Massimo Introvigne, Cristianità n. 126 (1985)
Un nodo storico – e quindi religioso, politico, etnico e culturale – bisognoso di essere sciolto con prudenza, con pazienza e con saggezza, e che invece la Rivoluzione sta abilmente sfruttando con intenzioni dialettiche e non solutorie.
Il Sudafrica brucia? Il Sudafrica è alla vigilia di una sanguinosa guerra civile? La politica sudafricana rappresenta una sfida vergognosa e intollerabile per tutto il mondo libero? Ognuno di noi si è posto variamente, negli ultimi mesi, questi o simili interrogativi, a cui ha cercato – forse invano – di dare qualche risposta convincente sulla base di informazioni spesso contraddittorie e imprecise. Le osservazioni che seguono si fondano principalmente sulla recente esperienza di un soggiorno in Sudafrica, nel corso del quale ho avuto l’occasione di condurre anche qualche ricerca bibliografica e di prendere contatto con alcuni esponenti significativi della vita economica, professionale e religiosa. Per inquadrare i problemi che l’attualità ci presenta mi sembra necessario premettere almeno qualche breve cenno sulle caratteristiche e sulla storia delle varie popolazioni del Sudafrica, passando quindi in rassegna le forze politiche e religiose che attualmente si fronteggiano, per concludere con un accenno alle prospettive per il futuro.
I. Le popolazioni del Sudafrica
- I neri
Su un totale di circa ventiquattro milioni di abitanti il Sudafrica conta sedici milioni di neri. Tuttavia la situazione sudafricana non può essere paragonata a quella di nessuno degli altri paesi del cosiddetto “continente nero”, dove la presenza di un gruppo di bianchi “colonizzatori” si è sovrapposta a una popolazione nera maggioritaria che viveva sul territorio da secoli, e ricorda piuttosto la vicenda degli Stati Uniti d’America. Quando il primo insediamento olandese si stabilisce intorno al Capo di Buona Speranza nel 1652, la popolazione nera dell’attuale Sudafrica è costituita dalle tribù che l’antropologia classica chiamava boscimani e ottentotti, e che l’antropologia più recente preferisce chiamare khoi e san. Queste popolazioni “native” conoscono una sorte simile a quella degli indiani dell’America Settentrionale: decimate dalle malattie infettive, dalle prime guerre con i bianchi, dal meticciaggio, vedono il loro numero ridursi fino quasi all’estinzione; oggi rimangono in Sudafrica solo poche centinaia di boscimani, mentre gli ottentotti sono praticamente scomparsi. I neri che costituiscono la maggioranza della popolazione del Sudafrica non sono quindi gli “antichi” abitatori di quelle terre, ma si sono stabiliti sul territorio sudafricano dopo le prime popolazioni bianche (1): si tratta sia – come, appunto, negli Stati Uniti – di discendenti di schiavi, largamente importati nel Settecento; sia di popolazioni migrate verso sud dall’Africa Centrale, soprattutto all’inizio dell’Ottocento in seguito al grande ciclo di sanguinose guerre tribali conosciuto dagli storici dell’Africa come Difaqane ovvero Mfecane, in cui emerse fra l’altro la preminenza militare e culturale degli zulu sulle altre tribù; sia – infine – in seguito all’immigrazione volontaria, massiccia fino a tempi recenti e che prosegue tuttora, di abitanti neri dei paesi vicini che accorrono in Sudafrica in cerca di lavoro, attirati anche dalle migliori condizioni di vita (2). La problematica posta dalla presenza di una maggioranza nera in Sudafrica è quindi del tutto peculiare e non ha nulla a che fare con il consueto schema del colonialismo e della decolonizzazione.
Per contro, avvicina il Sudafrica agli altri paesi del continente l’ampia presenza di una problematica tribale: come in molte altre zone, quelli che a prima vista sembrano essere problemi politici e partitici si rivelano spesso problemi tribali. Costituisce una grave quanto ingenua semplificazione considerare “i neri” come un popolo; ciascuno di essi si sente innanzitutto membro della propria comunità tribale. La maggioranza della popolazione nera – circa sei milioni – appartiene alla tribù zulu; si tratta, rispetto alle altre tribù – fra cui emergono xhosa, sotho, a loro volta divisi in sotho del Nord e sotho del Sud, e tswana – di una maggioranza relativa, con riflessi anche sul piano sociale e culturale, ma non assoluta. Nessuna delle altre tribù, infatti supera i tre milioni di membri, ma messe insieme esse rappresentano una popolazione di circa dieci milioni.
- I bianchi
Il sessanta per cento della popolazione bianca è costituita dal gruppo afrikaner o “boero”, una entità etnica e linguistica assolutamente peculiare, che risulta dalla fusione fra l’originario gruppo olandese e una immigrazione ugonotta francese, con una lingua, l’afrikaans, che conserva pochi elementi francesi ma è piuttosto diversa anche dall’attuale olandese. In seguito alle conseguenze delle guerre napoleoniche il nucleo storico dell’attuale Sudafrica fu occupato dagli inglesi, che cominciarono una loro nuova immigrazione; attualmente è di origine inglese circa il trentacinque per cento della popolazione bianca. Geloso della sua peculiare identità il popolo boero cercò di resistere alla dominazione inglese prima spostandosi verso nord con la leggendaria “grande marcia” verso terre inesplorate chiamata Voortrek e costituendo nel Nord delle repubbliche indipendenti, quindi difendendo in armi la sua indipendenza nella lunga e cruenta guerra boera – che va dal 1880 al 1902 (3) – da cui gli afrikaner uscirono sconfitti, ma insieme rafforzati nella loro identità di popolo. Quando nel 1961 il Sudafrica divenne una repubblica mettendo fine alla sua adesione al Commonwealth britannico, la coesione culturale della maggioranza boera la portò a conquistare una egemonia politica che, entro certi limiti, dura tuttora. Inoltre, oggi in Sudafrica esistono importanti gruppi di origine tedesca e portoghese, nonché significative minoranze di origine italiana – circa ottantamila persone – e greca.
Anche l’analisi della popolazione bianca mostra il carattere assolutamente peculiare della realtà sudafricana. Il popolare slogan anticolonialistico che suona “bianchi, tornatevene a casa” diventa privo di senso – oppure crudelmente drammatico – in Sudafrica, dove la maggioranza della popolazione bianca, i boeri, non ha una “casa” europea dove tornare.
- Indiani e meticci
Completano il quadro della popolazione africana circa ottocentomila asiatici, in maggioranza di origine indiana, e circa due milioni e mezzo di meticci, i coloured. Con la riforma costituzionale del 1982, accanto alla Camera composta da rappresentanti degli elettori bianchi, il parlamento sudafricano comprende due ulteriori camere per gli indiani e i coloured.
- L’”apartheid”
La parola apartheid – “separazione” in lingua afrikaans – ha almeno due significati diversi. Originariamente apartheid significava “sviluppo separato”, possibilità per ogni comunità etnica e linguistica di preservare le proprie caratteristiche, a prescindere da chi esercitasse il potere politico. Di fatto, il primo uso da parte della comunità boera della parola “apartheid ” si riferiva a una rivendicazione di carattere positivo: i boeri chiedevano l’”apartheid” per sé stessi agli inglesi al potere, come diritto a continuare a esprimersi, e soprattutto ad avere scuole per i propri figli, in lingua afrikaans e secondo la religione calvinista, senza che venissero loro imposte la lingua inglese e la religione anglicana. Di fatto, tuttavia, nell’uso linguistico internazionale oggi la parola apartheid è diventata sinonimo di “discriminazione razziale”, con riferimento sia a una serie di provvedimenti destinati a separare i bianchi dai neri – divieto di matrimoni interrazziali, segregazione negli alberghi, nei condomini, sugli autobus, nello sport e così via -, sia a una mentalità, favorevole alla segregazione e alla discriminazione nei confronti dei neri.
È importante notare che la mentalità dell’apartheid non ha nulla a che vedere con il razzismo biologico di impronta evoluzionistica che si è manifestato, per esempio, nel nazionalsocialismo. Le radici culturali dell’apartheid come mentalità sono diverse, e possono essere riferite soprattutto a tre fonti: una certa religiosità calvinista, con una interpretazione fondamentalista e letterale della Bibbia, che sancirebbe la superiorità dei bianchi nella storia dei figli di Noè; la lettura umanistica del diritto romano – in Sudafrica il cosiddetto diritto romano-olandese, che risale al Cinquecento e al Seicento, è in taluni settori tuttora vigente -, che portava a equiparare la figura del nero alla figura romanistica dello schiavo; l’illuminismo scientista, che vedeva nel nero un essere primitivo legato a un mondo magico-religioso, contrapposto al bianco europeo in possesso dei segreti del progresso e della scienza (4). L’apartheid, così considerato, è una realtà certamente inaccettabile ma in via di lenta estinzione sia a livello amministrativo che di mentalità. Dal punto di vista amministrativo certo rimangono ancora passi da compiere soprattutto nel settore delle abitazioni e della scuola, ma molto è già stato fatto: le discriminazioni razziali, particolarmente sgradevoli, nei settori dello sport, di molti spettacoli, dei trasporti, dei ristoranti e degli alberghi sono sparite pressoché totalmente; nel 1985 il Sudafrica ha anche abolito quello che è sempre il pilastro di ogni sistema di segregazione razziale, cioè il divieto di matrimonio misto (5). Quanto alla mentalità, è vero che ci si imbatte ancora in persone che difendono la segregazione razziale con argomentazioni impregnate di letteralismo biblico. Si tratta di una conseguenza – da un certo punto di vista prevedibile – del fondamentalismo tipico di certi gruppi protestanti, che pone un problema su cui gli specialisti di ecumenismo dovrebbero forse riflettere. Ma le posizioni nettamente minoritarie dei due piccoli partiti politici che adottano ufficialmente una posizione favorevole alla discriminazione razziale dimostrano che si tratta di una mentalità in netto declino. Quanto al governo sudafricano, il 31 agosto 1985, in occasione della visita di tre ministri degli esteri della Comunità Europea, ha diffuso un comunicato in cui afferma che “se per apartheid si intende. 1. Dominazione politica di una comunità sull’altra; 2. esclusione di una qualsiasi delle comunità dal processo politico di prendere decisioni; 3. ingiustizia o disuguaglianza nelle opportunità accessibili a ogni comunità: 4. discriminazione razziale e violazione della dignità umana; allora il Governo del Sudafrica condivide il rifiuto del suddetto concetto” (6).
II. Le forze politiche e religiose in campo
- L’African National Congres e Nelson Mandela
Fuori legge dal 1960, l’African National Congres, l’ANC, benché oggi dichiari a gran voce di non essere “ufficialmente” comunista, ha tuttavia strettissimi legami con il Partito Comunista Sudafricano – anch’esso fuori legge -, a sua volta fedelissimo strumento della politica sovietica in Africa. Dei ventidue membri del comitato nazionale esecutivo dell’ANC, dodici sono contemporaneamente membri del Partito Comunista Sudafricano, e fra questi figurano il segretario generale, il vicepresidente, il direttore politico del partito, oltre al famoso Joe Slovo, un bianco, responsabile dell’ala militare dell’ANC. È difficile negare che l’ANC abbia fra i suoi fini la transizione del Sudafrica verso un regime socialista, e proponga ufficialmente come mezzi il terrorismo e la violenza. Secondo l’insospettabile testimonianza di MondOperaio, rivista mensile del Partito Socialista Italiano, l’ala militare dell’ANC è “finanziata dall’Unione Sovietica” e il movimento “negli ultimi tre anni è riuscito a compiere, in media, un atto terroristico la settimana, con tendenza all’aumento nell’anno in corso [1985]” (7). La cosiddetta “ala militare” dell’ANC fu fondata da Nelson Mandela, in carcere dal 1963. Nel 1962, in uno studio dal titolo Materialismo Dialettico – il cui manoscritto, di pugno di Nelson Mandela, fu acquisito agli atti del cosiddetto “processo di Rivonia” del 1964, senza che egli ne contestasse l’autenticità -, l’esponente dell’ANC così definiva il proprio obiettivo: “distruggere la società capitalista e creare al suo posto il socialismo“. E aggiungeva: “la transizione dal capitalismo al socialismo e la liberazione della classe operaia dal giogo non potrà avvenire attraverso cambiamenti e riforme lente, come consigliano spesso i reazionari ed i liberali, ma solo tramite la rivoluzione” (8). Una “rivoluzione” che non rimaneva soltanto sulla carta, perché i programmi – non smentiti dagli interessati – del gruppo processato a Rivonia prevedevano, fra l’altro, la posa di quarantottomila mine anti-uomo e una serie di attentati che avrebbero dovuto comportare l’impiego di millecinquecento bombe a orologeria (9). In una intervista rilasciata nell’agosto del 1985 Nelson Mandela ha dichiarato che oggi rifiuta la definizione di “comunista” preferendo quella di “nazionalista africano influenzato dall’idea di una società senza classi“, convinto comunque che il comunismo ha il vantaggio di “concedere uguali opportunità a tutti“. Quanto ai mezzi insiste però nel sostenere che “non c’è spazio per le battaglie pacifiche” e non nega di avere pronunciato la famosa frase secondo cui “il bianco deve essere completamente vinto e spazzato dalla faccia della terra prima di realizzare il mondo comunista” (10).
- L’United Democratic Front, l’UDF
Su posizione lievemente più moderata della ANC – in quanto rifiuta il terrorismo, anche se non sempre la violenza – si schiera l’UDF, che non è un partito ma una confederazione di circa trecento piccoli gruppi e movimenti, uniti dalla richiesta per il Sudafrica della regola “un uomo, un voto”, il cui leader è un pastore coloured della Chiesa riformata olandese, il dottor Allan Boesak, che è anche presidente dell’Alleanza Mondiale delle Chiese Riformate (11). L’UDF rappresenta una manifestazione di quello che, a proposito di certi aspetti della situazione ecclesiale brasiliana, il professor Plinio Corrêa de Oliveira ha efficacemente denominato “quinto potere“, con riferimento al potere politico esercitato dal clero legato ai miti della “teologia della liberazione” (12). La leadership di fatto dell’UDF è costituita da un gruppo di religiosi fra cui spiccano, oltre al dottor Boesak, il vescovo anglicano Desmond Tutu, premio Nobel per la pace, e il reverendo Beyers Naude, segretario generale del Consiglio Sudafricano delle Chiese, il SACC. È da manifestazioni promosse da esponenti dell’UDF che hanno spesso avuto origine le recenti selvagge dimostrazioni in cui sono stati coinvolti per lo più studenti giovanissimi e in seguito alle quali sono stati trucidati – in diverse occasioni bruciati vivi – esponenti amministrativi neri accusati di “collaborazionismo”, insieme con le loro famiglie. A una manifestazione dell’UDF, tenuta il 20 luglio 1985 nella cittadina di Cradock, con la partecipazione del dottor Boesak e del reverendo Naude, sono riapparse in Sudafrica – dopo molti anni – le bandiere rosse con la falce e il martello, compresa una bandiera sovietica posta dietro le spalle degli oratori durante i loro interventi (13).
La Chiesa Cattolica del Sudafrica non è membro del Consiglio Sudafricano delle Chiese, ma contribuisce alla sua attività con una donazione annuale estremamente generosa. In una parte del clero cattolico sudafricano – non esclusi i vertici della conferenza episcopale, presieduta dall’arcivescovo Dennis Hurley – sembrano essere, purtroppo, abbondantemente diffuse tesi caratteristiche della “teologia della liberazione” sudamericana più estremista (14).
La politica del Consiglio Sudafricano delle Chiese non è condivisa da tutte le forze religiose del paese. Le organizzazioni evangeliche del vescovo Mokoena e le chiese riformate indipendenti del vescovo Lekganyane – a cui fonti diverse attribuiscono complessivamente da quattro a nove milioni di aderenti – manifestano una notevole ostilità verso il Consiglio Sudafricano delle Chiese, di cui si rifiutano di fare parte, e una uguale ostilità, diretta in particolare contro l’UDF, si riscontra fra i sei milioni di zulu (15).
- L’opposizione bianca
La sinistra bianca nel parlamento sudafricano è rappresentata dal Partito Federale Progressista, il PFP, di Frederik van Zyl Slabbert, in cui si riconosce poco meno del venti per cento dei bianchi sudafricani. Decisamente minoritaria in parlamento, l’opposizione bianca di sinistra – forte soprattutto nella comunità di lingua inglese e anche nell’importante comunità ebraica -, gode tuttavia di un vasto potere giacché essa è sostanzialmente sostenuta dai grandi potentati economici – fra i quali spicca il potente gruppo Anglo-American/De Beers, legato alla famiglia Oppenheimer – e dai principali giornali di lingua inglese (16). Si tratta di un mondo, peraltro, piuttosto frammentato: l’opposizione bianca di sinistra comprende settori moderati favorevoli a una qualche forma di Stato federale, e rappresentanti di una grande industria “mondialistica” e spregiudicata che ritiene di potere venire a patti – come hanno fatto in Angola le multinazionali del petrolio – anche con un regime di ispirazione marxista. In quest’ultima prospettiva va letto il recente incontro fra alcuni esponenti della grande industria sudafricana e dirigenti dell’ANC.
- Gli zulu: il partito Inkhata
A differenza dell’UDF, che è una confederazione di organizzazioni in parte esistenti solo sulla carta, il movimento Inkhata tessera e registra i suoi membri, il che permette di valutarne la forza: ha passato recentemente il milione di tesserati, quasi tutti zulu. Presentato come “partito” dei neri moderati, l’Inkhata è in realtà soprattutto una organizzazione tribale, i cui dirigenti – a partire dal capo Gatsha Buthelezi – si confondono con i membri della famiglia reale zulu. Il movimento chiede l’abolizione di tutte le forme di segregazione razziale che ancora sussistono, mentre sul piano politico sostiene i progetti di forme democratiche non necessariamente legate alla formula “un uomo un voto” e che prevedono una rappresentanza non tanto per teste, quanto per comunità, territori e tribù. Gatsha Buthelezi ha recentemente criticato in modo molto violento i dirigenti dell’UDF e dell’ANC, accusando questi ultimi di ricorrere sistematicamente all’assassinio politico (17).
- Il governo, il Partito Nazionale e le prospettive per il futuro
Il Partito Nazionale, con oltre il sessanta per cento dei seggi, dispone di una tranquilla maggioranza e di una forte leadership, la riforma costituzionale del 1984, orientata in senso presidenzialista, concede poteri molto ampi al suo leader Pieter Willem Botha. Su di lui e sul suo partito ricade pertanto la maggiore responsabilità nella ricerca per il Sudafrica di un futuro che eviti – per quanto possibile, e nonostante le pressioni esterne – il confronto violento e la guerra civile. Tale futuro sembra risiedere nel totale superamento di ogni forma di discriminazione e di segregazione razziale e in un graduale coinvolgimento dei neri in un sistema politico che sia adatto alle peculiari condizioni del Sudafrica. Come tutte le comunità multietniche – il paragone con il Libano è venuto spontaneo a molti dei miei interlocutori sudafricani -, il Sudafrica non sembra adatto a una applicazione meccanica della formula “un uomo un voto”, che solo la mentalità ingenua di qualche politico occidentale può considerare la formula magica capace di risolvere tutti i problemi di tutti i paesi (18). Del resto, in quasi tutti i paesi del continente africano – che, se non hanno la complessità etnica e storica del Sudafrica, hanno comunque problemi simili quanto alla composizione tribale – il suffragio universale rigido, imposto come eredità dai decolonizzatori, è durato pochi mesi o pochi anni, sostituito da dittature tribali oppure militari sovente sanguinose, quando non da governi direttamente ispirati e pilotati dalla Unione Sovietica attraverso la presenza militare cubana. La soluzione che il Partito Nazionale ha cercato finora di attuare per il Sudafrica è quella della divisione del territorio, con la formazione di Stati indipendenti da assegnare alle più importanti tribù nere. Questa soluzione – anche se eventualmente rivista formando, in luogo di Stati indipendenti, una pluralità di Stati destinata a comporre una futura federazione – non sembra in grado di risolvere tutti i problemi del Sudafrica, perché gli Stati indipendenti o federali corrispondono ai territori in cui i gruppi tribali si erano originariamente stanziati, e non tengono conto del fatto che un grande numero di neri si è ormai stabilito nelle zone che questi progetti assegnano ai bianchi, dove sorgono le maggiori industrie e dove è più facile trovare lavoro, e non ha alcuna intenzione di ritornare nelle aree rurali da cui è immigrato. Si può pensare, piuttosto, a forme di federazione non territoriale, ma fra nazioni e comunità che possono anche convivere nel medesimo territorio, secondo i medesimi progetti formulati e parzialmente attuati in Libano.
Dal punto di vista militare gli estremisti dell’ANC e i giovanissimi che danno origine ai tumulti urbani non sembrano avere alcuna possibilità di successo: sono contro di loro non solo un esercito e una polizia particolarmente efficienti – formati in maggioranza da neri -, ma soprattutto una parte maggioritaria dell’opinione pubblica nera. Dal punto di vista politico rimane tuttavia aperta per il Sudafrica la strada degli errori e degli equivoci che potrebbe portare a una sorta di suicidio, o a una disastrosa stagione di violenza. Molto dipenderà dall’atteggiamento della comunità internazionale. Se l’opinione pubblica europea e americana si lascerà influenzare dall’atteggiamento sovente poco obiettivo e poco responsabile dei mezzi di comunicazione di massa e della informazione religiosa legata al Consiglio Sudafricano delle Chiese, spingendo i governi occidentali a chiudersi a ogni dialogo con le autorità del Sudafrica e a sostenere le organizzazioni estremiste, la situazione non potrà che evolvere verso il confronto violento. Se l’occidente riuscirà invece a continuare sulla strada di una discreta pressione sul Sudafrica, ferma nel rifiuto della discriminazione razziale ma comprensiva di fronte allo studio di soluzioni politiche originali per un problema sociale inconsueto, allora un esito pacifico e soddisfacente della vicenda sudafricana non sarà impossibile. Si tratta certamente di un esito che non farebbe piacere all’Unione Sovietica e ai suoi disegni di egemonia sul continente africano; ma di un esito a cui, dimenticando la retorica facile e i miti del terzomondismo ingenuo, dovrebbero essere interessati quanti – e primi fra tutti i cattolici fedeli alla dottrina sociale della Chiesa – intendono battersi per una vera pace nella libertà e nella giustizia.
Massimo Introvigne
Note:
(1) La circostanza, pacifica per l’etnologia classica, è stata messa in discussione in anni recenti da una nuova etnologia “indigenista” e militante, che afferma di avere scoperto indizi di una prima migrazione verso sud di popolazioni dell’Africa Centrale nel secolo XVII, quasi contemporaneamente all’arrivo degli olandesi in Sudafrica. Il dato, se pure dovesse venire confermato, avrebbe dimensioni quantitative così ridotte da non mutare la sostanza del problema.
(2) Il tenore di vita dei neri sudafricani è superiore da tre o quattro volte a quello degli abitanti di qualunque altro Stato africano; per limitarsi a un solo esempio i neri del Sudafrica possiedono, da soli, un numero di automobili superiore a quello degli abitanti di tutti gli altri paesi africani messi insieme (cfr. i dati citati in Vic LOCKMAN, Who’S behind the South African crisis?, Tampa 1985, p. 8).
(3) Sulla guerra boera, anche come radice psicologica della mentalità boera attuale, cfr. THOMAS PAKENHAM, The Boer War, 3ª ed., Jonathan Ball, Johannesburg 1985 (trad. it.: La guerra anglo-boera, Rizzoli, Milano 1982).
(4) L’esperienza sudafricana costituisce così una ulteriore conferma del fatto che l’ideologia della discriminazione razziale non è nata in ambito cattolico ma piuttosto dai filoni culturali che maggiormente hanno avversato la Chiesa.
(5) Personalmente sono rimasto stupito dal vedere presso l’albergo Carlton di Johannesburg – il più lussuoso del Sudafrica – coesistere tranquillamente nella sala da pranzo tavoli di bianchi e tavoli di neri, compresa una famigliola di neri che festeggiava il compleanno della bambina, acconciata con le caratteristiche treccine – scena poco consueta nei grandi alberghi di altri paesi dove convivono bianchi e neri, per esempio nel Sud degli Stati Uniti.
(6) Per la versione italiana cfr. Il Governo sudafricano respinge l’apartheid, comunicato stampa del Consolato Generale della Repubblica del Sudafrica a Milano, del 2-9-1985.
(7) ERMANNO BRUZZO, Sudafrica: compromesso o libanizzazione?, in MondOperaio, anno XXXVIII, n. 8-9, agosto-settembre 1985, p. 43.
(8) Citato in H. H. W. DE VILLIERS, Rivonia Operation Mayibuye. A review of the Rivonia trial, Afrikaanse Pers-Boekhandel, Johannesburg 1964, pp. 96-97.
(9) Cfr. ibidem.
(10) Citato in Mandela: guerra ai bianchi (articolo non firmato dalla redazione di New York), in La Stampa, 23-8-1985. Nelson Mandela invita a leggere la sua ultima dichiarazione nel contesto del suo complessivo pensiero: è quanto, brevemente, ho cercato di fare riportando fedelmente i suoi “distinguo” in tema di comunismo. La stessa Amnesty International si è rifiutata di includere Nelson Mandela nella sua lista di “prigionieri di coscienza” in quanto reo confesso di “programmazione di atti di sabotaggio“, mentre Amnesty si occupa solo di detenuti per reati di opinione (cfr. le dichiarazioni di Carline Windall di Amnesty International riportate in ALLAN C. BROWNFELD, What the left won’t say about Nelson Mandela and the ANC, in New York City Tribune, 23-7- 1985).
(11) Il dottor Allan Boesak è stato agli inizi del 1985 al centro di furiose polemiche giornalistiche in seguito alle voci relative a una sua relazione extraconiugale con una certa miss Di Scott, una giovane divorziata funzionario del Consiglio Sudafricano delle Chiese. Dopo avere negato ogni addebito per un mese, nel febbraio del 1985 il dottor Boesak finalmente ammetteva la relazione e veniva sospeso, sia pure per un breve periodo, dalle sue funzioni nella Chiesa riformata olandese. Questo incidente (su cui cfr., per esempio, Moral zealots with feet of clay, in Signposts, vol. IV, n. 2, febbraio 1985, p. 3) sarebbe, secondo una parte della stampa sudafricana, piuttosto rilevante in quanto avrebbe tolto al dottor Boesak, a vantaggio del vescovo Tutu, una sorta di primato nella rappresentanza pubblica delle idee dell’UDF, specie nei confronti della stampa estera.
(12) Cfr. PLINIO CORRÊA DE OLIVEIRA, GUSTAVO ANTONIO SOLIMEO e LUIZ SÉRGIO SOLIMEO, As CEBs … das quais muito se fala, pouco se conhece. A TFP as descreve como são, Vera Cruz, San Paolo 1982; su questo volume cfr. ANTONIO AUGUSTO BORELLI MACHADO, Le Comunità Ecclesiali di Base in Brasile: una crociata senza croce, in Cristianità, anno X, n. 92, dicembre 1982, pp. 6-10. Sul vescovo Tutu cfr. l’intero numero 1 (vol. IV, gennaio 1985) della rivista protestante conservatrice sudafricana Signposts
(13) Sull’episodio cfr. Soviet flag flies over South African town, in Signposts, vol. IV, n. 4, agosto-settembre 1985, pp. 1-2.
(14) Due documenti recenti lasciano particolarmente perplessi. Il primo è la prefazione all’edizione ufficiale sudafricana, a cura della Southern African Catholic Bishop’s Conference, della Istruzione su alcuni aspetti della “teologia della liberazione“, del 6 agosto 1984. In tale prefazione si afferma che il documento “non colpisce qualunque uso del pensiero marxista, ma solo il suo uso acritico o non sufficientemente critico“, “non chiude la discussione sulla filosofia marxista, ma raccomanda il rispetto per la priorità della rivelazione sulla filosofia in questa discussione“. Il secondo è il corso per adulti African Studies Course (1985, s.i.l.) pubblicato dal Department of Schools of the South African Catholic Bishop’s Conference, esempio di “coscientizzazione” nella linea della “teologia della liberazione” marxisteggiante, completo di vignette a fumetti dove gruppi di neri esclamano “Europei, tornatevene a casa – e restateci!” (p. 81), oppure “Le scuole sono inutili! Dateci la terra!” (p. 82), e di violenti attacchi ai neri “collaborazionisti” che assumono un suono particolarmente sinistro se si tiene conto dei recenti sanguinosi incidenti.
(15) La stampa ha riferito di minacce, da parte degli zulu del partito Inkhata, di interruzione delle prediche reputate sovversive (cfr., per esempio, TIM CLARKE, Quit townships or face action. Inkhata warns UDF, in The Citizen, 28-8-1985); e recentemente di scontri con morti e feriti fra militanti di Inkhata e dell’UDF (cfr., per esempio, Scontri in Sud Africa: altri 6 morti in 24 ore, in Stampa Sera, 30-9-1985).
(16) Tutti i giornali di lingua inglese del Sudafrica meno uno sono controllati direttamente o indirettamente dal gruppo Anglo-American/De Beers. Rivelatrice di una mentalità e di uno stile è l’intervista a Harry F. Oppenheimer, patriarca della famiglia che controlla il gruppo, in Fortune, vol. CXII, n. 7 (inter. ed.), 30-9-1985, p. 19.
(17) Una silloge di recenti dichiarazioni di Gatsha Buthelezi in argomento è reperibile in US unforgivably mismanaging its influence – Buthelezi, in The Aida Parker Newsletter, n. 65, 10-9-1985, p. 2. Sui metodi terroristici dell’ANC cfr. pure il recente saggio, violentemente critico ma ricco di preziose informazioni, di HENRY R. PIKE, A History of Communism in South Africa, Christian Mission International of South Africa, Germiston 1985.
(18) Il Concilio Vaticano II nella costituzione Gaudium et Spes (n. 31) dopo avere lodato le nazioni dove viene favorita una larga partecipazione dei cittadini “alla gestione della cosa pubblica” aggiunge: “Si deve tuttavia tener conto delle reali condizioni di ciascun popolo e della necessaria solidità dei pubblici poteri“. Secondo padre Anselm Günthör O.S.B., il testo implica che, perché la democrazia in un determinato paese sia possibile, occorrono determinati presupposti, che non sempre e non ovunque si verificano: “Quando mancano i presupposti sopra indicati […] la forma democratica di governo comporta grossi pericoli” (Chiamata e risposta. Una nuova teologia morale, ed. it., Edizioni Paoline, Roma 1979, vol. III, pp. 268-69).