Giovanni Cantoni, Cristianità n. 318 (2003)
Leggo — con dispiacere — su una rivista che mi è molto cara e che seguo con profitto dalla fondazione, Lecture et Tradition. Bulletin littéraire contrerévolutionnaire: “Gli editori americani pubblicano sempre più classici. Un vento nuovo sta soffiando fra gli Appalachi e le Montagne Rocciose? No, né Platone, né Dickens né i loro eredi richiedono diritti d’autore” (1).
Dunque, negli Stati Uniti d’America si pubblicano con sempre maggior frequenza autori classici, sia greco-romani che d’area anglosassone. Accade perché il pubblico li richiede o perché gli editori li offrono: comunque, gli editori li offrono e il pubblico li accoglie. Ed entrambe le tendenze trovano forse il loro fondamento in una presunzione imperiale oppure in un fatto? Come quello di trovarsi a essere un impero, percepito sia dagli editori che dai lettori, con il conseguente — diverso ma convergente —, comprensibile desiderio di capire per exempla che cos’è un impero e che cosa significa esserne cittadini?
Domande vane. La risposta è — né potrebbe essere altra, trattandosi degli Stati Uniti d’America! — costruita su di una furbizia economica e commerciale: per i classici non si pagano diritti d’autore!
Domanda seria: forse gli editori e i lettori francesi non si sono ancora accorti che l’alimentazione della grandeur potrebbe costare poco? Oppure gli editori si sono resi conto che, pubblicando classici, almeno indirettamente istituirebbero pericolosi confronti fra il passato e il presente? Il che sembra giustificare il lucro cessante che nasce dal non pagamento dei diritti d’autore ai morti.
Nota:
(1) Cfr. Lecture et Tradition. Bulletin littéraire contrerévolutionnaire, n. 315-316, Chiré-en-Montreuil maggio-giugno 2003, p. 35.