Giovanni Cantoni, Cristianità n. 4 (1974)
La conformazione fisiologica del genere umano, la sua suddivisione sessuale, la dicotomia in maschi e femmine indica chiaramente, senza ombra di dubbio, la modalità del perpetuarsi del genere stesso. Tale modalità è l’accoppiamento tra individui di sesso diverso, che, secondo tempi invariati, produce un nuovo individuo, un “piccolo d’uomo”. E il piccolo d’uomo, rispetto ai piccoli di animali, ha un carattere particolare, dal momento che, come ha notato Plinio il Vecchio, è capace di fare una sola cosa: piangere (1). Da questa considerazione sperimentale, da questa osservazione acutissima si può e si deve partire per impostare in modo corretto il problema del divorzio, piccolo o grande che sia.
Il neonato, uomo e futuro cittadino, è frutto di un accoppiamento che – di suo – potrebbe anche essere more pecudum, cioè animalesco, occasionale e dettato da motivazioni meno che nobili. Ma il frutto dell’accoppiamento qualifica immediatamente l’accoppiamento stesso, ne mette gli attori di fronte alle loro responsabilità, che possono anche non sentire, ma che sono intrinseche all’atto stesso.
Tale frutto, infatti, vive una vita autonoma e al tempo stesso dipendente. Non è uomo perchè qualcuno di lui si cura, ma può vivere solamente se qualcuno se ne cura. Diversamente piange per l’abbandono in cui è lasciato e quindi muore. Alla colpa dell’accoppiamento non nobile si aggiunge quella dell’omicidio, nel caso concreto dell’infanticidio. Si è compiuto un gesto e se ne rifiuta la conseguenza, ma questa conseguenza è un uomo, un proprio simile.
In ogni piccolo d’animale è presente, nell’istinto, il progetto completo della sua esistenza, il piano definito della sua vita; e con il progetto, con il piano, sono presenti, attualmente, anche se talora con modalità solo incipienti, le forze, le energie necessarie per realizzarlo.
Anche nel piccolo d’uomo è presente tutto l’uomo, ma la sua possibilità di realizzarsi – cioè di diventare, sviluppandosi, quello che è – è condizionata dall’accoglienza che gli riserva chi lo ha chiamato in vita. Gli mancano infatti, attualmente, le forze necessarie per svolgersi, per svilupparsi, sia fisicamente che spiritualmente. La sua vita materiale e la sua vita spirituale dipendono da altri.
È stato chiamato alla vita, ma è subito sull’orlo della morte, e dalla sponda dell’abisso a sua volta chiama, piangendo, ed esige, per salvarsi, una risposta. Il suo richiamo ha una eco, fa nascere – nel caso prima non fosse, o almeno non fosse cosciente o sentita – una vocazione. Il gesto dell’accoppiamento non è stato un gesto qualsiasi, una parola oziosa, caduta nel vuoto e presto esaurita, ma si è concretizzato in un essere vivente. Questo essere vivente può continuare a vivere o può morire. Non riconosce il proprio cibo e la propria medicina; non sa costruirsi né l’abito né la casa, né la sua “piccola dimora” né il suo “abito grande”. È turgido di essere e di vita, ma non sa comunicarli se non nella forma negativa della richiesta di aiuto, della denuncia del bisogno.
Chi deve rispondere al gesto fatto uomo, prima ancora che del gesto fatto uomo? Chi, se non coloro che tale gesto hanno compiuto? Senza di loro la natura non avrebbe fatto la sua operazione, senza di loro un uomo non sarebbe nato. E quest’uomo è nato nella necessità, denuncia il bisogno. A chi tocca rispondere, se non a coloro che, pur non essendo autori diretti, ma semplici veicoli, della necessità e del bisogno, sono però all’origine del necessitato e del bisognoso?
Il piccolo ha bisogno che l’accoppiamento fisico e animale si perpetui in convivenza, in una convivenza che animi e sostenga la realtà di procreazione di cui è testimonianza concreta; il piccolo chiede che l’accoppiamento si fondi in matrimonio, ora che si è svolto in famiglia.
Ma chi, di genere, è tenuto al matrimonio, se non coloro che hanno fatto la famiglia?
La durevolezza del prodotto esige la continuità e la durevolezza dell’istituzione, dal momento che l’apparente accidentalità dell’incontro ha svelato, nel frutto, la sua destinazione; la vitalità e la permanenza del fine hanno rivelato la natura del principio; la conseguenza ha ormai irrimediabilmente e definitivamente illuminata la causa.
Che altri allevi e coltivi quanto si è seminato può essere occasionale, contingente, talora perfino necessario, ma non istituzionale: gli altri hanno il diritto di chiedere conto del gesto fatto uomo.
La natura e il fine dell’istituzione matrimoniale sono ormai chiari, anche nella eventuale assenza del frutto, assenza effettiva ma presenza possibile – solo l’impossibilità del rapporto lo rivela irreale e quindi permette di annullarlo, non però nel senso di fare sì che non sia, ma solo in quello di dichiararlo non esistente, di prendere atto che non è.
Si può obiettare che un solo componente della coppia può bastare all’allevamento e alla educazione – senza la quale l’uomo è “la creatura più selvaggia, e rispetto ai piaceri del senso e della gola la più malvagia di tutte” (2) -; che la società, che lo Stato possono supplire.
Certo, un solo componente della coppia può bastare e di fatto, spesso e purtroppo, surroga anche l’altro. Ma l’oggetto dell’allevamento e dell’educazione è frutto della coppia, non del singolo, e la responsabilità solidale non permette di istituzionalizzare l’eccezione, denunciata anche dalle carenze educative che comporta.
Nel caso poi della società e dello Stato, la loro funzione seconda è chiarissima, non abbisogna neppure di essere provata, e rende lecito, possibile nonché eventualmente necessario solo un loro intervento puramente sussidiario e quindi secondario, a meno che non si intenda pagare la libertà di sbagliare con la sottomissione alla società, cedendo la primogenitura della responsabilità e della dignità, in cambio del trastullo concesso allo schiavo nell’intervallo della fatica. Ma quest’ultima ipotesi produce la tirannide, o almeno ne fa il gioco, e non una società di uomini liberi che corrispondono alla loro vocazione.
Perciò il matrimonio, cioé il rapporto che fonda la famiglia – reale o possibile – non può che essere monogamico, durevole e indissolubile per cause volontarie, e non può tollerare eccezioni istituzionalizzate.
Tali eccezioni, infatti, con le loro disastrose conseguenze per i figli e per i genitori, confermano la regola, e, se istituzionalizzate, la distruggono. E quello che vale per le eccezioni nel loro complesso, vale per ciascuna di esse e anche per una sola, chè una sola basta per scardinare la regola e per prepararne la scomparsa.
Il venire meno della regola, a sua volta, vanifica il matrimonio, che non esiste nella versione temporanea e dissolubile, e fa dello Stato non più una società di famiglie, ma una cooperativa di individui sottoposta alla pianificazione e alla tirannide.
La non assunzione della piccola-grande responsabilità iniziale ha come conseguenza la deresponsabilizzazione finale: l’aver goduto di una certa quale libertà – ma il suo nome è piuttosto licenza – toglie ogni libertà autentica e ripropone la schiavitù.
A questo punto qualcuno potrebbe chiedersi: e la creazione, e la Redenzione, e la Chiesa, che parte hanno in tutto questo?
Rispondo. Tutto quanto ho detto è di ragione e di esperienza, è esegesi razionale della realtà.
La realtà è stata creata da Dio. Il peccato ha reso difficile l’ordinario rispetto della legge che si evince dalla esegesi della realtà. La Redenzione di Nostro Signore Gesù Cristo ha confermato la legge, l’ha restaurata e l’ha portata a compimento, aggiungendo la grazia per osservarla ordinariamente. La Chiesa trasmette la legge e con i sacramenti offre la grazia.
L’indissolubilità è di natura, di creazione. Il sacramento alleggerisce il giogo e rende palpabile la verità secondo cui “a chi ha sarà dato, a chi non ha sarà tolto anche quello che ha” (3). La Chiesa, depositaria della legge divina naturale e di quella divina positiva, rimane nei secoli a testimoniare entrambe e a offrire agli uomini le regole e i mezzi per costruire l’unica civiltà che non conosce la schiavitù, la civiltà cristiana.
Perciò, anche se la civiltà cristiana può non stare a cuore a tutti – come capita purtroppo nelle nazioni moderne cosiddette pluralistiche -, la civiltà naturale non può non interessare, deve stare a cuore a ogni uomo. Il lume di ragione presente in ciascuno, la capacità di ogni uomo di valutare la realtà circostante e di servirsene, fa di lui un animale razionale, così come la necessità della convivenza e il desiderio della vita comune lo rivelano un animale sociale, politico.
Ciascuno deve quindi rendersi conto che ogni peso che gli toccherebbe portare e che invece scarica su altri, aumenta il peso oggettivo degli altri su di lui; ogni dovere di cui si libera si traduce in un obbligo esterno che diminuisce o limita o perfino annulla la libertà concreta che la natura gli concede.
Se qualcuno non vuole conservare l’istituto matrimoniale indissolubile, garanzia dell’allevamento dei frutti della sua capacità generativa, troverà altri che li alleverà.
Allo stesso modo, se qualcuno non vuole conservare l’istituto matrimoniale indissolubile, garanzia della educazione dei frutti della sua capacità generativa, troverà altri che li educherà.
Un giorno o l’altro, però, chi li alleva e chi li educa – sia esso persona o ente -, diventato padre al suo posto, almeno per la parte per cui gli ha ceduto la sua paternità, non potrà non intervenire a regolare anche l’altra parte, cioè la sua frequenza nel procreare e quindi, in seguito, anche la sua stessa capacità generativa.
Una tale prospettiva allucinante può apparire ingiustamente catastrofica e drammatica, se confrontata con la casistica minimalistica e apparentemente riduttiva del cosiddetto “piccolo divorzio”, che pare mirare unicamente alla possibilità di sanare alcune determinate situazioni, senza ledere il principio.
In via di ipotesi, non manca chi ammette la possibilità di accettare la deroga al principio in alcune situazioni, a condizione che tale deroga lasci intravedere un limite oggettivamente determinabile, un piccolo “principio secondario”. Ma, venendo alla casistica, tale limite si rivela inesistente, oppure soltanto un ripiego o una finzione, dopo che il limite autentico è stato superato. Perciò, a chi afferma che una certa ipotetica legislazione divorzista non vuole il divorzio in quanto tale, ma solo uno sfiato, un troppo-pieno nella diga costituita da una legislazione eccessivamente costringente, va risposto semplicemente che una diga con un buco non la è più e ha decretato, sulla distanza, la propria fine. La legge, infatti, non è soltanto un limite, un ostacolo, ma crea un costume: il troppo-pieno fa corrente anche nell’acqua che prima era calma e lo sfiato fa gorgo, e quindi la diga finisce per saltare.
Non manca inoltre chi presenta i casi pietosi della convivenza matrimoniale come prova che l’indissolubilità è un perfetto strumento di giustizia che al limite si rivela massimamente ingiusto: summum jus, summa iniuria. Sarebbe cecità negare i cosiddetti casi pietosi, realmente esistenti e veramente pietosi. Ma, è retorica paragonare la vita a una lotta? Chiunque viva e non sia immerso in un sogno, sa che retorica non è, e sa pure che in ogni guerra qualcuno muore: non è una ingiustizia rispetto a chi torna a casa sano e salvo? Per evitare questa ingiustizia, si deve sposare l’utopia – per altro di breve durata – di una pace universale e perpetua? Ci si deve lasciare invadere senza difendersi? Oppure basta dichiarare “visitatori” o “turisti” gli invasori, perché tutto sia diverso? Seppellire i morti è giusto; curare i feriti anche; sovvenire le vedove pure; ma non è giusto rilasciare certificati di servizio – e tantomeno decorazioni al valore – a chi non ha combattuto o non vuole neppure combattere. Nessuno può essere costretto a fare l’eroe, si può anche scappare, e non solo per viltà ma anche per oggettiva difficoltà: c’è la separazione. Ma ridare la verginità a chi è scappato, premiare perfino chi è scappato, significa incitare tutti alla diserzione, significa, nello sforzo di perseguire una impossibile giustizia umana in qualche caso concreto, generalizzare l’ingiustizia in ogni situazione e quindi promuoverla: questa volta veramente non è detto a sproposito summum jus, summa iniuria!
Ai partigiani del divorzio, infine, si affiancano talora “romantici” difensori della indissolubilità, la cui sensibilità è urtata e quindi la cui combattività è frenata e vanificata dalla “materialità” del fatto giuridico, che a loro giudizio non potrebbe salvare una realtà “spirituale” come la famiglia. Certamente, la restaurazione della famiglia richiede anche altre provvidenze, non solo giuridiche, ma anzitutto morali, etiche e perfino economiche, fiscali; ma perché questi provvedimenti non si riducano a un affresco su una parete fatiscente, è necessario un umile e materiale lavoro di sottomurazione, di risanamento: realismo vuole che non si dimentichino mai i condizionamenti materiali dello spirituale. La legge cioè – nel caso concreto, la restaurazione della indissolubilità giuridica – non è certamente un punto di arrivo nell’opera urgente e indispensabile di restaurazione della famiglia; ne è però un punto di partenza, un presupposto indispensabile e irrinunciabile e, con il referendum, concretamente realizzabile.
Il concretissimo diritto romano ci ricorda che ad impossibilia nemo tenetur, “nessuno è tenuto a cose impossibili”, ma ciò che è possibile è doveroso, per piccolo che sia, ed è segno di sanità e indice di buona volontà perseguirlo, mentre denuncia velleitarismo vuoto e brumoso rifiutare il possibile in nome di quell’ottimo che è nemico del bene, in nome di un perfettismo che finisce per paralizzare, per svuotare la magnanimità, il desiderio di cose grandi, riducendola a puro vagheggiamento irrealistico e sentimentale, quotidianamente tentato da vergognosi compromessi.
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Quanto ho detto è descrizione di fatti che si svolgono o possono verisimilmente svolgersi sotto i nostri occhi; è diagnosi di una condizione, la condizione umana, e di una situazione, quella storica della nostra civiltà.
Quanto ho detto è una tesi di fisiologia e di fisica sociale, razionale e sperimentale. E l’itinerario descritto verso la schiavitù, verso la riduzione ultima del popolo in massa, verso la più completa atomizzazione sociale e l’asservimento allo Stato-Moloch, è un percorso obbligato, il cui unico parametro non misurabile è il tempo.
Ma questo itinerario, come tutti i fatti che hanno come protagonisti gli uomini, è obbligato solo relativamente; è destinato cioè a essere percorso fino alla fine solo a condizione che si ceda sul principio e che non si lotti contro chi lo favorisce e lo sollecita. Infatti, se è vero, come è vero, che “[…] il socialismo di natura sua distrugge la famiglia” (4), è anche vero l’inverso, e cioè che la distruzione della famiglia prepara l’avvento del socialismo.
Il solve liberale, la corruzione individualistica che rilassa e distrugge ogni legame sociale, è soltanto la fase preparatoria della grande opera dell’alchimia rivoluzionaria; al suo fine si erge il coagula comunista con il suo uomo nuovo artificiale e completamente eterodiretto.
Scrive Lenin: “È impossibile essere democratici e socialisti senza chiedere fin da oggi l’intera libertà di divorzio” e senza proporsi di “esigere l’abrogazione di tutte le leggi che vietano l’aborto, o vietano la pubblicazione degli scritti medici riguardanti i sistemi preventivi” (5).
Qual’è il risultato al quale si mira? Ce lo descrive Engels: “L’amministrazione domestica privata si trasformerà in un’industria sociale” (6). E Lenin aggiunge qualche particolare: “Far partecipare la donna al lavoro sociale produttivo, strapparla alla schiavitù domestica, liberarla dal peso degradante e umiliante, eterno ed esclusivo dell’ambiente della cucina e della camera dei bambini; ecco qual’è il compito principale” (7).
La sintesi comunque è di Marx ed Engels che, nel Manifesto, esclamano: “Abolizione della famiglia!” (8).
Diceva bene Bernanos: “La tirannia non sta dietro di noi, sta davanti a noi, e dobbiamo affrontarla, adesso o mai” (9).
Il divorzio è un passaggio verso questa tirannia, un passaggio di notevolissima importanza. Dicendo no al divorzio, si dice no anche alla tirannia, e sì alla famiglia, sì alla tradizione, sì alla libertà.
GIOVANNI CANTONI
Note:
(1) Cfr. PLINIO IL VECCHIO, Storia naturale, I, VII, I.
(2) ARISTOTELE, Politica, 1, 2, 1253a, 32.
(3) Mc. 4, 25.
(4) P. VICTOR CATHREIN S. J., La filosofia morale, trad. it., L.E.F., Firenze 1920, Vol. II, p. 269.
(5) V. I. LENIN, L’emancipazione della donna, cit. in p. GIORGIO LOIACONO S. J., Il marxismo, Edizioni Domenicane Italiane, 3ª ed. riveduta e ampliata, Napoli 1967, p. 109.
(6) F. ENGELS, L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, p. GIORGIO LOIACONO, op. cit., p. 109.
(7) V. I. LENIN, in p. GIORGIO LOIACONO S. J., op. cit., p. 109.
(8) K. MARX – F. ENGELS, Manifesto del partito comunista, Editori Riuniti, 14ª ed., Roma 1971, p. 82.
(9) GEORGES BERNANOS, Lo spirito europeo e il mondo delle macchine, Rusconi. Milano 1972, p. 269.