MASSIMO INTROVIGNE, Cristianità n. 295-296 (1999)
Mentre il Dalai Lama lascia l’Italia — dove si è trattenuto dal 19 al 28 ottobre 1999 — e continua il suo pellegrinaggio nel mondo come ambasciatore di spiritualità e di libertà per il suo popolo sofferente, credo sia dovere di ogni credente — anzi, di ogni persona rispettosa dei diritti umani, religiosa o non religiosa — augurargli sinceramente buon viaggio. Perché il suo viaggio in Italia — al di là del suo essere stato “caso”, “fenomeno” e “moda” — lasci davvero qualche frutto, vale la pena tuttavia di aggiungere all’augurio qualche breve riflessione.
1. Il mancato rispetto della libertà religiosa e degli altri diritti umani nella Repubblica Popolare Cinese
Anzitutto, la compassione per le sofferenze del popolo tibetano — privato della libertà religiosa e perfino dell’identità culturale dalla Cina sotto regime comunista — non può essere un fatto occasionale o stagionale. Come molti hanno fatto notare, nello stesso mese l’Europa ha accolto con uguali onori il Dalai Lama e i governanti cinesi, il perseguitato e i persecutori. Non basta applaudire ogni tanto il Dalai Lama per scaricarsi la coscienza. Quando sul loro tavolo arriveranno, in materia di rapporti con la Repubblica Popolare Cinese, i fascicoli che contano — quelli delle relazioni finanziarie e commerciali — i potenti d’Europa dovranno ricordare la visita del Dalai Lama, le mille storie di disperazione e di morte dei profughi tibetani, il dovere morale di non separare il tavolo del commercio da quello dei diritti umani e della libertà religiosa. Dovranno pure ricordare che non si tratta solo del Tibet e dei buddhisti: dalla Cina, a chi solo non si rifiuti di ascoltarle, giungono voci inquietanti di una discriminazione e di una persecuzione che non si arresta contro i cattolici fedeli a Roma e gli evangelici che rifiutano di sottomettersi alla gerarchia religiosa “patriottica” imposta dal regime, per non parlare del caso, certo assai complesso, del movimento sincretistico Falun Gong, a proposito del quale anche molti europei — quasi nessuno, invece, negli Stati Uniti d’America — hanno comunque accettato acriticamente le campagne di disinformazione partite da Pechino.
2. Per un autentico dialogo inter-religioso fra cristiani e buddhisti
In secondo luogo, la visita del Dalai Lama è una grande occasione per il rilancio di un genuino dialogo interreligioso fra cristiani e buddhisti, di cui vi è certamente bisogno, come ha ricordato lo stesso Papa Giovanni Paolo II. Il dialogo presuppone la consapevolezza dell’alterità e delle differenze. Non mira alla fusione né alla confusione — che anzi danneggia e distrugge tale dialogo — ma alla comprensione reciproca e alla collaborazione. Si rimane così perplessi quando si legge, su autorevoli quotidiani, che si potrebbe ormai essere insieme cattolici e buddhisti, e quando il Dalai Lama stesso afferma in un’intervista che “[…] noi lo chiamiamo Budda [sic], altri lo chiamano Dio, ma la categoria è la stessa” (1). Forse l’intervistatore non ha ben colto il pensiero dell’illustre ospite. Certamente nessun buddhista sottoscriverebbe l’affermazione secondo cui Buddha e il Dio dei cristiani sono “nella stessa categoria”. L’idea di un Dio personale, onnipotente, trascendente, creatore, provvidente, che entra in dialogo con l’uomo e s’incarna nella storia è quanto di più lontano si possa immaginare dalla visione buddhista del mondo. Nel buddhismo — dove talora vi sono dei, anche loro sottoposti alle ineluttabili leggi dell’universo — non vi è posto per un Dio unico, personale e creatore. L’universo non è retto da una persona ma da una Legge, che opera tramite il karma nella vita degli uomini attraverso la ruota delle reincarnazioni da cui ciascuno è chiamato a liberarsi. Il ruolo del Buddha nella liberazione dal karma è certamente sublime, ma questo non fa assolutamente del Buddha il creatore del mondo o un Dio trascendente e provvidente. Per il cristianesimo Dio, appunto, non è una “categoria” ma una persona. Sul piano logico, non si può certamente essere insieme cattolici e buddhisti: il Dio personale e il divino impersonale, la risurrezione e la reincarnazione, il ruolo unico di Gesù Cristo come Dio che s’incarna nella storia e l’attenzione rivolta a Gesù Cristo solo come illuminato o maestro non sono certamente compatibili. Sul piano sociologico, esistono certamente molte persone che vanno a Messa a Natale e a Pasqua e vanno anche in qualche monastero buddhista, e che si dicono insieme cristiane e buddhiste, ma si tratta di cristiani confusi, di buddhisti confusi e più spesso di tutte e due le cose insieme. Sono osservazioni che nulla tolgono all’esigenza del dialogo interreligioso, anzi ne costituiscono la premessa. Per dialogare occorre avere anzitutto consapevolezza della propria identità: chi non ha più propriamente una mano non può stringere la mano dell’altro.
3. Per uno studio serio del buddhismo, e del buddhismo tibetano, com’è e come si presenta e non come “fenomeno” da circo massmediatico
In terzo luogo, la visita — che coincide, significativamente, con la conclusione dell’iter per l’Intesa fra lo Stato italiano e l’Unione Buddhista Italiana — potrebbe e dovrebbe essere occasione per studiare seriamente il buddhismo. Cadrebbero così facili equivoci, mitologie, interpretazioni “eurocentriche” del buddhismo che assimilano la comunità buddhista internazionale a una “Chiesa” di cui il Dalai Lama sarebbe il Papa. Evidentemente, non è così. Il buddhismo è una grande famiglia distinta in varie tradizioni e scuole; in Italia le più diffuse sono la theravada, la zen, la Nichiren, e la tibetana. Il Dalai Lama è la guida spirituale del buddhismo tibetano, non di tutto il buddhismo, e anche all’interno del buddhismo tibetano non mancano divisioni e controversie. Da questo punto di vista, la figura dell’attuale Dalai Lama è per molti versi singolare. Il Dalai Lama — scrive Donald S. Lopez, uno dei maggiori specialisti accademici contemporanei del buddhismo tibetano — può essere considerato, a partire dal 1959, “[…] il principale propagatore del modernismo buddhista”, una corrente che ricostruisce il buddhismo come “religione della ragione” (2) fondata sull’“analisi razionale” (3), sulla compassione e sulla benevolenza, così consapevolmente interagendo con l’immagine che studiosi occidentali si erano fatti della religione buddhista. La scelta del Dalai Lama ne ha fatto una figura di enorme successo in Occidente, ma non è priva di aspetti paradossali, se si considera che in Tibet — fra divinità guerriere e riti di esorcismo — la versione modernista del buddhismo era rimasta sostanzialmente “sconosciuta” (4), tanto più nella corrente conservatrice Geluk di cui i Dalai Lama sono tradizionalmente i capi. Nonostante le sue scelte filosofiche, il Dalai Lama rimane profondamente tibetano: per esempio, nota Lopez, “[…] offre regolarmente iniziazioni al culto di divinità vendicative e non prende nessuna decisione importante senza consultare la feroce divinità guerriera che gli parla attraverso l’oracolo di Nechung” (5). È vero che il Dalai Lama ha vietato, dopo averla praticata in gioventù, la venerazione di Dorje Shugden, un bellicoso spirito protettore Geluk, creando una controversia fra i buddhisti tibetani — insanguinata nel 1997 anche da alcuni omicidi — che ha aperto pure agli osservatori occidentali una finestra sul Tibet degli spiriti e degli oracoli. Ma questo è avvenuto perché il Dalai Lama vuole presentarsi nell’esilio come il capo di tutti i tibetani, non solo della corrente Geluk, e non per una sua presunta avversione al culto di divinità propiziatorie, che anzi continua a praticare (6). Si può anche segnalare che, da quando è in esilio, il Dalai Lama ha conferito oltre venti volte l’iniziazione del Kalachakra. Questa iniziazione, nota ancora Lopez, “[…] è inusuale fra le iniziazioni tantriche, in quanto è conferita in pubblico, spesso a larghe masse; il numero dei partecipanti recentemente ha superato le 250.000 persone” (7). Non si tratta soltanto di un gesto simbolico. In realtà per un buddhista tibetano “[…] coloro che ricevono l’iniziazione stanno piantando i semi per reincarnarsi nella prossima vita a Shambhala” (8) — la mitica terra pura del buddhismo fra le montagne, Shangri-La, talora identificata con il Tibet stesso — da dove “[…] nell’anno 2425 l’esercito del [venticinquesimo] re scenderà per distruggere i barbari in una Armageddon buddhista, restaurando il buddhismo in India e nel mondo e instaurando un regno di pace” (9).
Comunque, questi aspetti emergono raramente nei discorsi del Dalai Lama in lingua inglese: per studiarli, occorre risalire ai suoi discorsi in tibetano e per tibetani, come fa Lopez, che non si scandalizza di questo duplice linguaggio. Infatti non vi è nessuna ragione di sospettare il Dalai Lama di duplicità nel senso volgare del termine o di chissà quali furbizie. Egli si è scelto una difficile e nobile missione di dialogo con l’Occidente, un dialogo in cui non può non aspirare a rappresentare l’intero mondo buddhista. Nello stesso tempo, non gli si può chiedere di rinnegare le sue radici, non solo carne e sangue del Tibet e dei suoi drammi, ma anche garanzia contro la riduzione del buddhismo a semplice supplemento vagamente spirituale del mondo della scienza e della tecnica, paventata da Umberto Galimberti (10). Sono radici che chi dialoga con il Dalai Lama deve considerare con serenità, consapevole però che il vero buddhismo — complesso, articolato, talora diviso — non è quello in versione su carta patinata dei seminari per VIP e dei cocktail mondani. Ma il dialogo è, insieme, davvero possibile e necessario solamente con il buddhismo genuino, non con questo effimero buddhismo-champagne.
Massimo Introvigne
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* Articolo anticipato senza note e con il titolo redazionale La trappola del Nirvana, in Avvenire. Quotidiano di ispirazione cattolica, anno XXXII, n. 255, 30-10-1999, p. 19.
(1) Cesare Medail, Dalai Lama, vie di pace per la grande rivoluzione, in Corriere della Sera, 24-10-1999.
(2) Donald S. Lopez Jr., Prisoners of Shangri-La. Tibetan Buddhism and the West, University of Chicago Press, Chicago-Londra 1998, p. 185.
(3) Ibidem.
(4) Ibidem.
(5) Ibid., p. 191.
(6) Cfr. David Kay, The New Kadampa Tradition and the Continuity of Tibetan Buddhism in Transition, in Journal of Contemporary Religion, vol. XII, n. 3, ottobre 1997, pp. 277-293; e uno schema della controversia, in Tricycle. The Buddhist Review, vol. VII, n. 3, primavera 1998, p. 59; Stephen Batchelor, Letting Daylight into Magic. The Life and Times of Dorje Shugden, ibid., pp. 60-66; e D. S. Lopez Jr., Two Sides of the Same God, ibid., pp. 67-69; e Geshe Kelsang Gyatso — leader della NKT, la New Kadampa Tradition, che intende continuare a venerare Dorje Shugden —, intervista a cura dello stesso D. S. Lopez Jr., ibid., pp. 70-76; e Thubten Jugme Norbu — fratello del Dalai Lama —, intervista sempre a cura di D. S. Lopez Jr., ibid., pp. 77-82.
(7) D. S. Lopez Jr., Prisoners of Shangri-La. Tibetan Buddhism and the West, cit., p. 207.
(8) Ibidem.
(9) Ibidem.
(10) Cfr. Umberto Galimberti, Il Dalai Lama, chimera dell’Occidente, in la Repubblica, 25-10-1999.