GIOVANNI CANTONI, Cristianità n. 250-251 (1996)
Il dottor Lamberto Dini, presidente del Consiglio dimissionario ma non dimissionato, ha concluso l’intervento, svolto alla Camera dei Deputati il 9 gennaio 1996, ipotizzando tre scenari risolutivi, “tre soluzioni alternative” della crisi politica che travaglia la Repubblica Italiana: l’apertura di una “fase costituente”, con “un nuovo Governo di evidente garanzia”, l’insediamento di “un Governo nella pienezza dei propri poteri durante il semestre di presidenza italiana dell’UE”, l’Unione Europea, e la presa d’atto della crisi stessa, con “l’apertura di una fase elettorale”, quindi con l’avviamento delle procedure necessarie alla celebrazione di elezioni politiche anticipate; e ha messo in guardia dall’apertura di una “crisi di Governo al buio” (23).
Indubbiamente l’esperienza storica testimonia che non poche decisioni politiche hanno cause non facilmente riconducibili a razionalità ma della più diversa natura, qual è — per esempio — la forza, che merita piuttosto di essere chiamata violenza quando manca di fondamento morale e, pur essendo esercitata da uomini, si presenta con un esclusivo carattere di fatto. Nonostante questo, credo che la mancanza di razionalità debba essere lasciata alle constatazioni post factum, ma non debba assolutamente essere accettata ante factum come normale, dal momento che è per certo reale, ma non per questo normale, cioè conforme a una norma accettata e accettabile.
Stando così le cose, francamente non capisco le incertezze di quanti accolgono pacificamente e come ovvie le ipotesi enunciate dal dottor Lamberto Dini, sempre che si tratti di incertezze reali e non ostentate, e temono sommamente la “crisi al buio”.
Infatti, alla radice della precaria situazione politica italiana sta una palese difformità fra le indicazioni elettorali del 27 marzo 1994 e i comportamenti tenuti da rappresentanti di forze politiche usciti da tale consultazione. Questa difformità ha permesso l’insediamento di un “governo tecnico”, che appare sempre meno come un modo di transizione verso governi politici e sempre più come soluzione finale, come inizio di un regime tecnocratico, in analogia con una dittatura che non rispetta la propria temporaneità e, perpetuandosi, si fa regime totalitario (24). Quindi il parlamento, che in un primo momento ha saputo esprimere un governo coerente con il mandato popolare ma non l’ha poi saputo conservare, viene praticando il suicidio politico attraverso il sostegno a un “governo tecnico” che — come ho appena detto e ripeto — prelude a un regime tecnocratico, se non ne costituisce già la prima espressione.
Ebbene, se questo è il fatto, non vedo come sia immaginabile che diventi costituente, cioè straordinaria, un’assemblea incapace dell’ordinario, cioè di esprimere un governo politico, e che anzi si muove in un orizzonte politicamente suicidario.
Mi chiedo di quale rappresentatività godano sostanzialmente e nel loro insieme quanti sono stati eletti per fare dell’ordinaria politica e che si sono dimostrati a ciò incapaci al punto da farsi collegialmente esautorare, e neppure con la violenza, ma comportandosi come maggioritariamente consenzienti alla destrezza altrui. Ancora, mi domando come possono costoro essere considerati atti alla riscrittura del quadro istituzionale, se non nella sua integralità, almeno in una sua parte rilevante. Da quando chi non è documentatamente atto al meno, può essere considerato idoneo al più? Infatti, se non si dovesse procedere all’indizione di elezioni politiche, i parlamentari italiani, incapaci di rappresentare politicamente i cittadini italiani, dovrebbero essere ritenuti capaci di riscrivere parte della Costituzione della Repubblica Italiana e d’indicare chi rappresenti lo Stato italiano alla presidenza — sia pure temporanea — del consesso degli Stati europei?
Ma non si può fare diversamente, dirà qualcuno. Poteri diversi da quelli in questione, “poteri forti”, “poteri occulti”, nonché dense vischiosità storiche del passato recente e meno recente impediscono il corso ragionevole delle cose. E poi, non si può continuare in eterno a chiedere elezioni…
Non vedo proprio perché ci si debba stancare di chiedere l’esercizio reale di una modalità della libertà politica e si debba smettere di denunciare, certo pacatamente e chiaramente, senza demonizzazioni improvvide e infondate, ma anche senza timore, le ragioni delle proprie sconfitte istituzionali, il fatto che tale esercizio venga ostacolato, anche se non si capisce sempre qual è e chi è l’ostacolo, il “buio che impedisce la crisi”. La chiarezza si deve coniugare all’umiltà, chiedendo partecipazione e coinvolgimento: “Non ho fatto e non faccio — questa potrebbe essere la dichiarazione di un uomo politico limpido — quello che avevo promesso non perché sia fedifrago, ma perché qualcosa o qualcuno lo ha impedito o lo impedisce così e così. Perciò chiedo comprensione per la monotonia della richiesta di elezioni, cioè di verifica elettorale, e palese espressione di sostegno a essa”, com’è accaduto — per esempio — a Roma, il 2 dicembre 1995 (25).
Diversamente, il rischio grande è quello di “stare al gioco”, che non è semplicemente uno “stare ai patti e ai fatti”, bensì un piegarsi a considerare normale quanto non solo non lo è, ma soprattutto non lo deve essere; con l’esito non di evitare la sconfitta, ma di essere certamente sconfitti, perdendo come classe politica e facendo perdere all’elettorato “per la vita — come scriveva Decimo Giunio Giovenale — le ragioni del vivere” (26). Cioè, accreditando nella psicologia sociale, prima che istituzionalmente, il “governo dei tecnici”. Se si abbandona il mondo politico nelle mani di oligarchie che non traggono il loro potere dal consenso popolare, dal momento che diventa sempre più difficile combatterle perché si è perduta l’unica fonte del proprio potere, cioè il proprio consenso popolare, si induce negli elettori disperazione invece di alimentare in loro seriamente e fondatamente speranza. E allora, Seconda Repubblica — meglio, Nuova Repubblica (27) — addio! Anzi, arrivederci a un’indeterminabile “prossima volta” — se non a una prossima generazione —, ma a un costo più alto, con la necessità cioè che il coraggio civile, oggi episodicamente necessario, diventi un’abitudine e si trasformi addirittura in eroismo. Che — com’è noto — non si vende e non si compera.
Giovanni Cantoni
* Nota del 10-1-1996.
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(23) Cfr. L’Osservatore Romano, 10 e 11-1-1996.
(24) Cfr. il mio Repubblica Italiana: laboratorio per un regime tecnocratico?, in Cristianità, anno XXIII, n. 247-248, novembre-dicembre 1995, pp. 3-4.
(25) Cfr. il mio La destra in piazza, la destra e la piazza, ibid., anno XXIV, n. 249, gennaio 1996, pp. 20-22.
(26) Decimo Giunio Giovenale, Satire VIII, 84.
(27) Cfr. il mio L’alternativa davanti ai Poli delle Libertà e del Buon Governo: Seconda Repubblica o Nuova Repubblica?, in Cristianità, anno XXII, n. 227-228, marzo-aprile 1994, pp. 3-5.