José Pedro Galvão de Sousa, Cristianità n. 207-208 (1992)
Nel “[…] clima di “crisi” che attualmente investe […] le istituzioni pubbliche […] sulle quali la convivenza umana si fonda” (Giovanni Paolo II, Discorso ai partecipanti alla prima sessione della Conferenza permanente del Ministero dell’Interno della Repubblica Italiana su La cultura della legalità, dell’8-7-1991, n. 1, in L’Osservatore Romano, 8/9-7-1991), i paragrafi da 5 a 12 del secondo capitolo dell’opera Da representação política, Saraiva, San Paolo 1972, pp. 33-53. La traduzione è redazionale.
La rappresentanza della società politica/2
[“Sulla rappresentanza politica” III]
6. Che cos’è lo Stato di diritto
La crisi del potere legislativo e della rappresentanza politica — alla quale, nei governi rappresentativi moderni, è stato affidato il compito specifico di tale potere, cioè la funzione di elaborare norme di diritto — è materia straordinariamente rilevante di sociologia politica. Se il principio rappresentativo naufraga, sarà molto difficile evitare i regimi dispotici, e sarà aperta la via allo Stato totalitario. Per addentrarci nell’analisi più approfondita di questa crisi e per metterci alla ricerca delle sue soluzioni, sarebbe necessario che ci allontanassimo dal tema specifico di questa dissertazione. Siamo partiti dall’idea generale della rappresentanza nel diritto, quindi siamo passati alla sua applicazione al campo dei rapporti prodottisi in seno alla società politica. Dopo aver indicato i diversi significati della rappresentanza politica, siamo giunti al concetto di governo rappresentativo, osservandolo secondo una duplice modalità. Dobbiamo proseguire su questo piano concettuale, che è quello della Teoria Generale dello Stato e che non si confonde con quello della sociologia politica, in senso stretto, né con quello della politica oppure con quello del diritto costituzionale. Cercare soluzioni per il problema della rappresentanza, così come si presenta nell’attualità, è opera della politica giuridica nel campo del diritto costituzionale, attraverso la critica dello jus constitutum e attraverso la costruzione dello jus constituendum. Ma quest’opera non può essere portata avanti senza i chiarimenti concettuali previ, che costituiscono oggetto precipuo della Teoria Generale dello Stato. E in questa linea di precisione scientifica importa, dopo quanto è stato detto fino a questo punto, sottolineare ancora un’idea di grande portata: la rappresentanza politica bene intesa porta allo Stato di diritto. Oppure, invertendo l’ordine ed esplicitando meglio l’idea: lo Stato di diritto è necessariamente uno Stato di governo rappresentativo. Prima di dimostralo, è indispensabile rendere ben chiaro il concetto di Stato di diritto, non sempre inteso nel modo dovuto. Si tratta di un concetto fondamentale per un ordine di giustizia nelle società umane, derivante dall’isonomia dei greci; dalle formule ciceroniane scolpite in modo esemplare; dal rex propter regnum delle monarchie cristiane medioevali; dalla Magna Charta britannica; dalla sottomissione del sovrano a Dio e all’ordine universale insegnata da Henry de Bracton nel secolo XIII; oppure dal dominium politicum et regale lodato, nel secolo seguente, da John Fortescue, che scrive sulle istituzioni della sua patria, mentre censurava il dominium tantum regale della Francia di Luigi XI, ove cominciava a consolidarsi l’assolutismo. Si tratta di un concetto che è passato dalla tradizione inglese del rule of law al costituzionalismo americano, divenendo oggetto di accurata elaborazione nella teoria dello Stato del secolo XIX, a proposito della quale bisogna mettere in risalto il contributo degli autori tedeschi, che soprattutto in Prussia — paradossalmente la terra d’elezione dell’esaltazione dello Stato —, tracciavano le linee maestre del Rechtsstaat, definite con perizia e con sicurezza dalla mano ferma di Friedrich Julius von Stahl.
Nello Stato di diritto devono essere realizzate le seguenti condizioni:
1. Lo Stato è sottoposto all’ordine giuridico, che si impone, attraverso regole di carattere generale, sia a governanti che a governati: supremazia della legge e uguaglianza giuridica, negazione dell’assolutismo con la sua massima princeps legibus solutus.
2. Sono necessarie garanzie per tutti contro l’arbitrio del potere, con la soggezione dello Stato al diritto garantita da procedure atte a dare alla società i mezzi per rendere effettiva tale soggezione, attraverso la possibilità di ritenere responsabili i governanti davanti alla giustizia per atti trasgressivi dell’ordine giuridico: garanzie di diritti, indipendenza della magistratura.
3. Poiché è superiore allo Stato, il diritto non può essere creato dallo Stato, e così si riconosce un criterio oggettivo di giustizia, dal quale dipende il diritto positivo, le cui norme, perciò stesso, non sono disposizioni derivanti esclusivamente dalla volontà del legislatore, contro il principio quod principi placuit legis habet vigorem oppure, nella sua versione democratica, contro l’idea della legge come espressione della volonté générale.
4. Poiché lo Stato non si confonde con la società, nell’elaborazione delle leggi deve rispettare il diritto storico costituito nella società politica e, nello stesso tempo, tenere in considerazione gli ordinamenti giuridici dei gruppi ivi esistenti, senza sopprimerne la giusta autonomia.
Nella concezione dello Stato di diritto è essenziale l’idea che lo Stato non crea il diritto, ma lo riconosce, sottomettendosi a esso, oppure sanzionando un diritto preesistente nella società.
La ratio juris della legalità stabilita dal potere politico sta nei superiori princìpi di giustizia che la informano e ai quali lo Stato deve sottomettersi. Hanno perduto questa idea i giuristi che hanno ridotto il diritto alla legge, e la legge a una espressione della volontà del legislatore, il Principe o il Popolo, che la manifesta attraverso i suoi rappresentanti.
Oltre alla conformità della legalità statale con l’ordine oggettivo di giustizia — il “diritto oggettivo” secondo Léon Duguit, il “diritto razionale” nel linguaggio di altri autori, il “diritto naturale” della terminologia classica e sempre attuale, che resiste a tutti i tentativi di demolirla (20) —, il diritto dello Stato si deve armonizzare con la pluralità degli ordinamenti giuridici esistenti nella società, senza assorbirli oppure distruggerli, poiché questo equivarrebbe alla negazione di uno Stato di diritto, in quanto negazione, da parte dello Stato, di diritti dei gruppi naturali e storici costitutivi della comunità politica (21).
Da questo deriva il carattere rappresentativo dello Stato di diritto, come si spiegherà di seguito.
7. Stato di diritto e governo rappresentativo
Di fatto, tali gruppi, senza una rappresentanza davanti al potere e anche senza la possibilità di un’influenza positiva nell’orientamento del governo, non potranno vedere garantita pienamente la propria autonomia, con il margine di libertà d’azione che deve essere riconosciuta a essi dallo Stato.
Quando, nel secolo XVIII, si chiese la separazione dei poteri per evitare l’abuso del potere, fu proprio mirando alla realizzazione dell’ideale dello Stato di diritto, le cui tradizioni di altre epoche erano state perdute con l’assolutismo monarchico. Perciò stesso, di fronte alla monarchia assoluta, sempre più potente e centralizzatrice in Francia — il dominium tantum regale che John Fortescue vedeva sorgere all’epoca di Luigi XI —, Charles-Louis de Secondat de Montesquieu e i suoi discepoli formulavano tale principio, la cui risonanza si sarebbe dilatata nello spazio e nel tempo. Si tratta di un principio abbozzato nell’Inghilterra del secolo XVII da John Lilburne e John Milton, da John Sadler e da George Lawson, e finalmente degno di una trattazione più ampia nel secondo Trattato del Governo Civile di John Locke (22).
“Il faut que le pouvoir arrête le pouvoir”, era la frase ben costruita da Charles-Louis de Secondat de Montesquieu nel libro XI, capitolo IV dell’Esprit des Lois. E, benché l’autore avesse davanti a sé la tradizione dei corpi intermedi e delle autorità sociali — certamente inferma, ma per la quale manifestava tutta la simpatia, volendo anche vederla rafforzata, da spirito conservatore e moderato qual era, e comprendendo che in ciò consisteva uno dei mezzi per realizzare la monarchia temperata —, non seppe cogliere con tutta la chiarezza necessaria che in queste autorità stavano gli elementi per contenere il potere nei suoi giusti limiti, più che nella divisione del potere politico.
Ce l’hanno mostrato, con acume e con talento, Enrique Gil Robles, dalla sua cattedra di Salamanca, e Juan Vázquez de Mella, dalla tribuna parlamentare, entrambi valorizzando in Spagna la concezione tradizionale di governo rappresentativo, che era declinata nell’epoca dell’assolutismo ed era stata abbandonata dalle Cortes di Cadice.
Tale governo consisteva nell’intima collaborazione de las Cortes con el Rey, qualcosa di simile a quanto avrebbe preso corpo più tardi in Inghilterra: the King in Parliament. Si trattava di una specie di co-sovranità — secondo Enrique Gil Robles — costituita da questo “duplice organismo autarchico-sovrano”: le regioni nazionali, nel loro dominio autarchico, rappresentate nelle Cortes, e il Re nella sua sfera sovrana (23).
Nel Tratado de Derecho Político del maestro di Salamanca viene dato il rilievo dovuto alla connessione fra Stato di diritto e governo rappresentativo, con una comprensione dell’argomento non superata e forse non uguagliata da altri espositori. Il governo rappresentativo è visto come “una proprietà e carattere di ogni governo regolarmente costituito e ordinato ai suoi fini”, che offre all’autarchia nazionale un organismo permanente e strutturato presso lo Stato, per armonizzare l’opera della società civile. Così la rappresentanza sorge come espressione dello Stato di diritto, ma l’autore diverge dalle concezioni di Robert von Mohl e di Johann Kaspar Bluntschli.
Collaborazione delle autorità sociali con l’autorità politica, limitazione del potere dello Stato da parte delle forze organiche della società, partecipazione popolare al lavoro preparatorio della confezione delle leggi con il riconoscimento, da parte dello Stato, delle fonti di diritto esistenti nell’ambiente sociale e senza pretesa da parte sua di diventare l’unica fonte del diritto: ecco, nello stesso tempo, lo Stato di diritto e il governo rappresentativo.
L’assenza di questo incastro della società con lo Stato rende impossibile la realizzazione di una o dell’altra di queste due idee.
In questo sta la ragione per cui, vedendo nello Stato il creatore solitario dell’ordinamento giuridico, con il suo potere di dominio assorbente tutta l’“autarchia” nazionale — per usare l’espressione di Enrique Gil Robles —, Georg Jellineck e altri sostenitori dello Stato di diritto hanno trovato come unica via d’uscita, per evitare l’abuso di potere, l’“autolimitazione dello Stato attraverso il diritto”, cioè attraverso il diritto da esso stesso creato e che può essere da esso stesso modificato in qualunque momento. Si tratta di una formula condannata già dalla sua semplice enunciazione per la sua precarietà pratica e per la sua contraddittorietà teorica.
8. La corruzione ideologica dello Stato di diritto
La teoria dell’autolimitazione è una delle più tipiche manifestazioni del legalismo positivista, che è venuto a pervertire la nozione di Stato di diritto. Questo legalismo, nella storia delle idee e delle istituzioni giuridiche occidentali, ha avuto inizio con l’influenza dei legisti, al servizio della monarchia assoluta, facendo prevalere l’idea della “creazione del diritto” sulla concezione medioevale della “scoperta del diritto”. Da un lato, si trattava della riduzione del diritto alla legge, ma anche, dall’altro, dell’imperio della massima princeps legibus solutus.
I giureconsulti romani ebbero un’idea chiara del fatto che il diritto non è semplicemente la legge. Nell’epoca classica non si è mai verificata la confusione fra i due concetti. Lo jus, oggetto della giustizia, non solo non era visto come la lex in senso stretto — una delle fonti del diritto (24) —, ma, inoltre, non era confuso con nessun tipo di norma agendi, secondo il significato che è stato dato modernamente al diritto oggettivo (25). Tuttavia, nell’ultima fase del diritto romano, specialmente nell’epoca della codificazione, alla legge fu attribuito un primato concettuale e pragmatico, in coincidenza con il rafforzamento del potere imperiale e con il progressivo avanzare del socialismo di Stato. In queste concezioni della Roma decadente, i romanisti dell’Ancien Régime andarono a cercare gli elementi atti a giustificare la monarchia assoluta, e ne risultò anche un legalismo che precedette e preparò il volontarismo giuridico e il positivismo: legge, espressione della volontà del sovrano, quod principi placuit legis habet vigorem.
I pensatori del secolo XVIII si levarono proprio contro l’assolutismo monarchico, desiderosi di restringere il potere dello Stato e di un regime di garanzie per le libertà individuali. E ne è nata l’idea dello Stato di diritto, già contenuta nella filosofia giuridica di Immanuel Kant e la cui diffusione ebbe inizio a partire dalla pubblicazione dell’opera pionieristica di Robert von Mohl Die Polizeiwissenschaft nach den Grundsätzen des Rechtsstaates [La scienza politica secondo i princìpi dello Stato di diritto]. Ma la nuova formulazione di questo concetto, noto agli antichi e agli uomini del Medioevo, conservato nella tradizione inglese e ripudiato dall’assolutismo, questa nuova formulazione finiva per condurre allo stesso errore che si voleva combattere nell’assolutismo, cioè alla creazione di un ordine giuridico attraverso una decisione emanata dalla volontà del potere. Non era diverso il significato della teoria dell’autolimitazione dello Stato, espressione positivista dello Stato di diritto.
Lo svolgimento posteriore dello Stato di diritto, sul piano concettuale della teoria dello Stato e sul piano istituzionale del diritto politico, produsse di conseguenza la distruzione dell’idea stessa di Stato di diritto. Sottoposta a un formalismo assoluto — che vede nella legalità soltanto il prodotto delle decisioni del potere all’interno di formalità determinate dall’ordine giuridico positivo — si giunge a un punto in cui ogni Stato finisce per essere uno Stato di diritto. Infatti, dal momento in cui vi è un ordine giuridico stabilito, poiché lo si considera solamente dal punto di vista formale, in tale concezione è possibile inquadrare ogni e qualsiasi Stato, perfino la monarchia assoluta, perfino anche uno Stato totalitario (26).
Questo formalismo vizia a fondo certe concezioni dello Stato di diritto e, proprio per superarlo, molti oggi propongono, rafforzando e completando il citato concetto, lo “Stato di giustizia”: è la lezione di Giorgio Del Vecchio e, in Brasile, di Alfredo Buzaid (27).
Al positivismo e al formalismo si aggiunge il monismo, per il quale esiste soltanto il diritto dello Stato, perché cessano il riconoscimento e la dovuta valorizzazione della pluralità degli ordinamenti giuridici. Dal coniugio di queste tendenze del pensiero giuridico è derivata, relativamente allo Stato di diritto, l’adulterazione del suo concetto.
9. L’adulterazione del governo rappresentativo
Nella visione con cui fu prospettato nella Francia rivoluzionaria venne deturpato anche il governo rappresentativo. Se Jean-Jacques Rousseau, uno dei principali esponenti del pensiero trionfante nel 1789, era visceralmente avverso alla rappresentanza, questa trovò in Emmanuel-Joseph Sieyès il suo grande araldo, nella sistematizzazione dell’ideologia nel cui nome i deputati eletti agli Stati Generali trasformarono questo organismo rappresentativo in Assemblea Nazionale Costituente (28).
Il nuovo regime sorse, sotto il cielo di Parigi, rapido come un fulmine. Lo nota Georges Burdeau facendo un parallelo con l’Inghilterra, dove il governo rappresentativo, maturando gradatamente, era derivato da un lento mutamento nelle istituzioni tradizionali, mantenute nella loro struttura e adattate alle nuove condizioni: “A differenza dell’idea inglese di rappresentanza, empirica e arricchita progressivamente nella misura in cui i deputati conquistarono le prerogative della loro funzione a danno del potere regale, la concezione francese ha fatto la sua comparsa improvvisamente, quando gli Stati Generali si trasformarono in Assemblea Nazionale, raggiungendo di colpo la loro pienezza logica e con un potere di irradiazione tale che, per più di un secolo, potè servire da fondamento all’organizzazione costituzionale della maggioranza degli Stati democratici che non si situavano nell’orbita anglosassone” (29).
Il punto di partenza di questa concezione stava nella tesi proclamata nella Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino in questi termini: “Il principio di tutta la sovranità risiede essenzialmente nella Nazione. Nessun corpo, nessun individuo può esercitare qualche autorità che non emani espressamente da essa”.
Ma come veniva intesa la Nazione sovrana? Non in quanto comunità storica, formata da famiglie e da altri gruppi, con abitudini sociali, credenze e aspirazioni trasmesse di generazione in generazione. Non riflessa e palpitante nel popolo reale, erede di una discendenza di tradizioni. Non nella sua affermazione concreta di unità culturale e politica, segnata da peculiarità caratterizzanti il suo modo di essere, da uno stile di vita inconfondibile con quello di altre comunità dello stesso genere.
No. Si aveva presente il prodotto di un contratto sociale, il raggruppamento di individui sotto una legge comune, il “risultato di volontà individuali”, secondo l’espressione di Emmanuel-Joseph Sieyès, in una concezione — nota Francisco Ayala — “forgiata nell’ignoranza razionalista e volontarista della sostanza nazionale” (30).
Sarebbe toccato ai deputati rappresentare la Nazione come unità politica ideale e non più in qualità di mandatari di ordini sociali diversi. Inoltre — diceva Emmanuel-Joseph Sieyès — l’interesse di una corporazione è egoismo, l’interesse nazionale è virtù. Su questo punto si trovava con Jean-Jacques Rousseau. L’autore del Contrat Social sosteneva il principio che nello Stato non vi deve essere società parziale (31). Da questo la soppressione degli organismi intermedi e l’affermazione politica della collettività nazionale come un tutto omogeneo.
Con la sua dialettica ben architettata e con un suggestivo linguaggio libellistico, l’autore di Qu’est-ce que le Tiers état? scriveva: “Sappiamo qual è il vero oggetto di una Assemblea nazionale; non è fatta per occuparsi degli affari privati dei cittadini, ma li considera in massa e dal punto di vista dell’interesse comune. Ne traiamo la conseguenza naturale, che il diritto di farsi rappresentare appartiene ai cittadini soltanto in virtù delle qualità che sono loro comuni, e non di quelle che li dividono” (32).
Quindi, abbiamo la Nazione in astratto, unità politica ideale; il Cittadino astratto, svincolato dai suoi interessi reali e votato, con intento virtuoso — l’uomo naturalmente buono di Jean-Jacques Rousseau?… —, al bene comune; e, infine, una rappresentanza astratta, perché non rappresenta concretamente nulla, e nell’ampiezza del mandato o delega ricevuta da ogni deputato svanisce il rapporto fra la sua stessa volontà e la volontà del corpo elettorale, a sua volta trasfigurata nell’ugualmente astratta volonté générale.
In questa concezione, il deputato non rappresenta gli elettori, come accadeva al tempo del “mandato imperativo”, ma la stessa Nazione, e la volontà nazionale prende corpo nella volontà dei suoi rappresentanti. In questa presunta identità fra la volontà nazionale e quella dei suoi rappresentanti, come nell’indivisibilità della sovranità del testo della Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino, Georges Burdeau vede i due princìpi essenziali di una costruzione politica teoricamente perfetta, ma che si scontra clamorosamente con la realtà. “La teoria della rappresentanza è una cosa, il funzionamento del regime rappresentativo è un’altra. Ora, l’osservazione più rapida della vita politica interna degli Stati rappresentativi dalla fine del secolo XIX prova che fra la teoria e il fatto si è venuto accentuando sempre più il divorzio”. E lo stesso autore pensa che “l’ideale dell’indivisibilità della sovranità era chimerico e, di conseguenza, la Nazione, nel suo insieme, non poteva dare al corpo rappresentativo un mandato globale di volere in suo nome, dal momento che la struttura sociale era profondamente divisa. Ogni classe volle aver i suoi mandatari incaricati di sostenere le proprie rivendicazioni”. Dalle assemblee era assente il “popolo reale, con le sue sfumature, i suoi contrasti, i suoi interessi divergenti” (33).
La Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino, affermando che non vi è Costituzione senza la garanzia dei diritti e senza la separazione dei poteri, proponeva così l’ideale dello Stato di diritto. I rivoluzionari dell’Ottantanove non smisero di essere abbondantemente influenzati dall’esperienza dell’Inghilterra e dal recente esempio degli Stati Uniti. Ma il marchese di La Fayette, che conosceva molto bene questo esempio, confrontando il regime instaurato in Francia con il rule of law degli americani, poteva dire che quanto si stava dando fra i suoi concittadini non era il “regno della legge” bensì il “regno dei clubs“ (34). Allo stesso modo, il governo rappresentativo instaurato sotto gli auspici di Emmanuel-Joseph Sieyès, lungi dall’essere il governo del popolo sovrano attraverso i suoi rappresentanti, era l’espressione della sovranità delle “società di pensiero”, la cui parte, nella genesi e nello sviluppo della Rivoluzione, è stata illuminata definitivamente da Augustin Cochin (35).
Nel governo rappresentativo tradizionale di Castiglia e di Aragona, analizzato da Enrique Gil Robles, nonostante tutti gli errori che si possano indicare — dovuti soprattutto alla mancanza di continuità delle Cortes, perché non era adeguatamente garantita la loro convocazione periodica e perché questa restava alla mercé della volontà del monarca — esisteva la comprensione dell’eterogeneità del “popolo reale” cui fa riferimento Georges Burdeau. E la partecipazione della comunità nazionale al governo aveva possibilità di essere più effettiva in tale regime “autarchico-sovrano” che in questa forma snaturata di governo rappresentativo, nel quale la sovranità teoricamente indivisibile finiva per essere ripartita fra le minoranze organizzate.
Il monismo giuridico, che ha rovinato la concezione dello Stato di diritto, si manifesta anche a questo proposito, escludendo le autorità sociali per affermare solamente la sovranità politica, emarginando i gruppi intermedi, riducendo tutto il diritto all’ordine giuridico statale e facendo della società — la Nazione — l’“assemblage des individus” (36), la massa di cittadini isolati di fronte al potere dello Stato. Monismo individualista che prepara il monismo dello Stato totalitario.
10. Mandato rappresentativo e mandato imperativo
Grazie a una improprietà di espressione si è indicato come mandato rappresentativo il trasferimento di poteri ai deputati, delegando loro l’esercizio della sovranità.
L’idea del mandato rappresentativo era già stata espressa da Sir William Blackstone e da Edmund Burke, nella tradizione del sistema parlamentare inglese. Se ne fece difensore Emmanuel-Joseph Sieyès, sostenendo l’incompatibilità del mandato imperativo con il regime rappresentativo. Nella sua argomentazione, si poneva nella stessa posizione di Charles-Louis de Secondat de Montesquieu, secondo il quale il popolo è mirabile quando si tratta di scegliere, ma è incapace di trattare gli affari (37).
Escluso il mandato imperativo, si passò a preconizzare l’ampiezza di un mandato senza restrizioni. Con il primo, ogni deputato rappresenta una circoscrizione elettorale oppure un determinato gruppo che l’abbia scelto, e riceve anche istruzioni speciali. Con il mandato detto rappresentativo, si pensa che il deputato rappresenti la Nazione, e che non sia vincolato da nessuna direttiva previamente stabilita.
Come spiega molto bene Georges Burdeau, le volontà dei rappresentanti devono essere intese non come volontà loro proprie, ma come espressione della volontà nazionale. “Per cogliere il significato esatto di questa rappresentanza, è necessario comprendere che la funzione dei rappresentanti non è quella di formulare una volontà preesistente nel corpo nazionale. È quella di volere per la nazione, il che significa che la volontà nazionale esiste soltanto a partire dal momento in cui un atto dei rappresentanti ne abbia espresso la sostanza. Quindi la rappresentanza non ha come oggetto di delegare a certi organi il potere d’interpretare i voti oppure le aspirazioni della collettività. Ha il fine di autorizzare questi organi a dire quello che vuole la nazione, cioè a essere la sua volontà e la sua voce. Insomma, la rappresentanza è creatrice della volontà nazionale” (38).
Il mandato rappresentativo non è il mandato nel senso del diritto privato. Lo mettono in risalto quanti hanno trattato l’argomento. Da questo la distinzione fra Räpresentation e Vertretung negli autori tedeschi. È il freies Mandat , il “mandato libero”, non soggetto alle limitazioni del mandato imperativo.
Ciononostante non si smette di usare l’espressione “mandato”, dando a essa un significato particolare. Lo stesso termine è applicabile a due concetti diversi.
D’altra parte, vi sono due diversi sistemi di rappresentanza politica. In uno di essi il mandato è ampio, nell’altro è ridotto. Ma sono entrambi rappresentativi. Perché ridurre solamente al primo questo aggettivo? Anche il mandato imperativo implica rappresentanza, e perfino in un modo più accentuato, grazie al vincolo maggiore che istituisce fra il deputato e i suoi elettori. Se “mandato” serve per designare categorie diverse, nel diritto privato e nel diritto pubblico, perché “rappresentanza” non servirà per denominare due tipi diversi di mandato di diritto pubblico, ciascuno dei quali cerca di realizzare il sistema rappresentativo?
11. La rappresentanza politica e i princìpi del mandato di diritto civile
Darcy Azambuja osserva che la concezione secondo cui il mandato di diritto civile è applicato al diritto pubblico si è così diffusa che gli stessi testi costituzionali sono giunti a confermarla. Infatti, in Brasile, la Costituzione del 1891 usava il termine “mandato” facendo riferimento alla funzione di senatore e di deputato, e il suo principale autore e massimo interprete intendeva la locuzione nello stesso senso del diritto privato.
Ecco quanto adduce Ruy Barbosa in una petizione di habeas corpus trascritta dal primo volume, numero 2, della Revista do Supremo Tribunal:
“Il mandato è nazionale. Lo conferisce la nazione, che elegge i membri del Congresso.
“Ora, dal mandato deriva, per il mandante, il diritto di chieder conto ai suoi mandatari, e, per i mandatari, il dovere di render conto.
“Pertanto, è dovere del mandatario rispondere al mandante del modo in cui ha compiuto il mandato. Quindi, è dovere del membro del Congresso Nazionale rispondere alla nazione del modo in cui svolge le funzioni legislative.
“Per questo controlla continuamente gli atti dei suoi rappresentanti, segue le deliberazioni parlamentari, sulle quali deve agire costantemente l’opinione pubblica, nella sua funzione di guida, giudice, freno e propulsore.
“Ora, i rapporti di mandante e mandatari si esercitano sulla nazione e sui membri del Congresso Nazionale attraverso la propaganda, non la propaganda ufficiale, alla quale mancano i mezzi di larga diffusione, ma la propaganda generale della stampa, la sua vastissima propaganda.
“Coartarla significa defraudare la nazione del suo diritto sovrano di seguire giorno dopo giorno, momento dopo momento, le deliberazioni dei suoi rappresentanti. Ma significa anche, nello stesso tempo, e perciò stesso, sottrarre ai rappresentanti della nazione l’unico mezzo esistente per corrispondere, ogni giorno e in ogni momento, con la loro costituente, la nazione, informandola, con la dovuta continuità, del comportamento dei suoi procuratori“.
Questa concezione, che applica al mandato in diritto costituzionale i princìpi generali del mandato di diritto civile, e che quindi fa dei deputati i procuratori della Nazione, si combina perfettamente con il sistema tradizionale di rappresentanza politica e con il mandato imperativo. Ma è incompatibile con la teoria moderna del mandato rappresentativo, di fronte al quale i rapporti fra la Nazione e i membri del Congresso o Parlamento si sottraggono a tali princìpi.
Darcy Azambuja lo prova con le seguenti ragioni:
1. Il deputato è eletto da un collegio o circoscrizione elettorale, e tuttavia si pensa che rappresenti tutta la Nazione, non soltanto la circoscrizione o il collegio che lo ha eletto (39). Non si può concepire che il mandatario rappresenti altri oltre il mandante.
2. Una delle caratteristiche essenziali del mandato civile è la sua revocabilità da parte del mandante. Ora, nel regime rappresentativo moderno il deputato non può essere destituito dai suoi elettori. Una volta riconosciuto e insediato, nessuna dipendenza legale lo vincola ai suoi elettori, perché questi non possono eliminare poteri che di fatto non sono stati conferiti da loro, ma dalla Costituzione (40).
3. Nel mandato di diritto privato il mandatario deve render conto al mandante degli atti realizzati nella qualità di suo rappresentante. Ma il deputato non è obbligato a render conto agli elettori, agisce in piena indipendenza rispetto a essi.
4. Il mandatario ha soltanto i poteri che il mandante gli ha concesso e, se oltrepassano i poteri conferiti, i suoi atti sono nulli. “Chi potrebbe sostenere che, in regime rappresentativo, il rappresentante è obbligato dalla volontà dell’elettorato e che sarebbero nulli gli atti da lui realizzati contro la volontà dei suoi elettori?” (41).
Perciò, l’autore citato conclude, con Raymond Carré de Malberg, che “il regime rappresentativo è caratterizzato dalla non ammissione della rappresentanza” (42).
Facendo anche riferimento alla soluzione di conciliazione di coloro secondo i quali esiste mandato non fra gli elettori e gli eletti, ma fra la Nazione, persona giuridica, da una parte, e il Parlamento, corpo politico organizzato, dall’altra, Darcy Azambuja osserva: “Fin da subito si può dire che, se è la nazione a conferire il mandato, dovrebbe essere essa stessa a eleggere i mandatari. Ora, chi elegge, anche nei paesi dove il suffragio universale è più ampio, anche nei paesi dove il corpo dei cittadini attivi è più esteso, non è la nazione, ma una frazione, generalmente esigua, del numero totale dei membri della nazione. In questo senso le statistiche sono concludenti, e dimostrano non soltanto che gli elettori, per il loro numero, non possono essere considerati come fossero la nazione, ma ancora, il che è più grave, che i rappresentanti sono eletti da una minoranza di cittadini qualificati elettori” (43).
12. Rappresentanza maggioritaria e rappresentanza proporzionale
La problematica della rappresentanza parlamentare ha costituito un incubo per i costituzionalisti. Questi si dividono nella ricerca di un sistema elettorale che permetta di verificare la volontà popolare e di ottenere un’autentica rappresentanza. Da una lato si trovano i sostenitori del criterio maggioritario, dall’altro quelli della rappresentanza proporzionale.
I primi sono più vicini alla concezione rivoluzionaria del sistema rappresentativo, formulata da Emmanuel-Joseph Sieyès. La volontà espressa dai rappresentanti è identificata con la volontà nazionale, poiché è l’espressione del corpo politico immaginato come un’unità ideale. Non si tratta di riflettere le diverse correnti di opinione, oppure gli interessi dei gruppi, contro i quali Emmanuel-Joseph Sieyès metteva in guardia i suoi concittadini, preoccupato di sintonizzare ciascuno di loro con l’interesse comune. L’importante è garantire tale identificazione. Poiché l’unanimità non è possibile, il criterio della maggioranza è il più indicato per giungere a questo risultato. Si crede che la volontà ideale del popolo — non la volontà di tutti — sia espressa dalla maggioranza.
Il principio della rappresentanza proporzionale lascia il terreno dell’idealità per quello delle realtà concrete. Indubbiamente significa una flessione nella linea di pensiero ispiratrice dei teorici della Rivoluzione francese. Costituisce una concessione alle diverse volontà esistenti nell’ambiente sociale, con rottura dell’unità ideale oggettivata da tali teorici. Deriva dall’accostamento al “popolo reale”, e fa tenere in considerazione le sue divisioni, la sua eterogeneità. La preoccupazione dominante dei suoi sostenitori sta nella rappresentanza delle minoranze, affinché sia data la possibilità di esprimersi a tutte le correnti dell’opinione pubblica, dal momento che si tratta di elementi che compongono la collettività nazionale. Si vuol passare dalla Nazione ideale alla Nazione reale.
A quanti sostengono la rappresentanza proporzionale per ribellarsi contro la tirannia oppressiva della maggioranza, i loro avversari rispondono che chi respinge il principio della maggioranza cadrà necessariamente nell’anarchia o nel dispotismo. Lo diceva già Abraham Lincoln, con parole trascritte da Ferdinand Aloys Hermens in epigrafe della sua opera Europe between Democracy and Anarchy, edita nel 1951, dieci anni dopo che lo stesso autore aveva pubblicato Democracy or Anarchy? In entrambi questi studi sulla rappresentanza proporzionale Ferdinand A. Hermens illustra la tesi di Abraham Lincoln con fatti politici della nostra epoca, e specialmente con la distruzione della democrazia di Weimar da parte del nazionalsocialismo. La rappresentanza proporzionale rese possibile l’ascesa al potere di Adolf Hitler, che si servì dell’arma legale che gli metteva in mano lo Stato rappresentativo di diritto instaurato in Germania dopo la prima guerra mondiale (44).
Non si deve entrare in questa sede nelle questioni tecniche di diritto costituzionale relative all’applicazione dei citati sistemi elettorali, come quelli attinenti al suffragio uninominale e al suffragio di lista, oppure ai procedimenti per realizzare la rappresentanza proporzionale, fra i quali emerge quello di Th. Hare, pienamente approvato da John Stuart Mill, e quello di Hondt, professore dell’Università di Gand (45). Elezione diretta o indiretta, voto segreto o palese sono pure temi complementari nella teoria della rappresentanza.
Solo una parola deve essere ancora detta riguardo al suffragio universale e al suffragio limitato. Se è vero che il primo corrisponde più logicamente all’idea di governo rappresentativo, soprattutto nella sua forma moderna e individualista, tuttavia lo Stato liberal-borghese si è strutturato, dal punto di vista della rappresentanza, attraverso la limitazione del suffragio, adottando il criterio del censo elevato, che rispondeva meglio agli interessi della classe dominante. Era il tempo del famoso motto di François-Pierre-Guillaume Guizot: “Enrichissez-vous!”.
Questa limitazione, per motivi economici e soprattutto culturali, deriva, d’altro canto, dalla presenza dell’idea aristocratica nella democrazia, la cui essenza — giunge a dire Ferdinand A. Hermens — è costituita dal principio della guida, o political leadership (46). Come abbiamo visto, John Stuart Mill mette in risalto l’importanza della selezione per la formazione delle élite dirigenti. Così pure, secondo Karl Salomon Zachariae, “la Costituzione basata sul sistema rappresentativo ha il significato e la finalità di moderare la democrazia attraverso un’elezione aristocratica” (47).
L’universalizzazione del suffragio è caratteristica della democrazia moderna di massa, che da rappresentativa, in senso classico, tende a diventare plebiscitaria.
La rappresentanza proporzionale è nata dallo sviluppo dei partiti politici e dalla loro proliferazione. Dove ha prevalso il bipartitismo, il principio maggioritario ha avuto condizioni per sopravvivere.
Qual è il significato dei partiti politici nel sistema rappresentativo?
José Pedro Galvão de Sousa
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(20) Cfr. Léon Duguit, Études de droit public, vol. I, L’État, le droit objectif et la loi positive, Ancienne Librairie Thorin & Fils e Albert Fontemoing Éditeur, Parigi 1901; e Louis Le Fur, Les grands problèmes du droit, Recueil Sirey, Parigi 1937, cap. IV, Le droit naturel (ou rationel, objectif). Son rôle dans la formation du droit positif interne ou international, pp. 136-195; cfr. anche Heinrich Rommen, L’eterno ritorno del diritto naturale, trad. it., Studium, Roma 1965.
(21) Un aspetto interessantissimo, che non si deve esaminare in questa sede per non deviare dall’argomento che ci siamo proposti, è quello della formazione del diritto come un riconoscimento, da parte dello Stato, del diritto sociale preesistente. Allora si vede che il compito del legislatore consiste nello scoprire il diritto piuttosto che nel crearlo. Il professor Manoel Gonçalves Ferreira Filho, nella sua tesi Do Processo Legislativo (San Paolo 1968) ricorda che, nel pensiero di Charles-Louis de Secondat de Montesquieu, il legislatore non è creatore, ma semplice “scopritore della legge” (p. 39), il che corrisponde anche al pensiero medioevale, che “non concepiva la creazione di leggi, ma soltanto la scoperta di leggi” (p. 29). È la grande lezione di Edmund Burke: “Tutte le leggi umane sono, propriamente parlando, soltanto dichiaratorie: possono modificare il modo e l’applicazione, ma non hanno alcuna facoltà di modificare la sostanza del diritto originale” (Tracts Relative to the Laws against Popery in Ireland, in Idem, The works of the right honourable Edmund Burke, vol. II, Londra 1910, p. 350).
(22) Cfr. Friedrich August Hayek, La società libera, trad. it., Vallecchi, Firenze 1969, capitolo undicesimo, § 5, pp. 198-199, e § 7, nota 56, pp. 218 e 516-517.
(23) Enrique Gil Robles usa l’espressione “autarchia” non nel senso che è venuta acquisendo nel diritto amministrativo, ma nel significato aristotelico di “autogoverno”, il self-government degli inglesi. Juan Vázquez de Mella, invece di “sovranità” e di “autarchia”, parla rispettivamente di “sovranità politica” e di “sovranità sociale”.
(24) Cioè del diritto scritto: “lex, plebi scita, senatus consulta, principum placita, magistratum edicta, responsa prudentium” (Inst. I, II).
(25) Michel Villey mostra che il giusto in sé “n’est point tel parce qu’on le commande, mais commandé parce qu’il est juste (jussum quia justum)” (Abrégé du droit naturel classique, in Archives de philosophie du droit, nuova serie, n. 6, 1961, p. 63). Già i romani avevano detto: “non ex regula ius sumatur”.
(26) Lo ha colto molto bene Arturo Enrique Sampay quando dice che quanti, considerando la natura dello Stato di diritto su un piano puramente formale, “affermano che lo Stato di diritto è lo Stato fatto funzionare attraverso un ordinamento giuridico, formulano una sterile tautologia, perché osservata da un’angolazione puramente logico-formale ogni organizzazione politica sovrana — dal clan allo Stato — con la qualità di unità suprema di decisione e di efficienza per garantire la certezza del significato e della esecuzione del diritto, può essere soltanto Stato di diritto” (La crisis del Estado de Derecho liberal-burgués, Losada, Buenos Aires 1942, p. 60). Otto Koellreutter cerca di attualizzare la concezione dello Stato di diritto inquadrando in essa lo Stato nazionalsocialista (Der nationale Rechtsstaat. Zum Wandel der deutschen Staatsidee [Lo Stato di diritto nazionale. Per la trasformazione dell’idea tedesca di Stato], 1932). Infine, Carl Schmitt, in un articolo scritto nel 1935, afferma che, com’è esistito uno Stato di diritto cristiano, liberale, borghese, fascista, e così via, allo stesso modo si può concepire uno Stato di diritto comunista (Was bedeutet der Streit um dem “Rechtsstaat”? [Che cosa significa la lotta per lo “Stato di diritto”?], in Zeitschrift für die gesamte Staatswissenschaft, XCV, n. 2, 1935, pp. 189-201): cfr. Piero Bodda, Lo Stato di diritto. A proposito di alcune recenti opinioni, Giuffrè, Milano 1935, pp. 37-42.
(27) Oltre ad altri, Giorgio Del Vecchio preferisce l’espressione “Stato di giustizia” a “Stato di diritto”, adducendo a favore di essa i contributi di Godwin e di Menger nel senso che lo Stato ha come missione essenziale la giustizia (La Justice-La Verité. Essais de Philosophie Juridique et Morale, trad. francese, Dalloz, Parigi 1955, pp. 92 e 103). Sul passaggio da uno “Stato di legalità” a uno “Stato di giustizia”, cfr. la notevolissima opera di René Marcic, Vom Gesetzesstaat zum Richtersstaat. Recht als Maß der Macht. Gedanken über den demokratischen Rechts- und Sozialstaat [Dallo Stato della legge allo Stato del magistrato. Il diritto come misura della forza. Pensieri sullo Stato democratico di diritto e sociale], Springer, Vienna 1957. L’autore mette in risalto anche l’oggettività del concetto di diritto, indipendente dalla legge. Anche Alfredo Buzaid mostra che lo Stato di Giustizia contiene e supera lo Stato di Diritto (Rumos Políticos da Revolução Brasileira, in Arquivos do Ministério da Justiça, anno XXVIII, n. 113, marzo 1970, p. 26).
(28) Così, secondo Marcel de la Bigne de Villeneuve, il governo rappresentativo, nella sua modalità rivoluzionaria, è nato da una usurpazione di qualità. I deputati agli Stati Generali, secondo il diritto dell’epoca, avevano ricevuto un mandato limitato e imperativo, contenuto nei Cahier: “Proclamandosi Assemblea Nazionale Costituente rinunciarono a esso, lo ripudiarono, e quindi rivendicarono il mandato generale della Nazione a partire dal momento in cui non erano più mandatari a nessun titolo” (Traité Général de l’État. Essai d’une Théorie Réaliste de Droit Politique, II, Recueil Sirey, Parigi 1929, pp. 69-70).
(29) Georges Burdeau, Traité de Science Politique, IV, Librairie Générale de Droit et de Jurisprudence, Parigi 1952, p. 243.
(30) Francisco Ayala, Studio preliminare alla trad. spagnola di Emmanuel-Joseph Sieyès, ¿Que es el Tercer Estado?, Editorial Americalee, Buenos Aires 1943, p. 17.
(31) J.-J. Rousseau, Du Contrat Social, libro II, cap. 3: “Il importe donc pour avoir bien l’énoncé de la volonté générale qu’il n’y ait pas de société partielle dans l’État, et que chaque Citoyen n’opine que après lui”.
(32) Nel capitolo sesto di questo libro esplosivo e che ha avuto così grande influenza l’autore svolge i princìpi fondamentali della nuova teoria del sistema rappresentativo. Mostra che negli uomini vi sono tre tipi d’interesse: l’interesse personale, sulla cui base uno si isola, si cura soltanto di sé stesso ed è inoffensivo; l’interesse corporativo o di gruppo, il più nocivo, perché può prevalere contro l’interesse nazionale; e finalmente quest’ultimo, ossia “celui par lequel les citoyens se ressemblent; il présente la juste étendue de l’interêt commun”.
(33) Cfr. G. Burdeau, op. cit., IV, pp. 244, 247, 249 e 251.
(34) F. A. Hayek, op. cit., capitolo tredicesimo, § 2, p. 226.
(35) Con le sue ricerche sull’opera delle società di pensiero in Bretagna, Augustin Cochin rinnovò la storia della Rivoluzione francese. Morto sul campo di battaglia nella guerra del 1914, lasciò nella sua opera postuma, oltre ai due volumi con il risultato di tali ricerche, le seguenti pubblicazioni: Les Sociétés de Pensée et la Démocratie e La Révolution et la Libre Pensée.
(36) E.-J. Sieyès, op. cit., ibidem.
(37) Cfr. Carles-Louis de Secondat de Montesquieu, De l’Esprit des Lois, libro II, cap. 2, e libro XI, cap. 6. Emmanuel-Joseph Sieyès espone la sua concezione di governo rappresentatitivo non solo nel libro sul Tiers état, ma anche nei discorsi, soprattutto quando alla Costituente si discuteva la questione dei mandati imperativi. Diceva: “La grande maggioranza dei nostri concittadini non ha istruzione sufficiente né tempo per volersi occupare direttamente delle leggi che devono reggere la Francia; quindi deve nominare rappresentanti” (cit. in R. Carré de Malberg, op. cit., II, p. 256). Quanto a Sir William Blackstone e a Edmund Burke, vedi capitolo VI, § 8.
(38) G. Burdeau, op. cit., p. 244.
(39) La Costituzione francese del 1791, al suo titolo III, cap. I, sezione III, articolo 7, dispone: “I rappresentanti eletti nei dipartimenti non saranno rappresentanti di un dipartimento particolare, ma dell’intera Nazione, e non potrà essere loro dato nessun mandato”.
(40) Fra le eccezioni a questo principio l’autore ricorda la Costituzione del Rio Grande del Sud, del 14 luglio 1891, che ammetteva la “revoca del mandato” di deputato all’Assemblea dei Rappresentanti e degli Intendenti Municipali.
(41) Darcy Azambuja, Teoria Geral do Estado, Livraria do Globo, Pôrto Alegre 1942, cap. XVIII.
(42) Cfr. R. Carré de Malberg, Théorie Générale de l’État, II, p. 367. Da parte sua Paul Laband, riconosce questa mancanza di rappresentatività: “Non ha senso positivo, significato giuridico, la qualificazione dei membri del Reichstag come rappresentanti dell’intiero popolo; in senso giuridico i membri del Reichstag non rappresentano chicchessia; le loro attribuzioni non sono derivate da un altro soggetto giuridico”. E ancora: “Il popolo (cioè, a dir meglio, la somma di tutti i singoli cittadini dell’Impero dotati del diritto elettorale) è chiamato soltanto nell’atto della formazione del Reichstag a partecipare giuridicamente alla vita statuale dell’Impero; in ogni elezione il cittadino esaurisce l’esercizio del proprio diritto politico con un atto unico. È da considerare come antigiuridica la contraria concezione che il popolo eserciti, mediante il Reichstag, come sua rappresentanza, una partecipazione continua agli affari pubblici dell’Impero. Appena compiuta l’elezione, cessa ogni partecipazione, ogni cooperazione, ogni influenza giuridicamente rilevante del “popolo intiero”, cioè di tutti i singoli cittadini sulle determinazioni di volontà dell’Impero” (Il diritto pubblico del l’Impero germanico, libro I, capitolo V, § 32, trad. it., Biblioteca di Scienze Politiche ed Amministrative, serie 3a, vol. VI, parte 1a, Unione Tipografico-Editrice Torinese, Torino 1914, pp. 400-401).
(43) D. Azambuja, op. cit., ibidem.
(44) In questo modo si è passati — applicando la tipologia di Max Weber — dalla rappresentanza fondata su una legittimità razionale o legale — Costituzione di Weimar — alla rappresentanza legittimata carismaticamente — Führerprinzip.
(45) È interessante ricordare che, nel gennaio del 1859, José Martiniano de Alencar pubblicava sul Jornal do Commercio alcuni articoli favorevoli alla rappresentanza delle minoranze, che, prima di Th. Hare, ebbe in Victor Considérant, in Svizzera, uno dei suoi più rilevanti sostenitori, che la propose, nell’anno 1842, al Consiglio di Ginevra. Nel 1868 veniva data alle stampe l’opera di J. M. de Alencar, O Systema Representativo (B. L. Garnier, Rio de Janeiro).
(46) Ferdinand Aloys Hermens, Europe between Democracy and Anarchy, University of Notre Dame, Indiana 1951, p. XVI.
(47) Cit. da Gerhard Leibholz nel suo studio sul contenuto della democrazia dei partiti e sulle diverse forme in cui si manifesta (Conceptos fundamentales de la política y de la teoría de la constitución, Instituto de Estudios Políticos, Madrid 1964, p. 143). A sua volta Johann Kaspar Bluntschli, dopo aver detto che la rappresentanza, per essere completa, deve comprendere tutte le classi, aggiunge che, se il suffragio universale sembra aritmeticamente perfetto, non lo è organicamente, e afferma: “Il voto uguale di tutti è il regno della moltitudine ignorante e grossolana sulle minoranze colte” (Le droit public général, trad. francese, 2a ed., Librairie Guillaumin et C.ie, Parigi 1881, pp. 42-43).