con il voto, ma con la presenza, indice della vittoria sul “panico muto” di cui parla Vladimir Volkoff, segno di un coinvolgimento e di una volontà che vanno ben oltre quelli espressi e soprattutto esprimibili con il suffragio elettorale. E tanto vale mettersi su questa strada per tempo, cominciando a esercitarsi. Come non pochi hanno fatto a Roma, in modo encomiabile, il 2 dicembre 1995.
Giovanni Cantoni
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* Articolo sostanzialmente anticipato, senza note e con il titolo Ma la Destra non fa solo “chiasso” se guarda alle vere esigenze del popolo, in Secolo d’Italia. Quotidiano di Alleanza Nazionale, anno XLIV, n. 282, 6-12-1995, p. 6.
(4) Cfr. Armando Plebe, Il chiasso non si addice alla destra, in il Giornale, 4-12-1995.
(5) Cfr. Bertrand de Jouvenel, Del Potere. Storia naturale della sua crescita, trad. it., SugarCo, Milano 1991, pp. 31-33.
(6) Giovanni Paolo II, Omelia nella Messa all’Oriole Park at Camden Yards di Baltimora, dell’8-10-1995, n. 7, in L’Osservatore Romano, 9/10-10-1995.
(7) Vladimir Volkoff, Il Montaggio, trad. it., Guida, Napoli 1992, p. 78. L’autore è nato a Parigi il 7 novembre 1932 in una famiglia di russi “bianchi”, anticomunisti emigrati al tempo della Rivoluzione d’Ottobre. L’opera ha la forma letteraria di un romanzo; pubblicata con il titolo Le Montage. Roman (Juillard/L’Âge d’Homme, Parigi-Ginevra 1982) e tradotta tempestivamente in italiano (Il Montaggio, Rizzoli, Milano 1983), ha uno straordinario spessore documentale, provato fra l’altro dal volume — purtroppo non tradotto in italiano —, che raccoglie il materiale di cui l’autore si è servito per la sua stesura, La Désinformation arme de guerre. Textes de base présentés par Vladimir Volkoff (Juillard/L’Âge d’Homme, Parigi-Ginevra 1986).
(8) V. Volkoff, Il Montaggio, cit., p. 77.
(9) Ibid., p. 78.