Giovanni Cantoni, Cristianità n. 320 (2003)
1. I tre significati del termine “mondo”
Al dire di Papa Paolo VI (1963-1978), in primo luogo “mondo può significare il creato, il cosmo: è questo l’immenso universo della creazione, che non avremo mai finito di conoscere e di scoprire, e che può magnificamente servire come scala alla scoperta di Dio (cf. Act. 17, 27); noi moderni, noi alunni delle scuole scientifiche, siamo invitati ad una nuova ricerca di Dio, ad una nuova religiosità — non all’ateismo — proprio per questa via, che fedelmente percorsa ci farà conoscere meraviglie non solo naturali, ma anche spirituali. Il mondo è una grande, stupenda, misteriosa parola di Dio” (1).
In secondo luogo — prosegue lo stesso Pontefice —, “[…] mondo può significare l’umanità. È il senso considerato dal Concilio (cf. Gaudium et spes, 2), teatro del dramma umano, devastato dal peccato, ma amato e virtualmente salvato da Dio e da Cristo. “Così Dio ha amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, affinché chiunque crede in Lui non perisca, ma abbia la vita eterna” (Io. 3, 16). È il campo umano in cui si svolge la storia della salvezza” (2). Merita di essere notato come il Pontefice rimandi, parlando del mondo come creato, come cosmo, ad Atti 17, in cui si riferisce il discorso di san Paolo all’Areopago e dove, al versetto 28, la condizione dell’uomo viene descritta come quella di un essere vivente incluso in Dio (3), sì che ogni opinione sul mondo è per lui espressa “da dentro”, dall’interno del cosmo, non “da fuori”; mentre appunto “da fuori” viene la Rivelazione, che, per essere compresa, deve servirsi del linguaggio “di dentro”, di un linguaggio a un tempo umano e cosmico.
Finalmente — conclude Papa Paolo VI —, “[…] vi è un terzo significato del termine “mondo”; ed è il significato cattivo e ostile. Il mondo, in questo senso, è ancora l’umanità, ma quella resa schiava dal mistero del male, è la negazione e la ribellione al regno di Dio, è la coalizione delle false virtù, rese tristemente potenti dal loro affrancamento dal fine supremo; è in pratica una concezione della vita deliberatamente cieca sul suo vero destino, e sorda alla vocazione dell’incontro con Dio; uno spirito egocentrista, drogato di piacere, di fatuità, d’incapacità di vero amore. Ed è, tutto sommato, la “fascinatio nugacitatis” (Sap. 4, 12), la seduzione dei valori effimeri e inadeguati alle aspirazioni profonde ed essenziali dell’uomo; una seduzione, che incontriamo ad ogni passo della nostra esperienza temporale, e che ci può essere fatale” (4).
Per svolgere in qualche misura il tema Il mondo prima di Cristo, mi servo principalmente della seconda accezione, il “mondo come umanità”, anche se dovrò far riferimento anche alle altre due accezioni — la prima, il “mondo come creato”, come “cosmo”, e la terza, il “mondo come maligno” e chi dal maligno si lascia schiavizzare — almeno in qualche loro relazione con la seconda.
2. “Prima”
Circa il “prima”, lo leggo anzitutto cronologicamente, cioè come a indicare l’uomo nato prima dell’Incarnazione del Signore Gesù, l’avvenimento di cui la Chiesa cattolica ha celebrato il duemillesimo anniversario con il Grande Giubileo dell’anno 2000. Quindi, mi avvalgo anche di una lettura che, da un punto di vista filosofico — cioè di riflessione sistematica e organizzata sul reale —, si potrebbe chiamare logica, mentre in un’ottica teologica — che, perciò, tiene conto della Rivelazione e riflette su di essa — dev’essere indicata come kairologica, cioè fatta sulla base del kairós, del tempo forte e propizio in cui qualcuno, benché nato cronologicamente dopo Cristo, incontra il Signore Gesù attraverso la missione, l’annuncio da parte della Chiesa cattolica, mentre la sua condizione, fino al momento fatale del suo incontro con Cristo, lo situa prima di Cristo.
Dunque, vi è un mondo pre-cristiano in senso cronologico e vi è un mondo pre-cristiano in quanto extra-cristiano. Né va dimenticato che, quando si parla d’incontro con Cristo attraverso la Chiesa, di fatto si tratta dell’incontro con Cristo attraverso un cristiano, Cristoforo, “portatore di Cristo” — nell’autocomprensione di Cristoforo Colombo (1451-1506) “Christo ferens”, “che porta a Cristo” (5) —, dal momento che si dà incontro esclusivamente fra persone e non fra istituzioni o culture, le quali — come si vedrà — delle persone sono abiti, importanti ma da non confondere con le persone stesse, e neppure con la “persona”, che dell’”individuo” è “maschera”: “Strettamente parlando — afferma infatti il filosofo argentino Alberto Caturelli —, non è possibile un incontro fra culture considerate, ciascuna, come una totalità; le culture non si “incontrano”. Si incontrano le persone colte o, semplicemente, le persone, dal momento che non si ha incontro che non sia personale. Ma, di più: due uomini si sentono personalmente prossimi essendo, forse, ciascuno, rappresentante di società lontane e anche di culture diverse, quando la cultura, precisamente, li unisce o li mette in relazione […]. E ciò avviene, perché l’incontro — e mi riferisco a un incontro culturale — è sempre personale, individuale-personale. Senza dubbio, nessuno può negare le reciproche influenze tra le diverse culture; ma in tal caso si deve riconoscere che le persone sono i vasi comunicanti fra le culture, e non queste ultime, considerate come totalità astratte, globalmente intese” (6).
3. L’uomo “carente”
Dunque, non prendo in esame l’uomo come creato da Dio e non soltanto, in genere, “a nostra [di Dio] immagine, a nostra somiglianza” (Gen. 1, 26), ma, in specie, a immagine e somiglianza di Cristo, modello della creazione tutta (7). Né esamino la sua natura, che lo evidenzia come bisognoso di tutto e degli altri, così rivelando immediatamente la sua socialità strutturale: lo scrittore latino Gaio Plinio Secondo, detto il Vecchio (23-79), descrive con straordinaria efficacia questa condizione in una pagina memorabile dell’Historia naturalis; vi si legge, infatti, che la natura “soltanto l’uomo […] getta nudo sulla nuda terra, il giorno della sua nascita, abbandonandolo fin dall’inizio ai vagiti e al pianto e, come nessun altro fra tanti esseri viventi, alle lacrime, subito, dal primo istante della propria vita. […] E ogni altro essere sente la propria natura: chi impara a correre velocemente, chi a volare con celerità, chi a nuotare. L’uomo invece non sa far nulla, nulla che non gli sia insegnato: né parlare, né camminare, né mangiare; insomma, per sua natura, non sa fare altro che piangere!” (8). Si tratta di una pagina dalla quale non si può assolutamente prescindere per capire sia “l’uomo” sia “gli uomini”, e che viene in un certo senso sintetizzata da san Tommaso d’Aquino (1225 ca.-1274) nel De regimine principum (9) ed echeggia almeno fino a Mes idées politiques dello scrittore e uomo politico francese Charles Maurras (1868-1952) (10); quindi lo scrittore e filosofo tedesco Johann Gottfried Herder (1744-1803) riprende la tesi con diversa sensibilità (11), e la sua progenie giunge almeno dichiaratamente fino all’antropologo, pure tedesco, Arnold Gehlen (1904-1976) (12), che l’arricchisce di verifiche positive, scientifiche. E lo stesso san Tommaso evoca il passaggio dell’uomo dall’utero materno all’”utero sociale”, su cui primeggia quello familiare: “[…] uscito dall’utero, prima di potersi servire del libero arbitrio, è tenuto sotto la cura dei genitori come in un utero spirituale” (13).
Quindi, comincio prendendo semplicemente in considerazione l’uomo caduto, quello caratterizzato dalla natura lapsa, dalla natura ferita dal peccato originale. Quali sono i suoi tratti? È ferito, colpito da vulnus nell’intelligenza, nella volontà e nella memoria; anzi, secondo la sequenza proposta da sant’Agostino nel De Trinitate, nella memoria, nell’intelligenza e nella volontà, le tre potenze dell’anima che testimoniano l’orma trinitaria impressa appunto nell’anima umana, l’orma del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, nella quale cioè i cristiani possono vedere, “[…] come in uno specchio, per quanto lo possono e se lo possono, il Dio Trinità, nella nostra memoria, intelligenza e volontà” (14). In proposito, il santo filosofo e teologo ritiene di dover avvertire “[…] che questa immagine che è opera della stessa Trinità, […] è stata deteriorata dalla sua propria [dell’uomo] colpa” (15), sì che “[…] si deve evitare di compararla alla Trinità come se le fosse in tutto simile, ma si deve vedere anche una grande dissomiglianza in questa tenue somiglianza” (16).
Dunque — ancora —, la colpa originale ha prodotto ferite reali, benché non mortali, che però permettono all’uomo di ricordare, d’intuire e di volere, benché non fermamente.
Gli storici della filosofia Giovanni Reale e Dario Antiseri, istituendo un confronto fra pensiero greco e messaggio cristiano, erigono un catasto, o almeno una sorta di catalogo dei frutti amari del vulnus intelligentiae, cioè dei difetti dell’uomo post peccatum dal punto di vista dell’attività dell’intelletto, quindi quelli di particolare rilevanza filosofica, che evidenziano sia enormi differenze sia antitesi non assolutamente insanabili, dunque suscettibili di sintesi non forzate: la concezione di un Dio non uno e non unico piuttosto che una prospettiva monoteistica e trascendente; la derivazione mediata delle cose da Dio piuttosto che la loro creazione immediata dal nulla; un orizzonte incentrato sul cosmo piuttosto che sull’uomo; la nozione della legge morale come legge della physis, come legge della natura stessa, piuttosto che come comando di Dio; la riduzione della Provvidenza a fato, comunque a governo del cosmo, piuttosto che attenzione anche alla vita dei singoli uomini; una percezione confusa della colpa originaria, cancellabile per virtù di conoscenza e “naturalmente”; la riduzione dell’uomo a corpo e ad anima, senza partecipazione al divino attraverso lo spirito e la fede; un rapporto con Dio che, in primo luogo, sale dal sensibile al soprasensibile, piuttosto che essere una discesa di Dio verso gli uomini; l’immortalità dell’anima piuttosto che la risurrezione dei corpi; da ultimo, un giudizio d’insignificanza della storia piuttosto che la sua lettura come itinerario verso la fine dei tempi e il suo fine, il regno di Dio (17).
Con queste ferite, con questi deficit, con questi “difetti”, l’uomo incontra il “mondo” in tutte le accezioni evocate, compresa quella di cui fa parte, l’umanità, “gli uomini”, “gli altri”, presenti e, attraverso quelli presenti e la loro cultura, anche passati. Ma l’uomo non è dotato — per così dire — soltanto di deficit, di carenze, di difetti, ma anche di resti, di residui, di sopravvivenze della sua condizione paradisiaca, anteriore al peccato originale, nonché di riflessioni su di essa e a partire da essa, il “sudore del tuo volto” di cui si parla in Genesi 3, 17; infine, di accumulo di esperienze e di realizzazioni ricavate da tali esperienze, derivate dalla necessità e dalla difficoltà di fronteggiare gli ostacoli a vivere, i rimedi preventivi e conseguenti contro le “spine” e i “cardi” di cui si parla sempre in Genesi 3, 18.
I resti, i residui, le sopravvivenze, le “superstizioni” nel significato etimologico del termine e nei suoi diversi significati culturali (18), sono ricordo di tutto ciò di cui era dotato, del suo patrimonio nel Paradiso terrestre e vanno a costituire la Tradizione, con la maiuscola. Di essa, benché non trattata al singolare e con la maiuscola, il diplomatico e scrittore savoiardo conte Joseph de Maistre (1753-1821) afferma: “[…] le tradizioni antiche sono tutte vere; […] l’intero paganesimo non è altro che un sistema di verità corrotte e spostate; e […] è sufficiente, per così dire, ripulirle e sistemarle al loro posto per vederle risplendere in piena luce” (19).
Ma “di “tradizione” si potrà parlare — sostiene dal canto suo il filosofo tedesco Josef Pieper (1904-1997) — solo quando si disseminerà non qualcosa di personale, bensì qualcosa di ricevuto” (20), quindi un dono che, dunque, rimanda a un Donatore. Quanto alla natura del fatto, importa aver presente — la notazione è sempre del filosofo tedesco — che “[…] la ricezione di un traditum si differenzia dall’imparare e […] la tradizione si distingue da quel processo di apprendimento collettivo che chiamiamo progresso culturale” (21); e ancora: “La trasmissione delle conquiste […] è tanto poco identica con l’atto della tradizione quanto lo sono il conservare da una parte e il migliorare dall’altra” (22): “A buon diritto, dunque, è stato avvicinato da tempo al concetto di tradizione il concetto (che sarebbe bene dire ben più che affine) di “ricordo”, e questo perché ad entrambi è comune il principio che un qualcosa, accaduto una volta (o detto o sperimentato un giorno) deve essere tenuto presente alla coscienza identicamente“ (23).
La fonte immediata di tale Tradizione è Dio: infatti va rilevata “[…] l’esistenza, fin dalle origini dell’umanità, di una Rivelazione divina al di sopra della testimonianza che Dio offre di Sé attraverso le creature; una Rivelazione, quindi, soprannaturale, indirizzata a stabilire tra l’uomo e Dio un rapporto di amicizia ed intimità al di sopra del rapporto creatura-Creatore. L’uomo, infatti, fu creato in uno stato di santità e giustizia, dal quale cadde a conseguenza del peccato (peccato originale). Lo stato di peccato è di privazione dell’amicizia e intimità con Dio; di privazione, quindi, della grazia soprannaturale che deifica l’uomo facendolo partecipe della vita intima della Trinità divina. Questo stato, accompagnato anche dalla sofferenza, dall’indebolimento delle capacità naturali di conoscere la verità e di fare il bene, e dalla soggezione alla morte, si trasmette poi a tutti gli uomini insieme alla natura umana” (24).
Di questa Tradizione, trasmissione di Rivelazione soprannaturale primordiale, nel decorso degli anni, dei secoli, delle ere, sono fonte mediata gli archáioi, i paláioi, gli “antichi”, non coincidenti con i vecchi, gli anziani, ma con gli uomini delle origini, gli uomini del principio, gli uomini vicini al principio, gli uomini vicini a Dio (25), sì che tale Tradizione è una “tradizione primordiale” (26). I loro mezzi di trasmissione sono il rito e il mito, il linguaggio gestuale e quello vocale, identificabile — la tesi è mia — con il “priscus ille dicendi et horridus modus”, con “il modo di esprimersi primordiale e rozzo” di cui parla lo storico latino Tito Livio (59 a. C.-17 d. C.) introducendo l’apologo di Menenio Agrippa (27): “modo di esprimersi” attraverso il quale, secondo diverse modalità e prospettive, in un certo senso si riattualizza, si ripete l’illud tempus, il tempo felice della comunicazione con Dio, e si ricorda quanto allora si è appreso, quanto allora è stato “rivelato” (28), sia in parole che in opere.
Contro una vulgata che si limita a cumulare, quindi a confondere, espressione e trasmissione di miti e creazione letteraria di essi, dunque contro una vulgata depistante rispetto alla complessità del fatto, illumina quanto sostiene lo scrittore greco Plutarco di Cheronea (50 ca.-120 ca.), in Beozia: “Che però tali miti non somiglino affatto a quelle vaghe fantasticherie e a quelle vane favole, quali gli scrittori di versi e di prosa traggono da se stessi a guisa di ragni, tessendo e stendendo le loro malferme primizie letterarie, e che al contrario serrino in sé esposizione di dubbi e di esperienze, tu [Clea, sacerdotessa in Delfi, contemporanea di Plutarco, alla quale è dedicato lo scritto] lo capirai da te stessa. Proprio come gli scienziati dicono che l’iride risulta dal fenomeno di riflessione del sole e deve le sue varie gradazioni di colore al nostro sguardo, che si ritira dal sole e si volge alla nube, così, parimente, il mito, per noi di quaggiù, non è altro che il riflesso di una verità superiore, che torce il pensiero umano in una direzione sensibile” (29).
Sintetica e qualificata esposizione del fenomeno si può trovare nella Breve storia della religione, fatta compilare da Papa san Pio X (1903-1914) per il Compendio della Dottrina Cristiana prescritto da Sua Santità Papa Pio X alle Diocesi della Provincia di Roma, del 1905, in cui si legge “[…] che la religione fin dal principio dovette essere rivelata, ossia svelata da Dio all’uomo” (30) e che “quindi è chiaro che tutte quelle, che diconsi religioni, fuori dell’unica vera rivelata da Dio, […] sono invenzioni degli uomini e deviazioni dalla Verità, della quale talune conservano una qualche parte, mista però a molte menzogne ed assurdità” (31).
Tornando al mito, con il rito uno dei mezzi di trasmissione della Verità primordialmente rivelata, faccio eco all’affermazione, certificata da Papa san Pio X, ricordando, con il pensatore colombiano Nicolás Gómez Dávila (1913-1994), che “vi sono miti che distorcono e miti che chiariscono” (32) e che “il mito è una categoria proposizionale, suscettibile di verità o di errore, come qualsiasi proposizione” (33).
“Che cos’è il mito — si chiede il pensatore spagnolo Rafael Gambra Ciudad —, questa oscura nozione con la quale alludiamo a tutta una mentalita dalle frontiere ignorate?
“In un primo e più elementare significato, mito significa favola, racconto di fantasia. Per estensione, menzogna. Da ciò l’aggettivo mitomane applicato a chi mente gratuitamente, per gusto o per tendenza morbosa, non solo per necessità o convenienza. Mito è, in questo senso, qualcosa d’irreale che si esprime o si propone alla mente con l’intento d’ingannare. Questo era il giudizio comune durante i secoli cristiani sulla mitologia o religione antica grecolatina, sui suoi racconti e sui suoi personaggi.
“In un altro senso più profondo mito è un sapere — e mitico un modo di sapere, di pensare e di reagire — caratterizzato da queste condizioni: è principalmente immaginativo, è marcatamente emotivo, ha una connotazione religiosa e un’espressione poetica” (34).
Dal canto loro, le esperienze dell’uomo, sia materiali che spirituali, vanno a costituire la tradizione, con la minuscola, il progresso trasmesso, le “tradizioni” (35). Ma nell’uomo dopo il peccato originale sopravvive il ricordo di una condizione in cui era in un altro rapporto con Dio. Il peccato denuda l’uomo, che reagisce rivestendosi, cioè mettendosi addosso abiti — prendendo abitudini, relazioni — che hanno il compito di surrogare quelli perduti: “[…] intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture” (Gen. 3, 7). Tutte le civiltà sono in via di principio contenute in questo gesto originario. Gli uomini si dotano di elementi per restaurare una condizione della quale hanno nozione. In quest’azione la Provvidenza generalissima o naturale, che si estende a tutte le nature, compresi gli esseri inanimati e quelli privi di ragione (36), è accompagnata dalla Provvidenza speciale, cioè dall’ordinario intervento di Dio relativamente alle creature razionali, e più precisamente all’uomo, soggetto della storia sacra e della divina Rivelazione, cioè dalla Provvidenza detta soprannaturale (37): infatti, cacciandoli dal Paradiso terrestre, il “Signore Dio fece all’uomo e alla donna tuniche di pelli e li vestì” (Gen. 3, 21). Benché con diverso riferimento scritturale — infatti il rimando è all’esodo dall’Egitto e al rapporto con i beni portati con sé dal popolo ebraico (cfr. Es. 3, 21-22; e 12, 35-36) —, anche sant’Agostino interpreta “veste” come “istituzione umana”: “Veste, cioè le istituzioni, opera di uomini, che siano aderenti alla convivenza umana, alla quale in questa vita non possiamo sottrarci” (38). Delle medesime tradizioni si trova consapevole espressione, per esempio, in un passo del pensatore, uomo politico e oratore spagnolo Juan Vasquez de Mella y Fanjul (1861-1928): “La tradizione, considerata soggettivamente, è un sentimento che si fonda sul rispetto degli antenati; considerata in sé stessa è trasmissione e, lungi dal significare cosa pietrificata, implica il movimento, dal momento che suppone qualcosa che passa da alcuni ad altri. Ciò che può, e spesso non deve cambiare sostanzialmente, è quanto viene trasmesso: credenze, sentimenti, costumi, istituzioni e aspirazioni di un popolo” (39). E ancora, con evidente percezione della tradizione non solo con la minuscola, le “tradizioni”, ma anche con la maiuscola, la Tradizione, il Verbo de la Tradición sentenzia: “[…] una delle differenze essenziali fra l’uomo e l’animale è il tradizionalismo, al punto che si potrebbe dire che l’uomo è un animale tradizionalista e che quello privo di ragione è un essere antitradizionalista” (40): e afferma: “La tradizione è il progresso ereditario, e il progresso, se non è ereditario, non è progresso sociale” (41).
Ma, sia il ricordo che l’esercizio dell’intelligenza e della volontà sono insidiati dal maligno: l’uomo sa — ricorda di aver appreso —, impara e vuole, ma è senza garanzie di sorta, che non siano frutto dell’esito dell’esperienza, e l’esperienza è — in qualche modo — un’incarnazione dolorosa post peccatum, qualcosa di definitivo, certamente redimibile come colpa, ma non eliminabile come pena. Non gli mancano verità da credere, di tutti gli ordini, ma si tratta di verità non garantite da un magistero dotato del carisma dell’infallibilità, del discernimento, almeno passivo, non misto a errore. Né gli manca la grazia, l’aiuto soprannaturale racchiuso nel gesto conforme a Tradizione, nel sacramentum naturae.
4. La “favola” vera: “Myth Became Fact”
Sarà necessario che tutte le “parole” vengano instancabilmente verificate dal confronto con la Parola e ordinate alla Parola stessa: “Un pensiero cattolico non si placherà finché non avrà ordinato il coro degli eroi e degli dèi intorno a Cristo”, afferma Gómez Dávila (42); soprattutto, sarà necessario che la Parola si faccia carne perché l’incontro instabile dell’uomo con il cosmo si stabilizzi almeno concettualmente: la divisa dei certosini recita appunto stat Crux dum volvitur orbis. Sarà necessario che i riti e i miti, i gesti e le parole significative si trasformino in gesti e parole per sempre, da tesi, quali erano e quali sono, sempre più tenui per il trascorrere del tempo e per l’inquinamento da errori a opera del maligno; tanto tenui da apparire infine come racconti vuoti di realtà, “favole”: ma quale favola può essere costruita senza materia vera, senza presupporre il falso, cioè che l’uomo sia creatore vero nomine, quindi ex nihilo? De Maistre si permette di fare dell’ironia in proposito: “[…] presso tutti i popoli del mondo — scrive —, prima che diventasse dominante il ragionare con monotona freddezza, ci fu l’abitudine di dare all’insegnamento una forma drammatica, perché in realtà non esiste mezzo più potente per renderlo il più possibile penetrante e incancellabile: così sono nate dappertutto delle “leggende”, cioè delle storie “da leggere” per l’istruzione di tutti. […] Si è scritto molto contro alcune delle nostre “leggende” latine; molto bene, ma non basta, perché sarebbe necessario scrivere contro la verità del racconto di Telemaco e di quello del figliuol prodigo” (43).
Quindi sarà necessario — ripeto — questo iter, questo itinerario restauratorio: che il mito — secondo la tesi del letterato e scrittore irlandese Clive Staples Lewis (1898-1963) — diventi storia, “Myth Became Fact” (44), dopo che “Fact Became Myth”, dopo che l’esperienza e la riflessione sono divenute storie: “Perfetto Mito e Perfetta Realtà” (45), “si tratta del matrimonio del cielo e della terra […], che reclama non solo il nostro amore e la nostra ubbidienza, ma anche la nostra meraviglia e il nostro diletto, diretto al selvaggio, al bambino e al poeta in ciascuno di noi non meno del moralista, dello scienziato e del filosofo” (46). “Perfetto Mito e Perfetta Realtà” modulati — soprattutto se non esclusivamente — sul linguaggio metaforico suggerito dall’esperienza umana prima e maggiore, fondativa, dall’esperienza “forte” della nascita e della famiglia, dell’allevamento e dell’educazione, nonché della morte, cioè dall’esperienza dell’inconsapevole vita nell’utero spirituale, che sfuma nella vita consapevole in esso, emerge come vita cosciente in esso, in attesa e in vista della nascita eterna, della morte, di cui — come della propria nascita — non si dà esperienza trasmissibile, quasi a sottolineare in questo modo l’irripetibilità di ciascun essere umano. Questa sarà la condizione, quella di esprimere sia la tradizione sia le tradizioni in linguaggio “poetico”, finché — per dirla con il filologo classico inglese e studioso della comunicazione Eric A. Havelock (1903-1988) — “la Musa non imparerà a scrivere” (47), così conquistando una rilevante condizione di riflessione, di percezione dell’oggettività del reale.
“Si commetterebbe un errore irreparabile se si opponessero la coscienza primitiva e quella che ho chiamato coscienza riflessiva o critica. In realtà non è possibile l’esistenza della coscienza riflessiva senza la coscienza primitiva che essa continua su altro piano, così come l’originarietà culturale emerge dall’originarietà primordiale. Per chiarire questo tema — prosegue Caturelli — è necessario rivolgere l’attenzione sulla coscienza primitiva ed effettuare alcune comparazioni critiche. In effetti la stessa parola “primitivo”, nel suo uso attuale, è equivoca e la sua etimologia ci dice assai poco. Chiamiamo “primitivo” ciò che è primo nel suo ordine e che non ha in altro la sua origine; il termine primitivus, che proviene da primus, allude a ciò che nasce o si crea per primo; allude a ciò che Vico [Giambattista, 1668-1744] tanto acutamente ha chiamato certezza senza riflessione, che corrisponde a una “lingua muta”, ossia anteriore alla scrittura; “mutismo” che fin dai suoi inizi si esprime con atti o disegni che dicono direttamente le idee (geroglifici)” (48).
Né, in tema di rapporti fra coscienza mitica e coscienza critica, Gambra Ciudad è meno tranchant: “Il sapere mitico-magico sembra situarsi […] nell’oscura intersezione fra il piano sensibile e il piano intelligibile del nostro spirito, e anche alla misteriosa frontiera fra il mondo dell’intelligibile naturale e il sapere di quello superiore e divino — del “problema” e del “mistero” —, entrambe momenti di divisione fra quelli in cui si trova iscritta la natura umana. Si può dire in un senso che il progresso dell’uomo — e della sua civiltà — consista in un lento predominio del logos sul mythos. Ma più importante sarebbe affermare che consiste in un’armonia fra questi poli dello spirito umano, in modo tale che né la ragione si senta prigioniera del mito, e neppure il senso religioso del mito rimanga ridotto a puro oggetto della critica razionale” (49).
Va dunque fatto salvo l’equilibrio fra logos e mythos, sia perché — come suggerisce sinteticamente, paradossalmente e in polemica con il razionalismo Gómez Dávila — “il mito corregge la precisione del concetto” (50), sia affinché il trionfo del logos non abbia a tradursi — come di fatto accade — nella “barbarie della riflessione” (51), nel trionfo della sofistica, con la corrispondente ipertrofia del non razionale — ma, non perciò, non ragionevole — e, dopo la Rivelazione, con l’inconsistente, perché infondato, diffondersi del fideismo. Però, fatto salvo tale equilibrio, l’oggettivazione della realtà, con la formazione della coscienza critica, e la proposta della certezza della verità attraverso la Rivelazione del Verbo fatto uomo, costituiscono autentici doni perché ridefiniscono la portata veritativa dell’esperienza materiale e permettono di filosofare, di riflettere sulla realtà e di organizzarne razionalmente l’intelligenza, a fronte di un’”esperienza dilatata alla Rivelazione”, di un’”inclusione della Rivelazione nell’esperienza” (52). Questo “cosmo” complesso, composto dalle cose visibili e invisibili, dalla natura misurabile e non misurabile, dalla Tradizione e dalla Rivelazione, questo reale illuminato dalla sua stessa complessità, non costituisce però garanzia di “buona volontà”: in formis, l’ortodossia non garantisce l’ortoprassi. Rimangono la libertà e la responsabilità dell’adesione, del si vis (cfr. Mt. 19, 17 e 21). Sul cammino della vita non mancano certamente i semina verbi, le briciole lasciate da Pollicino come figura dell’uomo sulla strada per poterne ritrovare il punto di partenza e dallo stesso Pollicino come figura dell’Uomo-Dio per poterlo ritrovare, ma il maligno è sempre all’opera, e va a beccare il seme, fa scomparire la briciola “segnaletica” (53). Di passaggio, mi chiedo se, in qualche modo, non costituiscono semina verbi, o almeno frutti di essi, anche gli effetti materiali della scelta cristiana operata da questa o quella comunità storica umana, le scoperte e le invenzioni dell’uomo cristiano, inquinate dal maligno attraverso il loro uso quando non filtrato dalla griglia della morale.
Dicevo d’esordio che vi è un mondo pre-cristiano in senso cronologico e vi è un mondo pre-cristiano in quanto extra-cristiano. Aggiungo: vi è un mondo extra-cristiano non solo in quanto pre-cristiano, ma anche in quanto post-cristiano, ed è quello nel quale la Provvidenza — Dio nella storia — ha voluto vivessimo. Cioè al “prima di Cristo” si affianca un “dopo Cristo”, che necessita anche di revival: il cui nome concettuale e storico è ri-evangelizzazione o nuova evangelizzazione (54). La cui base sta precisamente e logicamente, prima che in un passato storico comune, in una sapienza originaria, che tende a esprimersi e a maturare anche in forme puramente filosofiche, patrimonio spirituale dell’umanità affermato da Papa Giovanni Paolo II nell’enciclica Fides et ratio e che il pensatore argentino Rafael Luis Breide Obeid legge come riferimento implicito — ma non troppo — alla tradizione primordiale (55). Scrive infatti: “Esiste una Rivelazione primordiale che il Papa chiama “indigena e originaria saggezza”, “forma basilare di sapere filosofico”, “patrimonio spirituale dell’umanità”, “grande tradizione che […] inizia[ndo] con gli antichi”, “base comune su cui avviare l’annuncio del kerigma”, “religione cosmica”, che si appoggia a evidenze immediate, a verità filosofiche e religiose, per mezzo della quale si giunge a Dio attraverso il “Libro della Natura” e l’esame dello stesso cuore umano” (56). Quest’ultimo riferimento, quello al cuore dell’uomo, rimanda chiaramente non solo a quanto è stato detto in principio e trasmesso, alla tradizione primordiale, ma anche a quanto è implicito nell’uomo, al senso comune (57): infatti, “siccome il senso fisico ha una certa conoscenza dell’oggetto sensibile corrispondente — nota san Tommaso d’Aquino —, non è strano che il linguaggio corrente usi il verbo “sentire” per indicare anche la conoscenza intellettuale” (58).
5. La “terza navigazione”
Mi pare opportuno chiudere — non certo concludere — le mie considerazioni con una splendida, efficace e puntuale metafora, che ricavo da un interprete del filosofo greco Platone (427-347 a.C.) già richiamato: Reale. Platone, in un passo centrale del dialogo Fedone, descrive la sua scoperta del soprasensibile, quindi della vera causa del generarsi, del crescere e del perire di tutte le cose, come una “seconda navigazione”. Si chiama seconda navigazione quella che uno intraprende quando, rimasto senza vento, naviga con i remi. La “prima navigazione”, con le vele ai vento, è quella che Platone dice di aver compiuto alla scuola dei filosofi naturalisti e con il loro metodo, da cui fu portato nelle secche. Quindi dovette por mano ai remi, navigare solo con la forza delle braccia, ossia con un impegno personale, così giungendo a comprendere l’esistenza di due piani dell’essere, quello fenomenico e quello metafenomenico, coglibile con la sola intelligenza. In sintesi, la seconda navigazione può essere riassunta in questi termini: “[…] quelle che gli uomini in generale (e gli stessi filosofi naturalisti) ritengono che siano le “cause delle cose” (cause del loro nascere, del loro svilupparsi e del loro perire, e in generale del loro essere), sono in genere cause meccaniche e fisiche, e non sono affatto le “vere cause”, ma sono “concause”; le vere cause non sono di natura fisica e sensibile, ma di natura non fisica e puramente intellegibile” (59). Poco prima della presentazione della sua seconda navigazione, nello stesso Fedone, Platone, ancora con immagini marinaresche, paragona la ricerca, che si compie in filosofia con la ragione, a una zattera su cui dobbiamo affrontare il rischio della traversata del mare della vita. La ragione umana non può essere altro che una zattera, ovviamente con tutti i rischi che comporta. Saremmo molto più sicuri — precisa Platone — se ci potessimo affidare a una divina rivelazione, che non sarebbe una zattera, ma una solida nave, che farebbe attraversare con sicurezza il mare della vita, in questi termini evocando una terza navigazione: “Infatti, trattandosi di questi argomenti — cioè, esplicita Reale, degli argomenti relativi al senso della vita e della morte —, non è possibile se non fare una di queste cose: o apprendere da altri quale sia la verità; oppure scoprirla da se medesimi; ovvero, se ciò è impossibile, accettare, fra i ragionamenti umani, quello migliore e meno facile da confutare, e su quello, come su una zattera, affrontare il rischio della traversata del mare della vita; a meno che non si possa fare il viaggio in modo più sicuro e con minor rischio su più solida nave, ossia affidandosi ad una divina rivelazione” (60).
La maggior sicurezza offerta al singolo si estende, grazie alla naturale socialità umana, alle comunità: il mare della vita è anche il mare della storia, su cui i naufraghi della Cristianità devono prendere il largo novo millennio ineunte, all’apertura del terzo millennio, in risposta all’appello evangelico ed ecclesiale: “Duc in altum” (Lc. 5, 4) (61). Non solo sulla zattera della ragione che esplicita e articola il senso comune, ma sulla base della ragione che legge i miti come parole rivelate nei primordi e giudicate, confermate e certificate dal Vangelo; finalmente sulla solida nave della divina Rivelazione nel tempo opportuno. Ma, se la memoria e l’intelligenza sono restaurate, resta il problema della collaborazione dell’uomo e degli uomini — nessuno escluso — al restauro della volontà, che permetta di superare il mare interno, preventivo, che si stende fra il dire e il fare.
Giovanni Cantoni
Note:
* Intervento, riveduto e annotato, del 2-11-2001, al convegno dal titolo Lo que debemos a Cristo (Dos mil años de catolicismo), organizzato dalla Fundación Speiro nel Seminario Salesiano Martí Codolar a Barcellona, in Spagna, dal 2 al 4-11-2001 (cfr. Cristianità, anno XXX, n. 310, marzo-aprile 2002, p. 25), e comparso in spagnolo in Verbo. Revista de formación cívica e acción cultural, según el derecho natural y cristiano, serie XLII, n. 417-418, agosto-settembre-ottobre 2003, pp. 555-574.
(1) Paolo VI, Discorso all’udienza generale, del 5-4-1967, in Insegnamenti di Paolo Vl, vol. V, pp. 725-728 (p. 727).
(2) Ibidem.
(3) Cfr. sant’Agostino (354-430), Confessionum libri tredecim, libro I, 2, trad. it., Le Confessioni, testo latino dall’edizione di Martin Skutella riveduto da Michele Pellegrino (1903-1986), traduzione e note di Carlo Carena, con introduzione di Agostino Trapè O.S.A. (1915-1987) e indici di Franco Monteverde, Città Nuova, Roma 2000, pp. 4-7.
(4) Paolo VI, doc. cit., pp. 727-728.
(5) Cfr. Marco Tangheroni e Maurizio Parenti, Cristoforo Colombo, ammiraglio genovese e “defensor fidei”, in Cristianità, anno XX, n. 203, marzo 1992, pp. 11-17 (p. 16).
(6) Alberto Caturelli, Il Nuovo Mondo riscoperto. La scoperta, la conquista, l’evangelizazione dell’America e la cultura occidentale, trad. it., a cura di Pier Paolo Ottonello, Ares, Milano 1992, p. 37.
(7) Cfr. card. Giacomo Biffi, Approccio al cristocentrismo. Note storiche per un tema eterno, con prefazione di monsignor Inos Biffi, Jaca Book, Milano 1993.
(8) Gaio Plinio Secondo, detto il Vecchio, Naturalis historia, VII, 1, trad. it., Storia naturale, ed. diretta da Gian Biagio Conte con la collaborazione di Alessandro Barchiesi e Giuliano Ranucci, vol. II, libri 7-11, Antropologia e zoologia, trad. it. e note di Alberto Borghini, Elena Giannarelli, Arnaldo Marcone e Giuliano Ranucci, Einaudi, Torino 1983, pp. 8-11.
(9) Cfr. san Tommaso d’Aquino, Il Governo dei Principi. Al re di Cipro. De Regno (De Regimine Principum) ad Regem Cypri, libro I, capitoli 1-2, in Idem, Opuscoli politici, con introduzione e traduzione a cura di Lorenzo Alberto Perotto O.P., ESD. Edizioni Studio Domenicano, Bologna 1997, pp. 9-395 (pp. 31-37).
(10) Cfr. Charles Maurras, Le mie idee politiche, trad. it., con prefazione di Francesco Perfetti, Volpe, Roma 1969, pp. 5-11.
(11) Cfr. Johann Gottfied Herder, Saggio sull’origine del linguaggio, trad. it., a cura di Agnese Paola Amicone, Pratiche, Parma 1995, p. 49 e passim.
(12) Cfr. Arnold Gehlen, L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, trad. it., con introduzione di Karl-Siegbert Rehberg, Feltrinelli, Milano 1990, pp. 59-61 e 110-113.
(13) “[…] postquam ab utero egreditur, antequam usum liberi arbitrii habeat, continetur sub parentum cura sicut sub quodam spirituali utero” (san Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, IIa-IIae, q. 10, a. 12).
(14) Sant’Agostino, De Trinitate, libro XV, 20.39, trad. it., La Trinità, testo latino dall’edizione maurina confrontato con l’edizione del Corpus Christianorum, con introduzione di A. Trapè O.S.A. e Michele Federico Sciacca (1908-1975), Città Nuova, Roma 1987, pp. 692-693.
(15) Ibid., pp. 694-695.
(16) Ibidem.
(17) Cfr. Giovanni Reale e Dario Antiseri, Il pensiero occidentale dalle origini a oggi, vol. 1, Antichità e Medioevo, La Scuola, Brescia 1985, pp. 288-301.
(18) Cfr. Émile Benveniste (1902-1976), Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, vol. secondo, Potere, diritto, religione, ed. it. a cura di Mariantonia Liborio, Einaudi, Torino 2000, pp. 485-496.
(19) Joseph de Maistre, Le serate di Pietroburgo o Colloqui sul governo temporale della Provvidenza, trad. it., a cura di Alfredo Cattabiani (1937-2003), Rusconi, Milano 1971, p. 592.
(20) Josef Pieper, Perché la tradizione, trad. it., in Studi cattolici. Mensile di studi e di attualità, anno XX, n. 181, Milano marzo 1976, pp. 163-169 (p. 166); cfr., dello stesso autore, Tradición. Concepto y validez, in Idem, Obras, vol. 3, Escritos sobre el concepto de filosofía, a cura di Berthold Wald, trad. spagnola, Ediciones Encuentro, Madrid 2000, pp. 236-295.
(21) Idem, Perché la tradizione, cit., p. 167.
(22) Ibidem.
(23) Ibid., p. 168.
(24) Monsignor Fernando Ocáriz, La Rivelazione nell’Antico Testamento, in Idem e don Arturo Blanco, Rivelazione, fede e credibilità. Corso di Teologia Fondamentale, trad. it., Edizioni Università della Santa Croce, Roma 2001, pp. 41-52 (p. 45).
(25) Cfr. J. Pieper, Perché la tradizione, cit., p. 169.
(26) Cfr. Idem, Perché la tradizione (2). La sfida dell’origine, trad. it., in Studi cattolici. Mensile di studi e di attualità, anno XX, n. 182-183, Milano aprile-maggio 1976, pp. 255-259 (pp. 258-259).
(27) Tito Livio, Ab urbe condita libri, II, 32, trad. it., Storie, vol. I, Libri I-V, a cura di Luciano Perelli, UTET, Torino 1974, p. 354; la traduzione è mia.
(28) Cfr. J. Pieper, Perché la tradizione, cit., p. 169; cfr. pure Mircea Eliade (1907-1986), Mito e realtà, trad. it., con mia prefazione, Borla, Roma 1993, pp. 21-42, soprattutto pp. 27-32.
(29) Plutarco di Cheronea, De Iside et Osiride, 20, in Moralia, 358f-359a; in Idem, Iside e Osiride e Dialoghi delfici [La E delfica — I responsi della Pizia — Il tramonto degli oracoli], testo greco a fronte, introduzione, traduzione, note e apparati di Vincenzo Cilento B. (1903-1980), presentazione di G. Reale, bibliografia di Alberto Bellanti, Bompiani, Milano 2002, pp. 1-147 (pp. 38-41); cfr. pure J. Pieper, Sobre los mitos platónicos, trad. spagnola, Herder, Barcellona 1998.
(30) Catechismo Maggiore promulgato da San Pio X, Ares, Milano 2002, pp. 287-331 (p. 287).
(31) Ibid., pp. 287-288.
(32) Nicolás Gómez Dávila, Escolios a un texto implícito II, Instituto Colombiano de Cultura, Santa Fe de Bogotá 1977, p. 468.
(33) Ibidem.
(34) Rafael Gambra Ciudad, El lenguaje y los mitos, Speiro, Madrid 1983, pp. 21-22.
(35) Cfr. J. Pieper, Perché la tradizione (2). La sfida dell’origine, cit., pp. 257-258.
(36) Cfr. san Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, Ia, q. 22, a. 2.
(37) Cfr. ibid., ad 5; soprannaturale è pure il terzo tipo — per così dire — di Provvidenza, quella specialissima, relativa all’umanità del Verbo Incarnato e agli eletti: cfr. ibid., ad 4.
(38) “Vestem quoque illorum, id est, hominum quidem instituta, sed tamen accomodata humanae societati qua in hac vita carere non possumus” (sant’Agostino, De doctrina christiana, trad. it., La dottrina cristiana, 2, 40, testo latino dell’edizione maurina confrontato con il Corpus Scriptorum Ecclesiasticorum Latinorum, Città Nuova Editrice, Roma 1992, pp. 130-131).
(39) Juan Vásquez de Mella y Fanjul, Apologia della tradizione, trad. it., in Cristianità, anno XV, n. 141, gennaio 1987, pp. 7-8 (p. 7).
(40) Ibidem.
(41) Ibidem.
(42) N. Gómez Dávila, Escolios a un texto implícito I, Instituto Colombiano de Cultura, Santa Fe de Bogotá 1977, p. 233 (trad. it., In margine a un testo implicito, a cura di Franco Volpi, Adelphi, Milano 2001, p. 148).
(43) J. de Maistre, op. cit., p. 729.
(44) Clive Staples Lewis, Myth Became Fact, in Idem, God in the Dock. Essays on Theology and Ethics, a cura di Walter Hooper, William B. Eerdmans, Grand Rapids (Michigan) 1999, pp. 63-67 (p. 66-67); cfr., a commento, Christoph von Schönborn O.P., Il mistero dell’Incarnazione, trad. it., Piemme, Casale Monferrato (Alessandria) 1989, pp. 15-22, soprattutto pp. 19-21; cfr., inoltre, l’origine, nello stesso tempo culturale ed esistenziale, della tesi di C. S. Lewis, in John Ronald Reuel Tolkien (1892-1973), Sulle fiabe, trad. it., in Idem, Il medioevo e il fantastico, a cura di Christopher Tolkien, ed. it. a cura di Gianfranco de Turris, Luni, Milano-Trento 2000, pp. 167-238, soprattutto pp. 227-229; e in Humphrey Carpenter, Gli Inklings. Clive S. Lewis, John R. R. Tolkien, Charles Williams & Co., trad. it., Jaca Book, Milano 1985, pp. 49-87; cfr. pure C. S. Lewis, Sorpreso dalla gioia. I primi anni della mia vita, trad. it., Jaca Book, Milano 1990, pp. 162-163.
(45) C. S. Lewis, Myth Became Fact, cit., p. 67.
(46) Ibidem.
(47) Cfr. Eric A. Havelock, La Musa impara a scrivere. Riflessioni sull’oralità e l’alfabetismo dall’antichità al giorno d’oggi, trad. it., Laterza, Roma-Bari 1987; cfr. pure Idem, Cultura orale e civiltà della scrittura. Da Omero a Platone, trad. it., con introduzione di Bruno Gentili, Laterza, Roma-Bari 1983.
(48) A. Caturelli, op. cit., p. 114.
(49) R. Gambra Ciudad, op. cit., pp. 25-26.
(50) N. Gómez Dávila, Nuevos escolios a un texto implícito, vol. II, Procultura, Santa Fe de Bogotá 1986, p. 5.
(51) Giambattista Vico, Princìpi di Scienza nuova d’intorno alla comune natura delle nazioni (1744), Conchiusione dell’opera. Sopra un’eterna repubblica naturale, in ciascheduna sua spezie ottima, dalla divina provvedenza ordinata, § 1106, in Idem, Opere, a cura di Andrea Battistini, Mondadori, Milano 1990, vol. II, pp. 967-968; sulla “barbarie della riflessione”, con riferimento al fondamentale rapporto con il “senso comune”, cfr. Francesco Botturi, La sapienza della storia. Giambattista Vico e la filosofia pratica, Vita e Pensiero, Milano 1991, pp. 449-453.
(52) Cfr. l’illuminante commento alla Nota della Congregazione per la Dottrina della Fede sul valore dei Decreti dottrinali concernenti il pensiero e le opere del Rev.do Sacerdote Antonio Rosmini Serbati, del 30-6-2001, redatto da monsignor Antonio Livi, La “teosofia” rosminiana: il suo fascino e le sue ambiguità, in L’Osservatore Romano, anno CXLI, n. 157, Città del Vaticano 12-7-2001, pp. 4-5.
(53) Cfr. Charles Perrault (1628-1703), Pollicino, in Idem, I racconti di Mamma l’Oca, trad. it., in Fiabe francesi della Corte del Re Sole e del secolo XVIII, con prefazione di André Bay, Einaudi, Torino 1967, pp. 3-62 (pp. 36-44) ; cfr. pure Ton Dekker, voce Pollicino e l’orco (Puccettino), in Idem, Jurjen van der Khooi e Theo Meder, Dizionario delle fiabe e delle favole. Origini, sviluppo, variazioni, ed. it. a cura di Fernando Tempesti, Bruno Mondadori, Milano 2003, pp. 339-342.
(54) Cfr. Giovanni Paolo II, Enciclica “Redemptoris missio” circa la permanente validità del mandato missionario, del 7-12-1990, n. 33.
(55) Cfr. Rafael Luis Breide Obeid, Política y sentido de la historia, folia universitaria. Universidad Autónoma de Guadalajara, Guadalajara (Jalisco) 2000, pp. 19-42, soprattutto pp. 29-42.
(56) Ibid., p. 30; cfr. i riferimenti, in Giovanni Paolo II, Enciclica “Fides et ratio” circa i rapporti tra fede e ragione, del 14-9-1998, nn. 3, 4, 24, 36 e 85.
(57) Cfr. Giovanni Paolo II, Enciclica “Fides et ratio” circa i rapporti tra fede e ragione, cit., n. 4.
(58) “Quia, cum sensus certam apprehensionem habeat de proprio sensibili, est in usu loquentium ut etiam secundum certam apprehensionem intellectus aliquid “sentire” dicamur” (san Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, I, q. 54, a. 5).
(59) G. Reale, Introduzione ad Agostino, Amore Assoluto e “Terza Navigazione”. Commento alla Prima Lettera di Giovanni, dieci discorsi. Commento al Vangelo di Giovanni, secondo discorso, testo latino a fronte, con introduzione, traduzione, note e apparati di G. Reale, appendice bibliografica di Maria Bettetini, Bompiani, Milano 2000, pp. 5-68 (pp. 49-50).
(60) Platone, Fedone, 85 C-D, cit. in G. Reale, Introduzione cit, pp. 51-52.
(61) Cfr. Giovanni Paolo II, Lettera apostolica “Novo millennio ineunte” al termine del Grande Giubileo dell’Anno Duemila, del 6-1-2001.