GIOVANNI CANTONI, Cristianità n. 249 (1996)
“Tornano i comunisti”. L’espressione — soprattutto dopo l’esito della tornata elettorale di domenica 17 dicembre 1995 nella Federazione Russa — ormai corre e sembra un’ovvietà. Ma non la è e mostra la corda immediatamente, solo che ci si ponga qualche quesito — questo sì — ovvio ed essenziale. Infatti, i comunisti potrebbero “tornare” se mai fossero “andati via”, ma… quando sono “andati via”?
La data “fatale”, l’apertura del Muro di Berlino il 9 novembre 1989, colloca certamente nel tempo cronologico un avvenimento significativo, descrivibile nelle sue grandi linee, ma il cui significato è ancora ampiamente da decifrare. Non è la data di una battaglia, cioè di un episodio di guerra — “il taglio cesareo dell’umanità”, secondo un’espressione di Johann Paul Friedrich Richter (10) —, diversamente si saprebbe chi l’ha combattuta, chi l’ha persa e, finalmente e almeno per esclusione, chi l’ha vinta. Invece, si sono prodotti avvenimenti complessi, di fatto pressoché senza violenza, dalle molteplici cause, storiche, sociologiche, economiche, politiche e culturali, senza escludere quelle preternaturali, cioè diaboliche, e soprannaturali, cioè divine, come suggerisce di ipotizzare la prudenza quando gli effetti non solo divergono rispetto alle cause — un fenomeno ben noto come “eterogenesi dei fini” — ma debordano vistosamente rispetto a esse. In queste condizioni, il termine corretto sembra essere “implosione guidata”, “sconfitta organizzata”, come prova il fatto che i vinti non hanno perduto il potere. E, dove hanno creduto di doverne lasciare la titolarità, “cambiare tutto perché non cambiasse niente”, la stanno riconquistando.
Dunque, il “crollo del comunismo” si rivela essere stato semplicemente una sua metamorfosi, una sua trasformazione caratterizzata dall’abbandono della “mitologia socialcomunista”, non certo del potere da parte dei comunisti.
Concentro a questo punto l’attenzione sulla riconquista della titolarità del potere e noto anzitutto che la trasformazione — insieme forzata e voluta, un altro modo per parlare di “sconfitta organizzata” — è stata pilotata dalle diverse nomenklature comuniste senza che si producessero apprezzabili epurazioni; che il passaggio dal regime di capitalismo di Stato a quello di capitalismo privato ha visto la comparsa di capitalisti di dubbia origine, gli uomini del vecchio apparato, ricchi dei fondi neri dei vecchi partiti comunisti, ampiamente coincidenti con le finanze pubbliche delle cosiddette democrazie popolari. Il regime di libera iniziativa economica e di mercato è stato introdotto da quanti fino a ieri lo negavano di principio con la stessa brutalità con cui ancora ieri lo contrastavano. E — come notava Mario Tronti su l’Unità del 12 novembre 1995 dopo l’esito delle elezioni polacche — “[…] le delusioni che l’economia di mercato riserva ai detentori di un puro reddito da lavoro e la necessità dei nuovi poteri imprenditoriali e finanziari di avere una controparte politica affidabile, si incontrano nel ridare fiducia a spezzoni sopravvissuti e ammodernati della vecchia deprecata nomenklatura” (11).
Cos’è mancato a un esito diverso? In primo luogo è mancata una classe dirigente alternativa. Ma, dove poteva essere preparata e da chi? Poteva essere preparata solo in Occidente, non certo nel GULag, e da chi fosse stato realmente avverso al socialcomunismo, non piuttosto alla ricerca tematica della convivenza con esso, quindi indotto eventualmente alla convivenza solo da ragioni di necessità e non da scelte di natura ideologica. E in Occidente non è stata preparata nessuna classe dirigente alternativa, anzi, sono stati privilegiati dissidenti politicamente insignificanti e sono stati isolati quelli di qualche spessore: un giorno meriterà che qualcuno narri la storia degli ostacoli incontrati in Occidente — in Italia — da Aleksandr Isaevic’ Solz’enicyn e dalla sua opera. Quindi, senza entrare nel merito di singoli episodi significativi, si può dire che, quando il mondo socialcomunista si è trovato di fronte a difficoltà generate da molteplici cause, la sua classe dirigente ha avuto il tempo prima di progettare, poi di organizzare la propria successione, senza patire nessuna concorrenza seria.
Quando, poi, la transizione — pur controllata — è in qualche modo sfuggita di mano ai comunisti e sono venuti alla luce uomini nuovi, il sistema massmediatico mondiale, la voce del mondialismo, ha immediatamente proceduto a denunciare il pericolo nazionalista, senza assolutamente distinguere fra demagoghi, spesso di dubbia ascendenza e dipendenza — come nel caso di Vladimir Wolfovic’ Z”irinovski —, e popoli interi alla ricerca spontanea, quasi riflesso condizionato, della propria identità, un’identità vera o presunta, storica o romanticamente ricostruita, spesso — se non sempre — perseguita senza il tempo di sottoporla a un esame critico. Certo, la tradizione è critica, è un legato, cioè un’eredità al cui interno discernere, tenendo il buono e abbandonando il cattivo; ma quanti — per esempio in Slovachia o in Cecenia — avevano la preparazione e hanno avuto il tempo per operare con freddezza e distacco tale discernimento? Se si può discutere la scelta operata da monsignor Jozef Tiso, quando, nel 1939, accettò di costituire lo Stato slovaco sotto protettorato tedesco, non si deve dimenticare quanto infaustamente disposto, senza le stesse sollecitazioni e urgenze, circa la sorte della Slovachia dal Trattato di Versailles nel 1919. Come non tener conto di questa stessa problematica giudicando il comportamento di quanti, preparati a sopportare sine die il regime socialcomunista e ingaglioffiti in tale regime, si sono visti passare vicino, improvvisamente e senza preavviso e preparazione di sorta, l’occasione della libertà e dell’autonomia, perseguita nei decenni, quando non nei secoli, cumulando comunisti e cechi o comunisti e russi? Ma perché — si potrebbe obiettare — sentirsi incalzati dagli avvenimenti e non affrontarli con serenità, dal momento che ormai il comunismo è crollato? Ma quale serenità poteva avere e quale tempo poteva immaginare davanti a sé chi non era stato aiutato — per esempio — nel 1956 in Polonia e in Ungheria e nel 1968 in Cecoslovacchia?
Inoltre, le nazioni tragicamente sottoposte da settanta o da cinquant’anni al regime socialcomunista, uscivano da una guerra, non dalla seconda guerra mondiale, ma dalla guerra condotta da tali regimi contro i rispettivi popoli. Quindi, erano abbondantemente ferite, perciò bisognose di cure, in linea di massima radicali, di governi forti, autoritari, di dittature, cioè di “ingessature” del corpo sociale. Ebbene, uno dei maggiori guasti prodotto nel linguaggio corrente, per ragioni talora contrastanti e non sempre ignobili, è consistito e consiste nel trattare come sinonimi i termini “dittatura” e “totalitarismo”, giocando su somiglianze formali, sostanzialmente di scarso rilievo. Infatti totalitarismo descrive un regime in cui lo Stato invade la società e tenta di sostituirsi a essa divenendone la struttura non solo portante, ma originaria; dittatura è la sospensione temporanea da parte dello Stato di diritti della società in pendenza di una congiuntura particolarmente grave. Ebbene, ogni dopoguerra è tempo di difficoltà, spesso non solo per i vinti, come hanno provato i tempi seguenti sia la Grande Guerra che la seconda guerra mondiale. Il dopoguerra iniziato nel 1989 non è solo “il terzo dopoguerra” — come suona il titolo di un’opera pubblicata da Furio Colombo nel 1990 (12) —, il dopoguerra della terza guerra mondiale, la “guerra fredda”, ma il dopoguerra della guerra pluridecennale condotta dai regimi socialcomunisti contro i popoli dominati. Sfruttando la giusta avversione al totalitarismo, si è criminalizzata anzi tempo, quindi impedita, la nascita di regimi autoritari: in altri termini, al tossicodipendente, bisognoso di una cura rigida per tornare alla normalità, si è impedito il ricovero a San Patrignano e la salutare sottoposizione al regime corrispondente perché autoritario, creando così le condizioni per la sua ricaduta in potere della droga e dei suoi diffusori ai più diversi livelli.
Dunque, si torna a prima del 1989? Assolutamente no. Infatti, una trasformazione non è una ripetizione. Ma, quando l’avversario è stato costretto a cambiare, non si può giocare al vincitore, ma s’impone di capire quanto è accaduto e, se la vittoria non è stata conquistata, se ne devono almeno organizzare le conseguenze. Infatti, poiché la fatica è una componente rilevante di ogni risultato, quella evitata per una qualsiasi ragione prima della vittoria viene richiesta poi, se non si vuol passare sorprendentemente dalla parte degli sconfitti.
Giovanni Cantoni
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*Articolo sostanzialmente anticipato, senza note e con il titolo Metamorfosi del comunismo, in Secolo d’Italia. Quotidiano di Alleanza Nazionale, anno XLIV, n. 295, 21-12-1995, pp. 1 e 14.
(10) Johann Paul Friedrich Richter, Freiheits-Büchlein [Libretto della libertà], capitolo terzo, parte quinta, in Jean Paul’s Werke [Opere di Jean Paul, pseudonimo dell’autore], Hempel, Berlino s.d. ma 1879, volume 33, p. 39.
(11) Mario Tronti, L’accelerazione della storia, in l’Unità, 21-11-1995.
(12) Cfr. Furio Colombo, Il terzo dopoguerra. Conversazioni sul post-comunismo, Rizzoli, Milano 1990.