José Pedro Galvão de Sousa, Cristianità n. 209-210 (1992)
Nel “[…] clima di “crisi” che attualmente investe […] le istituzioni pubbliche […] sulle quali la convivenza umana si fonda” (Giovanni Paolo II, Discorso ai partecipanti alla prima sessione della Conferenza permanente del Ministero dell’Interno della Repubblica Italiana su La cultura della legalità, dell’8-7-1991, n. 1, in L’Osservatore Romano, 8/9-7-1991), il terzo capitolo dell’opera Da representação política, Saraiva, San Paolo 1972, pp. 55-76. La traduzione è redazionale.
La rappresentanza politica nello Stato dei partiti e nella società di massa
[“Sulla rappresentanza politica” IV]
1. La nascita dei partiti politici e la loro regolamentazione legale
Da quanto esposto precedentemente risulta che il sistema rappresentativo moderno ha avuto come base la concezione del popolo nell’unità del suo insieme, con il carattere esclusivo della sovranità una e indivisibile, e a detrimento della pluralità sociale. In Jean-Jacques Rousseau si trovano espressioni decisamente a sostegno di questo pensiero, quando preconizza un’organizzazione politica senza “società parziali”, e in Emmanuel-Joseph Sieyès, quando denuncia l’interesse del gruppo come il maggior ostacolo al buon ordine sociale, che — a suo modo di vedere — pretende la proibizione che gli individui si riuniscano in corporazioni (1). La legge Le Chapellier, del 1791, colpendo a morte il regime corporativo, allora in decadenza, non fa altro che mettere in pratica tali direttive dottrinali.
I seguaci di tale concezione temevano lo stesso pericolo visto nei gruppi nelle divergenze fra fazioni o partiti, causate da opinioni antagonistiche. Da ciò un atteggiamento ostile ai partiti politici, che potevano spezzare l’auspicata e ideale unità del popolo, che doveva essere riflessa nella rappresentanza. Perciò — osserva Gerhard Leibholz — si cercò di evitare l’introduzione, nel Parlamento, “di una distribuzione di cariche e di seggi, fondata non sull’età oppure sull’esito di un sorteggio, ma sul fatto dell’ascrizione a un partito o a una fazione politica” (2).
Ma iniziarono subito a fare la loro comparsa i partiti, che vennero a costituire forze politiche rilevanti, attorno alle quali si raccoglievano le diverse correnti dell’opinione pubblica, sia che fossero più o meno spontanee, sia che fossero dirette dalla propaganda, veicolo delle ideologie ed elemento sempre più preponderante nella vita politica dei popoli (3). Questo si svolse completamente a margine rispetto al diritto costituzionale, dal momento che questo ignorava i raggruppamenti partitici, che giunsero a meritare di essere regolamentati dal legislatore soltanto in una fase posteriore. Questo accadde dopo la prima guerra mondiale, mentre la preoccupazione d’inquadrare i partiti nell’ordinamento costituzionale fu rafforzata dopo la seconda guerra mondiale e di fronte alla minaccia del partito unico. Da questo la proclamazione della pluralità partitica, consacrata in Brasile nella Costituzione del 1946.
In questo modo si è giunti allo Stato dei partiti, nel quale l’ampiezza del mandato rappresentativo e la libertà dei rappresentanti subiscono restrizioni, grazie alla subordinazione di ogni deputato al programma del rispettivo partito. In questo modo si reintroduce surrettiziamente il mandato imperativo, e la rappresentanza assume un certo carattere plebiscitario, accentuato nel caso del partito unico, tipo ideale di organizzazione partitica per la democrazia di massa.
Inoltre, il partito unico è lo sbocco naturale del regime dei partiti, come ha colto con molto acume Simone Weil (4). Infatti, ogni partito si considera padrone della verità politica e vede nel suo programma la salvezza sociale. Le tinte ideologiche di questi programmi mettono in risalto negli stessi una colorazione messianica, soprattutto quando si tratta di ideologie radicali. In questi casi, gli antagonismi partitici rappresentano l’opposizione amico-nemico — criterio fondamentale di Carl Schmitt per la caratterizzazione del “politico” (5) — non solo perché si vede nell’avversario un nemico del proprio partito, ma perché si passa a consideralo un nemico della comunità nazionale, che deve essere proscritto perché venga garantito il destino storico della comunità. Il partito tende a essere intollerante, e nelle democrazie dei partiti vi è come un’istituzionalizzazione della guerra civile. Per non parlare dei partiti quando sono semplici combinazioni di interessi personali dei politici, nella lotta per la conquista del potere.
Ma, in questa sede, bisogna soprattutto sottolineare la trasformazione del mandato rappresentativo attraverso l’influenza crescente dei partiti politici. Un esempio assolutamente significativo è costituito dalla preoccupazione per la fedeltà partitica, che giunge fino all’idea della perdita del mandato da parte del deputato che abbia rotto la disciplina dovuta al raggruppamento per cui è stato eletto. Così, il deputato smette di essere il rappresentante di tutta la Nazione — secondo la concezione del governo rappresentativo moderno nella sua formulazione iniziale — e diventa un rappresentante del partito che lo ha fatto eleggere. Il popolo come unità politica ideale fa posto al partito, unità di azione politica.
Linguaggio ben diverso da quello di Emmanuel-Joseph Sieyès nella prima Assemblea Nazionale Costituente è quello del deputato André Philip, nella Costituente del 1945: “Giungiamo a un punto in cui il partito diventa organo del suffragio universale, un intermediario fra il legislatore e il popolo”. Georges Ripert, nel primo capitolo di Le Déclin du Droit, trascive queste parole dicendo: “Nell’Assemblea nazionale i deputati sono rappresentanti del loro partito”. E cita anche un articolo di André Hauriou dal titolo suggestivo: Vers la dictature des partis.
2. Caratterizzazione dello Stato dei partiti
Secondo Gerhard Leibholz, i partiti diventano il “microfono” di cui si serve il popolo per articolare i suoi pronunciamenti. Così accade nella democrazia rappresentativa dei partiti, strutturalmente diversa dalla democrazia parlamentare di tipo rappresentativo-liberale. Questa, nel secolo scorso, segnò il predominio della borghesia come classe sociale e assunse un tratto sostanzialmente individualista. La prima si formò quando le masse irruppero sullo scenario politico, mentre guadagnava terreno il socialismo. Lo Stato dei partiti costituisce la transizione dalla democrazia liberale alla democrazia di massa.
L’illustre professore dell’Università di Gottinga e ministro della Corte Costituzionale di Karlsruhe colpisce un punto nevralgico nella caratterizzazione di questa struttura politica quando scrive: “La differenza teorico-costituzionale fondamentale fra il moderno Stato democratico dei partiti e la tradizionale democrazia rappresentativa parlamentare sta chiaramente nel fatto che il moderno Stato dei partiti, nella sua essenza e forma, è solamente un aspetto razionalizzato della democrazia plebiscitaria” (6).
Ne segue che, in questo regime, la volontà del popolo è formata dai partiti. Nella democrazia plebiscitaria, la volontà della maggioranza dei cittadini attivi, e la volontà della maggioranza partitica al governo e in parlamento si identificano con la volontà della totalità.
Lo Stato dei partiti ha portato con sé modifiche nella funzione del parlamento, nella posizione dei deputati e perfino anche nel carattere delle elezioni.
Vediamo rapidamente dove vi è innovazione introdotta in ciascuno di questi aspetti della rappresentanza politica.
1. Il parlamento cessa di essere fonte di decisioni autonome, e si trasforma in un luogo in cui i mandatari dei partiti registrano decisioni prese altrove, per esempio in commissioni o in riunioni dei partiti. In questo modo, i discorsi dei deputati smettono di avere il fine di convincere i deputati di diversa opinione e mirano piuttosto a strappare l’appoggio dei cittadini attivi, influenzandoli nelle loro future decisioni politiche.
2. Il deputato non decida da sé. È soggetto alla volontà del partito, cioè al programma e alle sue direttive pratiche. Gli impegni di partito influiscono in modo decisivo sui discorsi e nelle votazioni. Si torna al mandato imperativo, al punto che il deputato può essere chiamato a rispondere al partito nel caso devii dalla linea che gli è tracciata. Il partito lo può espellere, e l’ultima conseguenza di uno Stato in regime dei partiti logicamente pianificato è la perdita del mandato grazie a questa espulsione oppure del cambiamento di partito. Il recall, la revoca, incompatibile con il sistema fondato sul “mandato rappresentativo”, è “intimamente legato al moderno Stato dei partiti nella democrazia di massa”.
3. Finalmente, le elezioni tendono a diventare un atto di natura plebiscitaria, attraverso il quale gli elettori, votando un determinato candidato, optano per un programma partitico. Così, in Inghilterra è stato qualificato come incostituzionale l’operare del governo e della maggioranza parlamentare se prendono decisioni incompatibili con il mandato ricevuto. In Germania, in occasione delle discussioni sul Wehrbeitrag, il “contributo militare”, e anche del Deutschlandvertrag, il “patto tedesco”, l’opposizione fece presente che l’elettorato doveva venire consultato di nuovo, perché il Deutsche Bundestag, nella sua composizione del momento, non possedeva più la debita legittamazione a decidere su tali questioni (7).
3. Corpi intermedi, partiti politici e gruppi di pressione
Invero, la problematica dei partiti politici si pone molto prima della formazione dello Stato rappresentativo liberale. Sono divenute celebri le contese fra i seguaci delle Due Rose in Inghilterra, dopo la Guerra dei Cento Anni, e poi fra Tories e Whigs, che daranno origine rispettivamente al Partito Conservatore e al Partito Liberale. Nelle città italiane la lotta delle fazioni si accentuava all’epoca di Machiavelli, e non si deve dimenticare la prolungata rivalità di Guelfi e di Ghibellini, immortalata dal genio di Dante.
Ma il partito di ispirazione ideologica, con grande forza di espansione proselitistica — rafforzata dalle moderne tecniche di propaganda —, è un fenomeno della vita politica dei popoli occidentali nei secoli XIX e XX. Si tratta di un fenomeno che ha avuto una certa autenticità nell’Europa delle lotte fra il liberalismo e il socialismo nascente, dopo il critico anno 1848, e che nei paesi latinoamericani si è sfigurato in scontri di campanile e in dispute personalistiche di oligarchie avide di potere.
Nella democrazia individualista i partiti sono sorti per occupare il posto lasciato vuoto dai corpi intermedi, allontanati dalla vita pubblica. Bisogna notare fin da subito che in Inghilterra — il paese nel quale l’attività partitica aveva forse raggiunto più significato —, essi furono sempre uniti a gruppi e a classi sociali, rappresentando gli interessi di questi corpi, preservati, in questo paese, dal furore individualista che portò in Francia alla loro dissoluzione. Proprio perché il sistema rappresentativo inglese si modificava senza una rottura violenta con la tradizione — nonostante l’influenza ideologica venuta dalla Francia, che si fece sentire più tardi dalla parte opposta della Manica —, vediamo che i partiti britannici si costituiscono in collegamento stretto con le forze organiche e vive della comunità nazionale: il Partito Conservatore, legato ai proprietari di grandi estensioni di terre, il partito per eccellenza dell’aristocrazia; il Partito Liberale, che riunisce sotto la sua bandiera i componenti della classe media e della borghesia favorita dall’industrialismo; e finalmente il Partito Laburista, con l’elettorato della classe operaia e come portavoce delle associazioni sindacali, le Trade Unions. Il significato assolutamente particolare dei partiti in Inghilterra ci fa pensare a quanto osservò con puntualità Enrique Gil Robles: “Il carattere così organico della società inglese comunicò alle associazioni volontarie, anche a quelle politiche, un certo spirito di circospezione e di subordinazione, preservandole dalla nota individualista, aggressiva e utopistica delle società che sul continente si mostrarono, fin da subito, così perturbatrici, idealiste e anarchiche” (8).
L’aggressività nel comportamento politico e l’utopia dei programmi — o, almeno, il disaccordo fra i programmi e l’opera dei gruppi partitici — è stato in realtà un tratto caratteristico dell’esperienza del regime dei partiti. Robert Michels, nella sua opera profondamente illuminante sull’argomento, mostra che questa nota utopica pone su un piano puramente ideale il regime democratico che hanno di mira i partiti e che viene ostacolato, nella sua realizzazione, da potenti forze operanti nell’ambiente sociale. Quanti auspicano un miglioramento del processo democratico attraverso il funzionamento perfetto del regime dei partiti, vogliono un’“aristocrazia democratica” oppure una “democrazia aristocratica”. Ma in realtà stiamo vedendo ovunque la tendenza alla formazione delle oligarchie, oppure delle “aristocrazie dei milionari”. I partiti democratici e socialrivoluzionari finiscono per permettere lo sviluppo anche al proprio interno delle tendenze oligarchiche che si propongono di combattere (9).
Quindi non meraviglia che i partiti diventino talora corpi estranei, strumenti di gruppi parassitari oppure di capi politici seguiti dalla loro clientela, da cui il fenomeno del caciquismo nei pesi latinoamericani; come pure strumenti nelle mani di demagoghi che pretendono di essere capi carismatici, e che sorgono come espressioni di un regime di transizione dallo Stato dei partiti alla democrazia di massa, dal pluripartitismo al partito unico.
Né meraviglia che l’organismo sociale, per autodifesa e istintivamente, cerchi di eliminare questi corpi estranei. E in questo modo, come i partiti sono venuti a occupare il posto dei corpi intermedi, così stiamo vedendo oggi i gruppi di pressione che sloggiano i partiti (10).
4. Società di massa e rappresentanza
Democrazia di massa e partito unico sono due idee connesse. E per ben comprenderlo bisogna prendere in considerazione attentamente che cos’è una società di massa, cercando nello stesso tempo di capire qual è il modo di rappresentanza corrispondente.
Non si deve attribuire a questo concetto un carattere puramente quantitativo, né pensare che le masse contemporanee siano state una conseguenza fatale e inevitabile della tecnica moderna, soprattutto dei grandi agglomerati urbani prodotti dal fenomeno dell’industrializzazione. Questi elementi estrinseci hanno certamente contribuito alla comparsa della società di massa nella nostra epoca, ma la sua natura intima, quanto la costituisce intrinsecamente ed essenzialmente, non è la semplice moltitudine, ossia il numero. Fa molto di più la società di massa, caratterizzandola nella sua sostanza, l’omogeneità totale, la mancanza di struttura, la riduzione della società politica a un’orda indifferenziata e nella quale gli individui non vivono in strutture organiche, ma sono come sovrapposti meccanicamente (11).
In altri termini, la massa è l’“assemblage des individus” di cui parla Emmanuel-Joseph Sieyès (12), cioè degli individui isolati, sciolti dai legami sociali, non più inseriti in una comunità costituita da gruppi naturali e storici. Si tratta della polvere degli individui di fronte al potere dello Stato unico che sorge a manipolare la “massa” e a imprimere a essa una direzione. Nella concezione dello Stato rappresentativo degli uomini del 1789, ognuno di questi individui è il Cittadino, che, quando deve scegliere i suoi rappresentanti, deve aver presente l’interesse comune, su un piano astratto, e senza preoccuparsi degli interessi concreti dei gruppi da cui dipende la sua esistenza reale. Ricordiamo il passo precedentemente citato da Qu’est-ce que le Tiers état? sull’autentico oggetto di un’Assemblea Nazionale. Questa non è fatta “per occuparsi degli affari particolari dei cittadini, li prende in considerazione solamente in massa [sic] e dal punto di vista dell’interesse comune”. Ne deriva che “il diritto a farsi rappresentare appartiene ai cittadini solamente in virtù delle qualità che sono loro comuni e non di quelle che li differenziano”.
Il citoyen della Rivoluzione francese è l’uomo-massa che fa la sua comparsa nella politica moderna.
Opponendosi alle differenze gerarchiche e alle società particolari, la concezione individualista della democrazia rappresentativa ha preparato l’ugualitarismo collettivista del socialismo, i cui presupposti sono gli stessi. Individualismo e collettivismo considerano la società politica una somma di individui isolati. Qui si trova precisamente il concetto di massa, al posto di popolo organizzato, che è un insieme differenziato di famiglie e di altri gruppi, nel quale si manifesta la pluralità di ordinamenti giuridici e non l’“assemblage des individus”.
Il tratto caratteristico essenziale della massa è la mancanza di struttura, come osserva molto puntualmente Emil Brunner, mostrando come da essa deriva la concezione individualista e livellatrice. La causa prima più profonda della massificazione — dice questo autore — è lo sradicamento religioso, ma la sua causa immediata è il dogma dell’uguaglianza, frutto, a sua volta, dell’“apolidia spirituale” inerente alla mancanza di struttura. “L’apolidia religiosa strappa l’uomo dalla struttura metafisica della sua esistenza: l’uomo cessa di essere radicato in un ordine eterno. Il dogma dell’uguaglianza di tutti strappa l’uomo dalla sua struttura sociale, distrugge la struttura organica” (13).
In una società livellata a questo modo dal rasoio individualista non vi è posto né per i corpi intermedi, né per i partiti politici. Questi si sono costituiti, come abbiamo visto, al posto di quelli, come espressioni di parti divergenti dell’opinione pubblica. Ebbero maggior senso in paesi più preservati dalla devastazione individualista, e dove i gruppi organici davano ai partiti l’assenso di una rappresentanza reale, come nel caso dell’Inghilterra.
Poiché la massa è un tutto amorfo, indifferenziato e senza struttura, non possono trovar posto in essa né gruppi di natura diversa, né partiti di sfumature varie. Da questo il partito unico.
5. Il partito unico
Per quanto possa sembrare paradossale, lo Stato monopartitico realizza pienamente l’ideale di democrazia rappresentativa che si è preteso realizzare nella Francia del 1789. Si tratta dello Stato senza società parziali e con la rappresentanza del popolo costituente un’unità politica. I partiti non distruggono questa unità, poiché essa è garantita dall’esistenza di un solo partito, con l’identificazione della società e dello Stato. I gruppi non la frammentano, li sostituisce tutti, assorbe tutte le istituzioni e istituisce un ordine giuridico senza lasciar margine di sorta alla pluralità degli ordinamenti emanati dalle autorità sociali.
La società di massa — la cui espressione politica è logicamente lo Stato totalitario a partito unico — si è venuta preparando negli anni dell’esperienza rappresentativa democratico-liberale. Condizionata da elementi estrinseci — specialmente dalle trasformazioni apportate dalla grande industria —, derivò soprattutto dalla spersonalizzazione dell’uomo, in un lungo processo di disgregazione spirituale, che parte dal Rinascimento. Una certa “aristocrazia nella democrazia”, secondo l’espressione di Robert Michels, poteva ancora arrestare l’avanzata delle masse, toccata, per altro, dalla bacchetta magica dei capi populisti (14). Ma l’estensione del suffragio universale a base individualista e ugualitaria — one man, one vote — toglieva la rappresentanza politica dalle mani delle minoranze selezionate, per affidarla agli avventurieri e agli arrivisti capaci di captare l’appoggio delle masse.
Questo spiega la differenza fra i primi parlamenti del secolo XIX — così come quelli dei primordi del secolo XX — e quelli degli ultimi decenni. In proposito Gerhard Leibholz scrive: “In definitiva, il processo di radicale democratizzazione e di livellamento ha trasformato, nella democrazia liberale, anche i principî della formazione delle élites e della elezione del capo. Il XIX secolo si fonda su uno strato sociale, per quel tempo proporzionatamente largo, per le odierne masse invece numericamente limitato, il cui pensiero si attuava individualisticamente e nel medesimo tempo, secondo la tradizione, ammetteva considerazioni razionali. La personalità politica del XIX secolo era la libera personalità rappresentativa, la quale insieme era portatrice di un alto valore ideale e rappresentava una parte della aristocrazia intellettuale della nazione. Gli uomini del “covenant” americano, come, per esempio, Washington e i suoi collaboratori, così come gli uomini della Assemblea nazionale di Francoforte del 1849, erano in questo senso aristocratici del carattere e delle spirito. Cultura e patrimonio per questo strato, che era socialmente omogeneo, appartengono alla stessa categoria. E questa sociale omogeneità non fu posta in dubbio per il fatto che questo strato stesso era diviso in gruppi rivali e combatteva nella vita politica come “sinistra” e “destra”, come “tories” e “whigs”, come “conservatori” e “liberali”, come “democratici” e “repubblicani”” (15).
All’epoca di François-Pierre-Guillaume Guizot e di Benjamin Constant, il liberalismo dottrinale faceva della “sovranità dell’intelligenza” la grande motivazione del proprio tentativo di conciliare le nuove idee democratiche con i princìpi della tradizione monarchica (16).
Nella democrazia di massa la cultura, il patrimonio, la capacità e il valore intellettuale cedono a un nuovo criterio, fondato su rapporti biologici e sociologici — la razza oppure la classe —, in funzione dei quali si esige, per l’esercizio della funzione di guida, una perfetta ortodossia politica, di cui è giudice la direzione del partito.
6. Lo Stato totalitario
Il monismo individualista ha preparato il monismo totalitario, grazia alla concezione della società politica ridotta a una semplice somma di individui e alla soppressione dei corpi intermedi (17).
Ne è derivata una centralizzazione smisurata.
Si badi bene che la Rivoluzione francese ha distrutto le istituzioni tradizionali del paese, facendo tabula rasa del diritto storico, ma ha risparmiato l’amministrazione centrale dello Stato, rafforzandola ancora di più e facendo di essa, con Napoleone, la grande forza del regime (18). Gli storici che hanno studiato più attentamente il passaggio dall’Ancien Régime all’ordine nuovo instaurato dalla Rivoluzione — soprattutto Alexis de Tocqueville e Hippolyte Taine (19) — hanno mostrato, in questo senso, come la Rivoluzione fosse già contenuta, in germe, nella monarchia assoluta, il cui processo di centralizzazione si è accentuato dopo il 1789 e ha continuato a crescere con Napoleone. Bertrand de Jouvenel vede nella centralizzazione progressiva la dinamica incoercibile dello Stato moderno.
Dopo ogni guerra, dopo ogni rivoluzione, dopo ogni colpo di Stato o tentativo di sovvertimento dell’ordine, il potere dello Stato esce rafforzato e padrone di maggiori attribuzioni. Tante volte passano le situazioni eccezionali, ma restano i poteri straordinari, che lo Stato ha attribuito a sé stesso per affrontarli: è la tesi sostenuta dall’autore di Du Pouvoir. Histoire Naturelle de sa Croissance.
È successo nel caso della Rivoluzione francese e di tutti i movimenti che, negli altri paesi, hanno sovvertito l’ordine politico per applicare i princìpi del 1789. Indubbiamente questi venivano caricati con una forte colorazione giusnaturalistica, con l’affermazione della libertà del Cittadino di fronte allo Stato. Ma scomparvero le libertà concrete degli uomini, nelle corporazioni, nei comuni, nelle regioni. Le prime furono sacrificate alla completa libertà di produzione, di commercio, di concorrenza, e le autonomie regionali e municipali furono assorbite dall’amministrazione centralizzata. Di fronte alla libertà economica individuale, fu più facile allo Stato imporre i suoi regolamenti e la disciplina legislativa. Essa finì per dipendere esclusivamente dal suo potere elevato a creatore del diritto, potere che non trovava più davanti a sé le barriere dei privilegi regionali oppure delle attribuzioni normative prima riconosciute agli organismi corporativi. La mancanza di resistenza sociale favorì la crescita delle attribuzioni del potere politico. Solo le forze economiche, costituite a margine dei gruppi intermedi, attraverso la concentrazione capitalistica, potevano controllare la macchina statale, come di fatto tentavano di fare, servendosi di un apparato così formidabile per conseguire il dominio del mercato.
In questo modo il potere divenne un elemento aggressivo della società. Il potere politico e il potere economico. Allora l’autorità dello Stato, la cui ragion d’essere è garantire l’ordine sociale, si perverte in un fattore distruttivo di questo ordine (20). È quanto ci mostra la transizione operata, nel nostro tempo, dal liberalismo individualista al totalitarismo collettivista. La lenta distruzione delle autorità sociali e il trasferimento di ogni potere allo Stato — poi ai soviet, secondo lo slogan della rivoluzione del 1917 in Russia —, rese possibile allo Stato impadronirsi della direzione della vita sociale nei suoi diversi aspetti. Questa statalizzazione della vita è il tratto per eccellenza che definisce i regimi dello Stato totalitario (21).
A quale risultato finale ha portato questa aggressione della società da parte dello Stato? A che cosa ha portato questo attacco del potere politico — spesso controllato dal superpotere economico — contro i poteri liberamente costituiti nella società? Bertrand de Jouvenel risponde: “È la distruzione di qualsiasi comando a profitto del solo comando statale. È la piena libertà di ciascuno da qualsiasi autorità familiare e sociale pagata con una completa soggezione allo Stato. È la perfetta eguaglianza di tutti i cittadini a prezzo del loro eguale annientamento, di fronte alla potenza statale, loro signora assoluta. È la scomparsa di qualsiasi forza extra-statale, la negazione di qualunque autorità che non sia consacrata dallo Stato. È, in breve, l’atomizzazione sociale, la rottura di tutti i legami particolari tra gli uomini, i quali non sono più tenuti insieme che dal loro comune asservimento allo Stato. È in pari tempo, e per effetto d’una convergenza fatale, il termine ultimo sia dell’individualismo che del socialismo” (22).
7. Centralizzazione e decentramento
Centralizzazione e decentramento, lungi dall’essere idee antagonistiche, non si escludono reciprocamente, ma piuttosto si completano. La decentralizzazione deriva da un principio di giustizia. Consiste nel fatto che ciascuno tratti di quanto è suo, sia esso l’individuo, il gruppo familiare, il gruppo professionale, il municipio o la provincia. Sul piano dell’interesse nazionale, lo Stato deve operare una legittima centralizzazione, i cui limiti derivano dal decentramento sociale (23).
Marcel de la Bigne de Villenueve insegna che bisogna “passare non solo senza contraddizione, ma anzi con un movimento dolce e naturale, dal Decentramento amministrativo e sociale alla Centralizzazione politica, e dalle piccole sovranità e autonomie particolari alla Sovranità generale dello Stato, distribuendo le competenze e le libertà secondo le molteplici combinazioni imposte dalle esigenze e dalle aspirazioni istintive della vita” (24).
Quindi il male non consiste nella centralizzazione, ma nella centralizzazione esclusiva e assorbente. Di per sé la centralizzazione non è totalitaria, ma assume questo carattere quando esclude il decentramento nel senso più ampio, cioè il decentramento sociale. Nessuno contesterà allo Stato il diritto di esercitare, in modo esclusivo, diritti concernenti la difesa nazionale, la diplomazia, la polizia, la direzione generale delle finanze. Ma molte altre attività spettano allo Stato solamente in modo, perché deve essere rispettata l’iniziativa privata e riconosciuta la capacità disciplinare e normativa delle comunità autonome.
Il decentramento amministrativo non basta per evitare il totalitarismo, perché può verificarsi in uno Stato che monopolizza tutta l’amministrazione pubblica, in questo modo cominciando a reggere tutte le attività sociali. Quanto al decentramento politico, si tratta di un espediente peculiare di certe forme di organizzazione dello Stato, e non rappresenta sempre una garanzia contro il totalitarismo. Così, il regime federativo comporta un decentramento politico — dall’Unione agli Stati —, ma uno Stato può essere totalitario pur adottando un modello federale, come nel caso dell’Unione Sovietica. Quindi, tutto sta nel decentramento sociale, suscettibile di coesistere con un regime di grande centralizzazione politica.
Inoltre, il termine “decentramento” si può prestare a equivoci. È un errore vedere nel decentramento soltanto la concessione o l’approvazione di diritti fatta dallo Stato a collettività non statali; nel caso si tratterebbe di un favore, di un regalo, di un dono generoso. Il decentramento sociale deriva dal riconoscimento, da parte dello Stato, di diritti naturali appartenenti a tali collettività in virtù dei loro fini e dell’autonomia che a esse compete. E spesso il termine “decentramento” — da “togliere dal centro” — deve essere applicato a significare la restituzione a questi stessi gruppi di funzioni usurpate dallo Stato.
8. Testimonianze significative
L’eccessiva centralizzazione dello Stato moderno — al cui proposito Bertrand de Jouvenel, in pagine che colpiscono, ci ha trasmesso le sue riflessioni — è stata una conseguenza della distruzione delle libertà private a vantaggio di una Libertà generale e astratta, poi combattuta in nome dell’Uguaglianza, a sua volta generatrice di uniformizzazione e di centralizzazione. Lo nota Louis Daujarques, che cita le parole di Pierre-Paul Royer-Collard davanti alla Camera dei Deputati, nel gennaio del 1822: “La Rivoluzione ha lasciato in piedi solo gli individui, e questa società polverizzata ha prodotto la centralizzazione, perché dove vi sono solamente individui tutti gli affari che non sono loro sono affari pubblici, affari dello Stato. Così siamo diventati un popolo di amministrati” (25).
È ben noto il passo di Alexis de Tocqueville che fa riferimento a “un potere centrale immenso che attira e assorbe nella sua unità tutte le particelle di autorità e di prestigio disperse prima fra innumerevoli poteri secondari, ordini, classi, professioni, famiglie e individui, e quasi sparpagliati in tutto l’organismo sociale. Dalla caduta dell’Impero romano, non si era visto nel mondo un potere simile. La rivoluzione ha creato questo potere nuovo, o piuttosto esso è sorto, quasi spontaneamente, dalle rovine da essa prodotte. I governi che ha istituiti sono più fragili, è vero, ma cento volte più potenti di quelli che ha rovesciati; fragili e potenti per una stessa causa” (26).
A questa centralizzazione ha contribuito il monismo giuridico con la concezione della sovranità e dell’ordine giuridico ridotto alla legalità statale (27).
Perciò Georges Ripert scrive: “La Rivoluzione ha fondato il potere legislativo sul suo assolutismo. La legge rivoluzionaria, dice Maxime Leroy, è un “imperativo regale”. Il potere del re fu trasferito alla nazione; mantenne il suo carattere di sovranità. Ma si fece credere fosse scomparso il pericolo dell’assolutismo, perché la legge, espressione della volontà generale, avrebbe potuto essere soltanto giusta e ragionevole.
“Questo preteso trasferimento della sovranità nasconde una creazione. Il re di Francia non ebbe mai un potere legislativo paragonabile a quello di un parlamento moderno. Si può prescindere dal ricordare per quali ragioni storiche era obbligato a dividere la sovranità con altri. Basta verificare che non osava mettere mano nel diritto civile” (28).
Che cosa dire dello Stato centralizzatore attualmente di fronte alla società di massa?
In proposito, alle testimonianza altamente significative prima trascritte, è sufficiente aggiungere la dichiarazione di un illustre giurista dei nostri giorni, che ha studiato l’argomento in modo particolare, dandoci, come frutto dalle sue ricerche e riflessioni, un’opera fondamentale.
Il diritto di massa — pensa Juan Vallet de Goytisolo — è radicalmente nuovo. Nasce da una rottura con l’ordine naturale e da una costruzione artificiale. Non può derivare dai costumi di un popolo, né dalle fonti di diritto esistenti nell’ambiente sociale. Dato il carattere amorfo della massa, la sua mancanza di responsabilità e di iniziativa, può essere solamente un diritto legislativo, emanato dal potere pubblico, che dirige la massa e pianifica la vita degli uomini.
Lo Stato non conferma il diritto della società, ma impone alla società uno pseudo-ordine arbitrario. “Il nostro diritto tradizionale partiva dalla conoscenza e dall’uso di una natura, che poteva essere utilizzata, ordinata, migliorata, ma alla quale non ci potevamo sottrarre e dalla quale, quindi, non era possibile prescindere. La formula classica ars addita naturae esprime con chiarezza questa posizione. Al contrario, l’attuale diritto di massa — diretto a moltitudini sradicate dalla natura e senza tradizione — non soltanto è solito dimenticare la natura, ma in generale pretende di modificarla completamente, radicalmente, per adattare tutto al suo preteso ordine artificiale” (29).
9. La rappresentanza politica di fronte alla centralizzazione e al decentramento
Lo schema iniziale da cui siamo partiti — società politica ridotta a semplice riunione di individui, “assemblage” nel linguaggio di Emmanuel-Joseph Sieyès — costituisce il presupposto della società di massa e dello Stato totalitario. Quanto maggiore è questa “polverizzazione” o “massificazione”, e quanto più cresce il processo centralizzatore, tanto meno è possibile parlare di rappresentanza.
In tale schema, gli interessi reali non possono essere rappresentati, perché si trovano nella famiglia in cui ciascuno vive, nella professione che esercita, nella comunità locale in cui abita, e tutte queste espressioni della vita sociale scompaiono, dal punto di vista rappresentativo, mentre restano solamente gli individui che, nel loro insieme, costituiscono il Popolo sovrano. Ma questo Popolo è il “popolo di amministrati” di cui ci parlava Pierre-Paul Royer-Collard, e gli individui sono sempre più assorbiti negli ingranaggi statali. Quando manifestano la loro volontà e scelgono i propri rappresentanti, sono diretti dalla macchina della propaganda, e così la rappresentanza, invece di essere la comunicazione della società con il potere, diventa la manipolazione della società da parte del potere, cioè, da parte dello Stato o dei detentori dei mezzi per fabbricare l’opinione pubblica.
Quali sono?
Risponda per noi Marcel De Corte: “Nelle democrazie dette liberali il potere è effettivamente esercitato da una pluralità di gruppi di pressione; nelle democrazie totalitarie o in marcia verso il totalitarismo, è detenuto dai membri del Partito, da un governo collegiale che conosce la legge molto semplice di funzionamento di questo tipo artificiale e non misterioso di “società”, oppure anche da una gang di tecnocrati comandata da un capo la cui autorità trova come unico ostacolo il peso e la complessità della macchina statale che gli tocca mettere in moto” (30).
Da questo la decadenza delle istituzioni rappresentative. Spesso queste sopravvivono in un modo puramente decorativo. Nella società di massa non vi è governo rappresentativo, né rappresentanza della società davanti al governo. Una rappresentanza autentica è possibile solamente dove il popolo organizzato resista al rullo compressore della massificazione.
Quindi possiamo concludere che:
1. La centralizzazione operata nello Stato dei partiti ha preparato il totalitarismo dello Stato monopartitico.
2. La democrazia rappresentativa a base individualistica non è propizia all’autentico decentramento sociale.
3. Il decentramento sociale può essere meglio assicurato dalla presenza attiva dei corpi sociali presso il potere politico, che proteggono e fanno valere i propri interessi e le proprie immunità.
Finalmente, una parola sullo Stato corporativo nella versione fascista. Esso nega il decentramento sociale, e perciò in esso non vi può essere rappresentanza dei gruppi o dei corpi sociali autonomi, perché le corporazioni diventano organi dello Stato. In questo caso, l’organizzazione corporativa viene dall’alto al basso, imposta e diretta dallo Stato, mentre la genuina rappresentanza si fa dalla società verso il potere. Quindi non vanno confuse una società in cui vi sono corpi intermedi debitamente valorizzati e il corporativismo statale, contraffazione grossolana, che annienta le libertà dei gruppi. In questa ipotesi, lo Stato corporativo sorge per organizzare una società di massa, nella quale la pseudo-rappresentanza politica è data dal partito unico (31).
José Pedro Galvão de Sousa
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(1) Cfr. J.-J. Rousseau, Du Contrat Social, libro II, cap. 3; e E.-J. Sieyès, Qu’est-ce que le Tiers état?, cap. VI.
(2) Gerhard Leibholz, Conceptos fundamentales de la política e de la teoría de la constitución, cit., pp. 150-151.
(3) Cfr. due libri fondamentali sull’argomento: Bernard Fay, Naissance d’un Monstre: l’Opinion Publique, Librairie Académique Perrin, Parigi 1965; e Jacques Driencourt, La propagande nouvelle force politique, Armand Collin, Parigi 1950.
(4) “La luttes des partis, telle qu’elle existait dans la Troisième République, est intolérable; le parti unique, qui en est d’ailleurs inévitablement l’aboutissement, est le degré extrême du mal” (Simone Weil, L’Enracinement, Gallimard, Parigi 1949, p. 41). Marcel Waline spiega: “L’espressione “Stato dei partiti” è la traduzione letterale della parola tedesca Parteienstaat, perché questo regime fu realizzato nel modo più completo in Germania, al tempo della Repubblica di Weimar, poi sotto il Terzo Reich, nel quale trovò la sua conclusione logica, diventando lo Stato di un solo partito, che prendeva il nome di partito di Stato (Staatpartei)” (Les Partis contre la République, Rousseau et Cie., Parigi 1948, p. 59). Viene a proposito un’osservazione di Norman L. Stamps: “Gli attuali partiti totalitari sono cresciuti all’interno del sistema democratico dei partiti e hanno semplicemente accentuato caratteristiche che, molto prima di andare al potere, si trovavano già nel regime dei partiti” (Why Democracies Fail. A Critical Evaluation of the Causes for Modern Dictatorship, University of Notre Dame Press, Notre Dame 1957, p. 65).
(5) Sul rapporto “amico-nemico” nella teoria di Carl Schmitt sulla “categoria del “politico””, cfr. Julien Freund, L’essence du politique, Éditions Sirey, Parigi 1965, 2a parte, cap. VII, pp. 442-537.
(6) Cfr. G. Leibholz, Demokratisches Denken als Gestaltendes Prinzip im Europäischen Volkerleben [Il pensiero democratico come principio formale nella vita dei popoli europei], in Europa-Erbe und Aufgabe [Eredità e compito dell’Europa] (Congresso Internazionale di Mainz, 1955), Franz Steiner Verlag, Wiesbaden 1956, pp. 120-135.
(7) Cfr. ibid., p. 132 e tutto il n. III.
(8) Enrique Gil Robles, Tratado de Derecho Político según los principios de la filosofia y el derecho cristianos, 3a ed., Afrodisio Aguado, Madrid 1961, vol. II, p. 646, nota. Interessante e anche molto particolare il caso degli Stati Uniti, nella stessa linea democratica dell’Inghilterra, paesi ove il senso pratico ha prevalso sull’astrattismo ideologico. A propriamente parlare, i due grandi partiti statunitensi sono solamente due fazioni dello stesso partito, data la “mancanza di differenza ben definita” fra essi, cui allude Orlando M. Carvalho, richiamando le affermazioni, diventate classiche, di Alexis de Tocqueville (De la Démocratie en Amerique, 1830) e di Bryce (The American Commonwealth, 1888) (A crise dos Partidos Políticos Nacionais, Kriterion, Belo Horizonte 1950, pp. 35-36). Due fazioni dello stesso partito furono anche, in Brasile, i Partito Conservatore e Liberale dell’Impero, per cui si è potuto dire che niente era più simile a un liberale di un conservatore al potere, e viceversa.
(9) Cfr. Robert Michels, La sociologia del partito politico nella democrazia moderna, trad. it., nuova edizione, il Mulino, Bologna 1966, pp. 25-40.
(10) Ormai da molti anni la lobby, modalità dei gruppi di interesse o di pressione negli Stati Uniti, è diventata un’istituzione politica, come mostra E. Pendleton Herring, d’altronde oggi regolamentata per legge (voce lobby, in Enciclopeadia of Social Sciences). Quanto alla rappresentanza professionale, inserita nelle Camere politiche legislative, fu un’esperienza che, in Brasile e in altri paesi, non diede, né poteva dare, buoni risultati, perché non si tenne conto dell’attribuzione specifica che devono avere i cosiddetti “rappresentanti di classe”, cioè una funzione puramente rappresentativa e non legislativa. Si veda questa distinzione nel capitolo seguente.
(11) Cfr. Emil Brunner, Gerechtigkeit. Eine Lehre von den Grundgesetzen der Geselschaftordnung [Giustizia. Una dottrina dei fondamenti dell’ordine sociale], 3a ed., Teologischer Verlag, Zurigo 1981, p. 219: “L’essenza della massa non sta nel grande numero, in qualcosa di quantitativo, ma in qualcosa di qualitativo, cioè nella mancanza di struttura. Massa è l’amorfo, quanto non ha struttura; è il semplice affiancamento di particelle uguali”.
(12) Cfr. il cap. precedente, n. 9, in fine.
(13) Cfr. E. Brunner, op. cit., ibidem. Per provare la sua affermazione secondo cui la massa ha un carattere qualitativo e non quantitativo, l’autore cita alcuni esempi. Nelle vecchie città cinesi, di milioni di abitanti, non vi erano uomini massa, né nel formicaio di gente concentrata in una grande città medioevale. In senso contrario, in un piccolo villaggio si può fare l’esperienza del fenomeno della massificazione. Si confronti un piccolo abitato di contadini dell’Emmental e una zona suburbana degli Stati Uniti. L’autore conclude che “non decide il numero; decide soltanto e unicamente la struttura. Ebbene, la struttura esiste solamente grazie al disuguale. Poiché sono in gioco l’uguaglianza e la disuguaglianza, è in gioco anche la giustizia” (ibidem).
(14) Trattandosi dell’ascesa delle masse — oggetto del noto saggio di José Ortega y Gasset, La ribellione delle masse (in Idem, Scritti politici, trad. it., UTET, Torino 1979, pp. 777-982) — non si devono dimenticare le minoranze che manipolano le masse (cfr. George Uscatescu, La Rebelión de las Minorias, Editora Nacional, Madrid 1955).
(15) G. Leibholz, Il Secolo XIX e lo Stato totalitario del presente, in Rivista internazionale di filosofia del diritto, anno XVIII, gennaio-febbraio 1938, fascicolo I, pp. 4-5.
(16) Cfr. Luis Díaz del Corral, El Liberalismo Doctrinario, Instituto de Estudios Políticos, Madrid 1945.
(17) Vedi cap. II, n. 9.
(18) Nel Memoriale di Sant’Elena, l’imperatore deposto ed esiliato indica nelle prefetture il sostegno del potere da lui esercitato, che estendevano in tutta la Francia la rete centralizzatrice.
(19) Il primo in L’Antico Regime e la Rivoluzione; il secondo nei primi due volumi di Le Origini della Francia contemporanea.
(20) Cfr. Fritz von Hippel, Die Perversion von Rechtsordnungen [La degenerazione degli ordinamenti giuridici], J. C. B. Mohr, Tubinga 1955.
(21) Indicando nello statalismo onnipervadente l’“ingiustizia fondamentale dello Stato totalitario”, Emil Brunner scrive: “Vi sono state dittature in tutti i tempi; ma lo Stato totalitario esiste a partire dal 1917. La sua caratteristica è il controllo della vita intera di tutti i suoi sudditi, all’interno e all’estero, nel campo religioso, in quello culturale e in quello economico” (op. cit., p. 240-241).
(22) Bertrand de Jouvenel, Il Potere. Storia naturale del suo sviluppo, trad. it., Rizzoli, Milano 1947, p. 175.
(23) Cfr. il mio Política e Teoria do Estado, Saraiva, San Paolo 1957, cap. XVII, n. 3.
(24) Marcel de la Bigne de Villeneuve, L’Activité Étatique, Recueil Sirey, Parigi 1954, p. 434.
(25) Louis Daujarques, Le Néo-Dirigisme Technocratique, in Permanences, n. 46, p. 57.
(26) Alexis de Tocqueville, L’Antico regime e la Rivoluzione, libro I, cap. II, trad. it., Rizzoli, Milano 1981, p. 44. Nello stesso senso, Idem, La democrazia in America: “È insito nella costituzione stessa delle nazioni democratiche e nelle loro esigenze che il potere del sovrano sia più uniforme, più centralizzato, più ampio, più penetrante, più potente che altrove. In queste nazioni la società è per natura più attiva e più forte, l’individuo più subordinato e più debole: l’una fa di più, l’altro di meno […]“. Certamente “è insieme necessario e auspicabile che il potere centrale che governa un popolo democratico sia attivo e potente. Non si tratta affatto di renderlo debole o indolente, ma soltanto di impedirgli di abusare della sua attività e della sua forza”. Ma, “nella maggioranza delle nazioni moderne, il sovrano, qualunque sia la sua origine, la sua costituzione e il suo nome, è divenuto quasi onnipotente ed i privati cadono sempre più giù, fino all’ultimo scalino della debolezza e della soggezione” (vol. II, parte IV, cap. VII, in Idem, Scritti politici, trad. it., vol. II, UTET, Torino 1968, pp. 817 e 822).
(27) Vedi sopra cap. II, nn. 8-9.
(28) Georges Ripert, Le Déclin du Droit, Librairie Générale de Droit et de Jurisprudence, Parigi 1949, pp. 4-5. Tout devient droit public!: questo titolo del secondo capitolo della stessa opera è sufficientemente significativo. L’eminente civilista francese lo ricava da Frédéric Portalis, nell’esposizione preliminare al Codice Napoleone. Il diritto pubblico tende ad assorbire tutte le sfere abbracciate dalla regolamentazione giuridica. E il diritto pubblico — si noti bene — confuso con il diritto dello Stato.
(29) Juan Vallet de Goytisolo, Sociedad de masas y Derecho, Taurus, Madrid 1968, p. 252.
(30) Marcel De Corte, L’Éducation Politique, in Politique et Loi Naturelle. Actes du Congrès de Lausanne, p. 71.
(31) Corporativismo è diventato un termine compromesso e perfino squalificato a causa di questo sfiguramento del regime corporativo. Riguarda il decentramento professionale, cioè fondato sulle organizzazioni professionali o culturali di tipo corporativo: sindacati, ordini di professioni liberali, università. È molto importante anche il decentramento a base regionale o locale. Non si tratta in proposito dello Stato federale, che può essere molto centralizzatore (vedi sopra, n. 7), ma del federalismo, come principio di formazione sociale e di decentramento. In questo senso il federalismo è espressione della formazione naturale delle società politiche, costruite dal basso verso l’alto e non pianificate artificialmente dallo Stato. L’opposto dello Stato totalitario è “la comunità popolare e statale costruite federalisticamente” (E. Brunner, op. cit., p. 159). Il federalismo implica il principio di sussidiarietà, cioè il riconoscimento dell’opera suppletiva dello Stato rispetto alla società.