GIOVANNI CANTONI, Cristianità, n. 312 (2002)
1. La ricorrenza
Il primo anniversario degli attacchi terroristici, che hanno colpito il mondo occidentale e cristiano, la Grande Europa, negli Stati Uniti d’America l’11 settembre 2001 (1), è occasione propizia per fare un punto della situazione.
Va premesso che l’attenzione da riservare alla ricorrenza non deve derivare dal fatto che si tratta di data posta in apertura di un nuovo millennio, fatto in sé non particolarmente rilevante in quanto “millennio”: infatti, benché misura cronologicamente consistente, è comunque misura esclusivamente quantitativa del tempo.
La ragione dell’attenzione alla ricorrenza sta nel porsi all’inizio di un’epoca nuova, di un nuovo modo di realizzarsi dell’umanità, e specialmente di un’umanità, quella appunto occidentale e cristiana; dunque all’inizio di un Kulturkampf, di una battaglia per l’elaborazione, la definizione e la diffusione di una cultura, quindi della possibile trasformazione di una società in una civiltà. Si tratta di una civiltà al momento senza un nome, ma, per certo, espressione di una nuova qualità della vita: buona o cattiva, è tutt’altro che indifferente, ma tale qualificazione spirituale e morale dipende dalla responsabilità, dalla risposta di un’umanità storica al dialogo sempre aperto, sia fra l’uomo singolo che fra gli uomini associati, con la morte e con il mistero. Per ogni cristiano si tratta dell’espressione pubblica del suo amore verso il prossimo che vede, prova documentale, testimonianza seria e affidabile del suo amore verso Dio che non vede (2).
2. Un terremoto storico
Venuto meno, nel 1989, il rivestimento ideologico che ha nascosto agli uomini la realtà del mondo umano per almeno cinquant’anni, dalla fine della seconda guerra mondiale alla fine della terza, la cosiddetta “guerra fredda” — un mezzo secolo fra l’altro costituente il culmine di un processo che ha coperto grosso modo cinquecento anni di storia —, è cominciato un tempo nuovo, caratterizzato non certo dal nascere, ma dal nuovamente rilevare delle culture e delle civiltà, nascoste, imprigionate, intisichite per diversi lassi di tempo, talora per secoli, sotto la copertura ideologica, quando non radicalmente devastate dall’inculturazione dell’ideologia (3).
E questo tempo nuovo è stato annunciato con un frastornante colpo di gong: parafrasando un testo scritturale, si potrebbe dire “in commotione diabolus”, “il Demonio si fa sentire nel terremoto” (4), nel caso quello artificiale — perché prodotto da mano d’uomo — costituito dalla scossa conseguente l’impatto terroristico contro le Torri Gemelle a New York e il loro crollo. Si tratta di un terremoto tale non solo da risvegliare da un letargo coatto o volontario — come quello, rispettivamente, di chi è stato emblematicamente o realmente ibernato in Siberia oppure si è fatto banalmente, ma non meno profondamente, distrarre, cioè ha perso la pratica e l’attitudine all’attenzione, in discoteca —, ma tale da costituire possibile fonte di timor di Dio, quindi inizio di saggezza (5).
Gli effetti di questo risveglio e di questa ritrovata saggezza possono essere osservati attorno a noi?
Mi pare di poter dare una risposta decisamente negativa.
3. L’indispensabile consapevolezza …
In primo luogo, né quanto è accaduto nel 1989 né quanto si è verificato nel 2001 sono ormai realmente entrati a far parte in modo verificabile del deposito dell’esperienza, ma sono divenuti solamente tópoi, “luoghi comuni”, di una cattiva retorica, al punto che il quadro di fondo della maggior parte dei giudizi correnti — non solo di quelli emessi dal cosiddetto “uomo della strada” —, cioè dei giudizi che precedono le azioni, non ne tiene veramente conto. Così, si continua a non cogliere che, con il crollo del Muro di Berlino, si è aperta una breccia fatale in tutta la visione del mondo che ha costituito il morbo di cui, appunto nel 1989, è imploso tutto un mondo umano, è morta un’intera civiltà. Non quella del 1988, quella del day before, del giorno prima, cioè non quella detta contemporanea e neppure quella indicata come moderna, ma quella nata dalla conversione al cristianesimo del mondo prodotto dall’incontro fra romanità e germanesimo, e della quale l’età moderna e quella contemporanea hanno semplicemente scandito il ritmo del lungo decorso morboso e, infine, letale.
La continuità senza iato nella percezione psicosociale fra prima e dopo il 1989 impedisce di cogliere la dimensione costituita dal riemergere delle culture e delle civiltà, sì che chi evidenzia il fatto e le sue conseguenze viene risibilmente accusato di promuoverlo. E non soltanto da quanti, en tourist, vorrebbero che le diversità fra i mondi umani fossero limitate ai cibi, agli abiti e ai paesaggi, ma pure da quanti, più informati — non dico colti — lavorano per “fermare la storia” perché hanno pendenze storiche sospese da risolvere: hanno scambiato la storia per il luogo del Giudizio, forse a ciò indotti dalla metafora immanentistica “il tribunale della storia”, e non si rassegnano a trasferire tali pendenze in altra sede, per esempio in quella escatologica del Giudizio Universale.
Così, a causa del primo ritardo — quello relativo alla consapevolezza delle conseguenze del 1989 —, chi non identifica il nuovo scenario continua a distinguere radicalmente fra America ed Europa. E, allora, ecco far bella mostra di sé, e talora far lega — uniti nel lobbing a favore del nazionalsocialista islamico Saddam Hussein —, quanti sono portatori di mai sopiti rancori antiamericani per “offesa ricevuta” in occasione dello sbarco in Normandia; quanti non dimenticano la strizza provata al tempo di un possibile dilagare anche in Europa dell’opera meritoria del sen. Eugene Joseph Mac Carthy e/o la stizza per la vittoria degli USA nella corsa con l’URSS grazie all’impegno delle due amministrazioni guidate da Ronald Wilson Reagan; quanti — infine — non si rassegnano all’emergere di un’America profonda, decisamente meno “secondo Hollywood” e meno liberal di quella rappresentata dalla propaganda progressista, quindi non sopportano la diversità fra l’amministrazione di William Jefferson “Bill” Clinton e quella di George William Bush.
Così — ancora e in genere, dal momento che non mancano eccezioni significative —, facendo propria la nota tesi secondo cui “il nemico del mio nemico è mio amico”, viene alimentato e favorito il secondo ritardo — quello relativo alla consapevolezza delle conseguenze di quanto rumorosamente “rivelato” l’11 settembre 2001 — e il mondo islamico viene assunto come l’alleato ideale. Non s’identificano correttamente i moventi del gesto: né quelli da presunta offesa ricevuta a causa dell’operato colonialistico europeo, né — soprattutto — quelli strutturali al mondo islamico stesso, sintetizzabili nella formula, che sostituisce la vecchia, leniniana, “tutto il potere ai soviet” attraverso la lotta di classe e la dittatura del proletariato con quella nuova, posteriore al 1989, “tutto il potere ad Allah” attraverso il jihad e Al-Qa’ida, “la base”. E piccole grandi lobby rinnovano i “fasti” dei capetti locali, resi imprudenti dalla cecità e dall’ignoranza — allora ben più comprensibili —, che, nella Spagna meridionale del secolo VIII, invitano nella penisola i musulmani berberi per così liberarsi dei propri avversari interni e … cadere preda di quelli esterni. Avviando in questo modo la necessità della plurisecolare Reconquista, mentre l’arcipelago irrazionalistico dei terzomondisti e dei no global si affianca, fratello siamese deforme, all’impenitente impresa di esasperata organizzazione razionalistica del mondo intero, in tutti i suoi aspetti.
… 4. o la tragica inutilità
Apologia dell’Occidente, dunque? No, solamente apologetica per l’Occidente.
Quale la differenza? Nel primo caso sarebbe sottinteso un giudizio di perfezione che non è di questo mondo, quasi una coincidenza fra una cristianità secolarizzata, qual è il mondo occidentale, e il Regno di Dio; e la riserva vale anche per una cristianità non secolarizzata, per una civiltà cristiana. Nel secondo caso dev’essere esplicitata una sospensione di Giudizio Universale — non di competenza degli uomini —, con legittimo apprezzamento per quanto conseguito da un’umanità storica, che ha avuto la grazia — e, quando l’ha accettata, anche un poco il merito — di convivere in modo più o meno felice e/o turbolento, di qualche durata o breve, con la Chiesa cattolica.
Ma i fatti, per costituire lezioni, devono entrare a far parte consapevole dell’esperienza: fino ad allora, le date tragiche o quelle fauste, comunque significative, sono inutili; quindi in qualche modo tutte tragiche e, quando tragiche, di maggior portata, perché per certo segni di avvenimenti, ma, pure per certo, drammaticamente inutilizzate in quanto insignificanti, cioè prive di senso percepito.
Giovanni Cantoni
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(1) Cfr. il mio Dopo il Martedì Nero, coscienza della Grande Europa, in Cristianità, anno XXIX, n. 307, settembre-ottobre 2001, pp. 3-7 e 10.
(2) Cfr. 1 Gv., 4, 20: “Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede”.
(3) Cfr. il mio Dopo il Martedì Nero, un passo verso il “reincanto” del mondo, ibid., anno XXX, n. 309, gennaio-febbraio 2002, pp. 3-4.
(4) Cfr. 3 Rg. 19, 11: “Et post spiritum commotio; non in commotione Dominus”; 1 Re 19, 11: “Dopo il vento ci fu il terremoto, ma il Signore non era nel terremoto”.
(5) Cfr. Sir. 1, 16.