P. Tito S. Centi O. P., Cristianità n. 4 (1974)
Nel prendere in mano la S. Bibbia il cristiano non dubita di trovarsi a contatto con la parola di Dio. Ma nessuno deve dimenticare che la rivelazione e l’ispirazione divina sono state date nel corso dei tempi con l’intento di educare un popolo in fasi successive prima di raggiungere la pienezza e la perfezione in Cristo. “I libri del Vecchio Testamento“, come ha ricordato il Concilio Vaticano II, “manifestano a tutti la conoscenza di Dio e dell’uomo e il modo con cui Dio, giusto e misericordioso, si comporta con gli uomini, secondo la condizione del genere umano prima dei tempi della saldezza instaurata da Cristo. I quali libri, sebbene contengano cose imperfette e temporanee, dimostrano tuttavia una vera pedagogia divina” (1).
Nell’insieme degli scritti dell’Antico Testamento è facile riscontrare nelle sue grandi linee quest’opera di rieducazione e di restaurazione anche per quanto riguarda il matrimonio nella sua indissolubilità. I primi libri della Bibbia sono stati scritti in un’epoca in cui questa indissolubilità era ignorata, ma in quest’opera educativa i profeti e i dottori della Legge trovano nella Scrittura un punto preciso di riferimento: il racconto della Genesi circa l’origine dell’uomo. In tale racconto sono delineati, in termini concreti, una sana antropologia, nonché i compiti morali, genetici ed educativi della famiglia.
Ecco come è tratteggiata la fisionomia del matrimonio quale compito naturale:
a) esso è istituito da Dio almeno indirettamente, in quanto risale al Creatore la distinzione dei due sessi;
b) si attua nel mutuo consenso con cui l’uomo e la donna si uniscono per raggiungere gli scopi voluti da Dio;
c) è caratterizzato dalle due note dell’unità e della indissolubilità (“saranno due in una sola carne“) (2);
d) è indirizzato al fine principale della procreazione (“crescete e moltiplicatevi”) (3), e a quello secondario del mutuo aiuto (“un aiuto simile a lui“) (4).
Dalle prime pagine del Nuovo Testamento veniamo a conoscere le discussioni che intorno all’indissolubilità del matrimonio e sul divorzio si facevano in Palestina durante la vita terrena di N. Signore Gesù Cristo. I rabbini erano divisi in due scuole, l’una rigorista e l’altra lassista: quest’ultima era propensa a giustificare il divorzio in tutti i casi, persino per futili motivi. Anche Gesù viene interpellato in merito; ma la sua risposta lascia sconcertati non solo i rabbini, ma gli stessi discepoli del Nazareno: “Non avete letto che il Creatore da principio li creò maschio e femmina e disse: “Per questo lascerà l’uomo suo padre e sua madre e si unirà con sua moglie e i due saranno una sola carne?”. Perciò essi non sono più due ma una sola carne. Non divida dunque l’uomo quello che Dio ha congiunto“.
“Perché dunque, gli chiesero, Mosè prescrive di darle il libello del ripudio e di rimandarla? Rispose loro: Per la durezza del vostro cuore Mosé vi permise di ripudiare le vostre mogli; ma da principio non era così. Io poi vi dico che chiunque mandi via la sua moglie, salvo il caso di fornicazione, e ne sposa un’altra, commette adulterio, e chi sposa la ripudiata diventa adultero … ” (5).
Nonostante l’intrinseca difficoltà della prescrizione, gli evangelisti sono concordi nel riferirla. Anzi s. Marco (6) e s. Luca (7) omettono l’eccezione che sembra concessa nel testo riferito di s. Matteo.
Come debba essere interpretato quell’inciso (“salvo il caso di fornicazione “) è un problema che tutti gli esegeti antichi e moderni hanno cercato di risolvere in vari modi. Tuttavia gli Apostoli e la corrente massiccia della tradizione ecclesiastica non esitarono ad esigere l’interpretazione più rigorosa. Scrive s. Paolo ai Corinzi: “Agli sposati poi ordino, non io ma il Signore, che la moglie non si separi dal marito, che se mai si separasse, resti senza maritarsi, o si riconcili col marito, e che il marito non ripudi la moglie” (8).
Quanto tale dottrina e tale prassi avessero permeato la prima generazione cristiana risulta dal Pastore di Erma che fu scritto intorno all’anno 150 di Cristo. Nel quarto dei dodici Precetti si legge questo dialogo: “Signore, se uno ha una moglie che crede nel Signore, e che poi si riveli adultera, pecca se vive con essa? E mi rispose: – Fino a che ne ignora i peccati, non pecca; ma una volta conosciuti quelli, senza che la donna ne faccia penitenza, ma perseveri nella stessa iniquità, il marito pecca se convive con essa […] – Che cosa allora deve fare il marito? […] -La cacci via ed egli rimanga continente. Che se rimandata quella ne sposa un’altra, egli stesso commette adulterio. – Ma se dopo che la donna è stata rimandata fa penitenza e vuol tornare dal suo marito, dovrà questo riceverla? – Egli mi rispose: – Se non viene accolta, il marito pecca commettendo un grave delitto […] Perciò il marito dopo la separazione della moglie non deve sposarne un’altra, per non togliere alla moglie l’occasione di pentirsi. E questa prassi vale egualmente tanto per il marito che per la moglie” (9).
Mezzo secolo dopo, Tertulliano mostra chiaramente che nella Chiesa africana si seguiva la medesima prassi che Erma aveva riscontrato nella Chiesa di Roma (10).
Origene (180-255) invece testimonia il fatto che alcuni rettori di chiese avevano permesso alla moglie separata di risposarsi; ma dichiara espressamente che ciò è contro la S. Scrittura e contro la legge ecclesiastica (11).
Qualche autore moderno insinua il dubbio che l’indissolubilità del matrimonio non sia stata sostenuta e imposta dalla Chiesa nel periodo che va da Costantino a Giustiniano (303-567), per il fatto che la legislazione romana di codesta epoca non ne accetta il principio e le relative conseguenze. Ma non si deve dimenticare che in codesto periodo masse rurali considerevoli, specialmente in Occidente, rimangono ancora pagane entro i confini dell’Impero Romano. Dobbiamo però riconoscere che la persistenza di una legislazione civile divorzista in uno Stato che ufficialmente ormai si dichiara cristiano, può aver creato qualche esitazione e qualche confusione in alcuni scrittori ecclesiastici e in qualche pastore meno illuminato. Comunque la legislazione ecclesiastica di questo periodo, espressa dai concili regionali e dai Papi, è contro qualsiasi cedimento.
Purtroppo le formule imprecise di qualche antico autore serviranno a giustificare qua e là un certo atteggiamento di tolleranza verso i divorziati, che è diventata consuetudine nelle Chiese orientali. Ma anche tra i Padri orientali non mancano gli intransigenti, a cominciare da s. Giovanni Crisostomo (12).
A guidare nella linea della perfetta ortodossia la Chiesa latina, la divina Provvidenza suscitò nel secolo IV il genio di s. Agostino. Egli, che in un primo momento era rimasto esitante sul modo d’interpretare il famoso inciso di s. Matteo, si rese conto ben presto dell’impossibilità di dare coerenza all’insegnamento del Nuovo Testamento, allargando quella concezione oltre i limiti di una separazione legale. Nel suo opuscolo De coniugiis adulterinis egli chiarisce una volta per sempre il problema secondo la logica e secondo la tradizione della Chiesa. A lui inoltre si deve la definizione dei tre grandi beni del matrimonio: proles (figli), fides (fedeltà), sacramentum (indissolubilità) (13).
Sulle basi solide delle sue impostazioni e intuizioni si costituiranno i trattati medioevali e moderni sul matrimonio cristiano.
Nei secoli V-VIII la Chiesa attraversò gravissime prove per la sua legislazione matrimoniale, perché il divorzio era ammesso dalle leggi civili, sia romane che barbariche, e i divorziati detentori del potere non erano disposti a subire la condanna morale imposta dal diritto canonico. Sbagli e debolezze di vescovi qua e là non mancarono. Si noti però che nei concili e nei sinodi, composti di soli elementi ecclesiastici, il divorzio – anche in questo periodo – viene energicamente sempre ripudiato.
Quasi al chiudersi dell’epoca patristica troviamo l’energico atteggiamento di Adriano I (772-95) a sostegno del Patriarca di Costantinopoli nel riprovare il divorzio di Costantino VI imperatore d’Oriente; e quello non meno coraggioso di Niccolò I (+ 867) contro Lotario III, che voleva ripudiare la moglie legittima per sposare Valdrada. Questi esempi faranno sentire il loro peso nei secoli seguenti, ossia nell’atteggiamento di Innocenzo II dinanzi al re di Francia Luigi VII, di Innocenzo III di fronte a Filippo Augusto, di Clemente VII di fronte al divorzio di Enrico VIII re d’Inghilterra e di Pio VII di fronte a Napoleone I.
In questi frangenti la Chiesa Cattolica Apostolica Romana ha dimostrato di preferire la perdita di qualsiasi vantaggio materiale e persino quella di interi regni al tradimento della legge evangelica.
TITO S. CENTI O.P.
Note:
(1) CONCILIO VATICANO II, Costituzione dogmatica Dei Verbum, 15.
(2) Gen. 2, 24.
(3) Gen. 1, 27-28.
(4) Gen. 2, 18
(5) Mt. 19, 4-9.
(6) Cfr. Mc. 10, 11 ss.
(7) Cfr. Lc. 16, 18.
(8) 1 Cor. 7, 10-11; cfr. ibid. 39-40.
(9) ERMA, Il Pastore. mand. IV. c. 1.
(10) Cfr. TERTULLIANO, Ad uxorem.
(11) Cfr. ORIGENE, Comment. in Matt., 19, 16.
(12) Cfr. s. GIOVANNI CRISOSTOMO, De libello ripudii, PG, par. 1, 221.
(13) Cfr. s. AGOSTINO, De bono coniugali.