Massimo Introvigne, Cristianità n. 347-348 (2008)
Nel 1831 il magistrato e studioso di scienza politica francese visconte Alexis de Tocqueville (1805-1859) si reca negli Stati Uniti d’America per studiarne il sistema penitenziario. Finirà per osservare in modo approfondito le istituzioni politiche e religiose del Paese, e per pubblicare al suo ritorno in Francia, nel 1835 e nel 1840, i due volumi — ciascuno dei quali consta nella prima edizione di due tomi — su La democrazia in America, uno dei primi saggi che affronta in modo articolato la questione della specificità americana e che ha una grande influenza sulla scienza sociologica nascente (1).
A differenza di Tocqueville, Papa Benedetto XVI — che si è recato negli Stati Uniti d’America dal 15 al 21 aprile 2008 — non è andato in America per la prima volta. Vi era stato più volte prima dell’elezione al soglio pontificio, e nella cerchia d’intellettuali che considera suoi amici diversi sono statunitensi. Tuttavia, è molto significativo che Papa Benedetto XVI abbia citato ripetutamente il viaggio di Tocqueville e che — a differenza di quanto avevano fatto altri Papi che avevano visitato gli Stati Uniti d’America — i suoi interventi non siano stati solo pronunciati in America ma abbiano avuto l’America come tema, con l’eccezione del discorso del 18 aprile all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite a New York, che ha comprensibilmente affrontato questioni relative alla stessa ONU.
Gli Stati Uniti d’America non sono un Paese qualunque. Dal punto di vista demografico, politico, economico, culturale e anche religioso hanno — come Tocqueville intuiva in modo preveggente e come oggi è ovvio a chiunque — un’importanza decisiva per le sorti del mondo. L’insegnamento del Papa sullo stato della società e delle istituzioni religiose negli Stati Uniti d’America ha dunque a sua volta un’importanza tutta particolare.
Nei discorsi che Papa Benedetto XVI ha pronunciato nel suo memorabile viaggio, che costituiscono un’autentica “enciclica itinerante” sugli Stati Uniti d’America, emergono tre temi: una valutazione, sostanzialmente positiva, di quanto storici e sociologi — tutti appunto più o meno debitori di Tocqueville — definiscono l’esperimento americano; una rassegna e una denuncia dei pericoli che insidiano l’esperimento americano nel secolo XXI, e che per certi versi erano presenti come rischi e ambiguità fin dalle sue origini; un’indicazione di quali misure potrebbero essere prese per resistere a questi pericoli e tornare allo spirito autentico e migliore dell’esperimento da cui nasce la nazione americana. Questi tre insegnamenti di Papa Benedetto XVI hanno come sfondo culturale due dibattiti oggi molto vivaci sul ruolo della religione nella storia e nella cultura degli Stati Uniti d’America, di cui certamente tengono conto.
1. La religione e l’America: due dibattiti
Le premesse teoriche per il giudizio sull’esperimento americano di Papa Benedetto XVI sono contenute in due testi molto importanti, precedenti il viaggio negli Stati Uniti d’America: il fondamentale discorso natalizio del 2005 dedicato alla Modernità (2) e l’enciclica Spe salvi sulla speranza cristiana (3).
Nel discorso del 2005 il Pontefice distingue due diversi modelli di Modernità, che hanno la loro espressione politica rispettivamente nella Rivoluzione Americana (1776-1783) e nella Rivoluzione Francese del 1789, notando come “la rivoluzione americana aveva offerto un modello di Stato moderno diverso da quello teorizzato dalle tendenze radicali emerse nella seconda fase della rivoluzione francese” (4).
L’esperimento americano delle origini è stato descritto in due modi diversi. Dal momento che la posta in gioco del dibattito storiografico non è soltanto accademica, ma è culturale e politica, la discussione è particolarmente accesa (5). Secondo una prima descrizione, che corrisponde sostanzialmente a quella ottocentesca di Tocqueville, il modello americano si basa su valori condivisi, il cui fondamento non è cercato nella teologia di una specifica denominazione cristiana ma nei princìpi che si ritiene le diverse comunità cristiane abbiano in comune. Alle origini degli Stati Uniti d’America vi sono infatti comunità minoritarie — protestanti e talora anche cattoliche — che nei Paesi d’origine — principalmente in Gran Bretagna — sono discriminate per la loro fede, e danno quindi un grande valore alla libertà religiosa. Pertanto, mettono al centro del sistema giuridico della nuova nazione la separazione dello Stato da una Chiesa ufficiale dominante. Tuttavia la separazione dello Stato dalla Chiesa nella Rivoluzione Americana non assume lo stesso significato rispetto alla Rivoluzione Francese. Secondo la formula sintetica della sociologa francese Danièle Hervieu-Léger, l’espressione usata, “separazione” (6), può essere comune “ma è la nozione stessa di separazione che riveste, al di là dell’Atlantico, un significato molto diverso da quello che gli è proprio in Francia. La separazione alla francese fu elaborata per imporre alla Chiesa cattolica di limitarsi a perseguire obiettivi strettamente spirituali, se proprio non la si poteva costringere a limitare la sua attività alle sacrestie. È stata pensata anzitutto per proteggere lo Stato contro l’espansione possibile della Chiesa. Negli Stati Uniti, invece, è la libertà delle comunità religiose che il principio di separazione intende garantire, contro qualunque invadenza dello Stato” (7). In Francia, la separazione protegge lo Stato contro la religione, mentre negli Stati Uniti d’America protegge la religione contro lo Stato. Di qui un plurisecolare favor per la religione, che contrasta con l’ostilità francese e che ha garantito alle religioni quel particolare sviluppo che hanno avuto negli Stati Uniti d’America.
La seconda narrativa si muove in direzione opposta. Sottolinea le affinità fra Rivoluzione Francese e Rivoluzione Americana, insistendo sul fatto che molti dei protagonisti principali delle due rivoluzioni fanno parte della stessa istituzione, la massoneria. I valori evocati dagli atti di fondazione della nazione americana non sarebbero pertanto cristiani o teisti — cioè riferiti a una nozione di Dio comune a diverse denominazioni o Chiese —, ma piuttosto deisti, cioè ispirati a quella nozione di Dio vaga e indefinita, ben lontana dall’immagine cristiana di un Dio personale e provvidente, che caratterizza l’ideologia delle logge massoniche. La “religione” degli Stati Uniti d’America nascenti altro non sarebbe che il patrimonio filosofico della massoneria. Questa seconda narrativa delle origini americane non è recente, e ha — se si vogliono usare queste categorie — una versione “di destra” e una “di sinistra”. La prima corrisponde a un certo anti-americanismo che denuncia gli Stati Uniti d’America come un Paese intrinsecamente “anti-tradizionale”, il quale non presenterebbe nessuna continuità rispetto all’Europa e alle sue radici cristiane, tanto che le stesse nozioni di un Occidente o di una Magna Europa (8) che comprenderebbero insieme l’Europa e gli Stati Uniti d’America sarebbero propagandistiche e spurie. L’Europa — almeno l’Europa tradizionale, radicata nel cristianesimo — e gli Stati Uniti d’America non starebbero dalla stessa parte. Da una parte vi sarebbero i tradizionali valori religiosi — in crisi in Europa nonché, si aggiunge spesso, abbandonati dal mondo ebraico, ma ancora vivi nel mondo islamico e in certi ambienti dell’Estremo Oriente —, dall’altra il deismo massonico. Questa negazione dell’Occidente di solito si accompagna oggi ad atteggiamenti politici “islamofili”, che detestano Israele e gli Stati Uniti d’America come presunte manifestazioni quintessenziali dell’illuminismo massonico, e vedono nei Paesi islamici gli ultimi baluardi della Tradizione con la T maiuscola.
La versione “di sinistra” della seconda narrativa sulle origini americane propone la stessa lettura della storia, ma ne rovescia completamente la valutazione. Qui le due conclusioni secondo cui la Rivoluzione Americana è semplicemente una variante “transatlantica” della Rivoluzione Francese, e la sua ideologia è il deismo massonico, non sono considerate elementi negativi ma estremamente positivi. Questo ethos delle origini degli Stati Uniti d’America — deista, massonico e laicista — meriterebbe ogni apprezzamento. Ma l’apprezzamento non si estende agli Stati Uniti d’America di oggi, dove una secolare invadenza delle Chiese — che, si aggiunge oggi, avrebbe raggiunto la sua massima intensità con la presidenza di George W. Bush, il quale l’avrebbe sistematicamente favorita — avrebbe rovesciato l’ethos nazionale, riscritto la storia e falsificato le vere intenzioni dei Padri Fondatori, creando il mito della “nazione cristiana”. Fra l’altro, il romanziere Dan Brown annuncia fin da ora che con il seguito de Il Codice da Vinci — un best seller annunciato, dedicato alla massoneria — scenderà in campo a favore della seconda narrativa delle origini americane, beninteso nella versione “di sinistra”, “svelando” che i Padri Fondatori non erano, come crede ingenuamente la maggioranza degli americani di oggi, uomini religiosi ma, al contrario, massoni miscredenti.
Il rischio è che Brown stavolta seduca anche chi ama la versione “di destra” della seconda narrativa delle origini americane. Non sarebbe la prima volta. Le opere un po’ provocatorie della storica Catherine Albanese, secondo cui la vera fede nazionale americana è una “religione della natura” (9), condizionata dalla geografia e dai grandi spazi, e del critico letterario Harold Bloom (10), il quale sosteneva che le denominazioni più diffuse negli Stati Uniti d’America, comprese quelle cristiane, hanno tutte al loro interno elementi esoterici e gnostici, erano entrambe intese a esaltare la specificità statunitense. Ma furono facilmente lette “al contrario” da un anti-americanismo “di destra”, fin troppo lieto di trovarvi una conferma della tesi secondo cui l’ethos nazionale degli Stati Uniti d’America non è cristiano ma pagano o gnostico. Con buona pace dei fan di questi testi, tuttavia, la seconda narrativa delle origini americane, in qualunque versione, non è sostenibile storicamente. Si fonda su una lettura schematica dell’illuminismo, della massoneria e dello stesso deismo del 1700, unificati in un grande modello “transatlantico” che ignora le profonde differenze anzitutto fra Gran Bretagna ed Europa Continentale, quindi fra Stati Uniti d’America ed Europa in genere. L’illuminismo che si sviluppa in Gran Bretagna non è uguale all’illuminismo dell’Europa Continentale. La massoneria francese, spagnola o italiana — impegnata fin dalle sue origini in un duro scontro con la Chiesa Cattolica — non è identica nel 1700 alla massoneria britannica e tanto meno a quella degli Stati Uniti d’America. Certamente il metodo massonico in quanto tale a lungo andare corrode le pretese di verità di ogni singola religione e genera deismo, così che il giudizio della Chiesa Cattolica è negativo rispetto a qualunque forma di massoneria, comprese quelle che si sviluppano in Gran Bretagna e negli Stati Uniti d’America. Ma questo non è necessariamente chiaro agli albori settecenteschi in un Paese come gli Stati Uniti d’America, dove la massoneria in molti Stati ammette i soli cristiani e richiede un’esplicita professione di fede nel Dio della Bibbia.
Con l’eccezione di alcuni singoli personaggi, che non a caso erano stati in Europa e avevano frequentato la massoneria francese, dall’affiliazione massonica di molti Padri Fondatori della nazione americana non si può dunque immediatamente dedurre che fossero ostili alla religione o anticristiani. Naturalmente, non erano neppure tutti buoni cristiani, né nella vita privata né nell’ortodossia delle loro idee religiose, come vorrebbe una vulgata contemporanea diffusa nel mondo protestante conservatore americano, che reagisce giustamente alla “seconda narrativa” ma esagera e va al di là di quanto può essere storicamente provato. Piuttosto, professavano una varietà di accostamenti alla religione e inseguivano una “lingua comune” fra le varie denominazioni protestanti, ancorché fra gli stessi Padri Fondatori vi fossero anche alcuni cattolici, che non erano affatto massoni, il più illustre e devoto dei quali, Charles Carroll (1737-1832), è curiosamente presentato come massone nel film del 2004 Il mistero dei Templari, che ha come sfondo le stesse vicende storiche del romanzo annunciato di Brown, ma almeno si presenta come pura opera di fantasia e non intende trasmettere tesi ideologiche (11). Lo stesso deismo che influenza certamente alcuni Padri Fondatori come George Washington (1732-1799), Thomas Jefferson (1743-1826) e John Adams (1735-1826), non è — come ha mostrato da ultimo lo storico delle religioni David L. Holmes (12) — identico al deismo francese, né a quello del politico e intellettuale inglese Thomas Paine (1737-1809), che cerca d’importare le idee francesi negli Stati Uniti d’America. È piuttosto un’ostilità alla Chiesa Episcopaliana, che svolge nella Virginia, da dove provengono, un ruolo di Chiesa di Stato che ricorda loro la persecuzione delle minoranze in Inghilterra: un’ostilità che si manifesta nel sostegno a idee eterodosse alla moda, fra cui la negazione della Trinità e della verginità di Maria. Ma questa eterodossia non implica necessariamente una fuoriuscita dal cristianesimo, e tanto meno dalla religione in genere. Del resto, questi cosiddetti deisti americani sulla questione della religione devono interagire, al momento della preparazione delle Carte fondamentali della nazione americana, con protestanti d’idee piuttosto tradizionali come Samuel Adams (1722-1803), il cui contributo ai documenti di fondazione è decisivo, John Jay (1745-1829) e Patrick Henry (1736-1799). Nella loro grande maggioranza i fondatori della nazione americana vogliono dunque dar vita a un esperimento dove la separazione dello Stato da ogni singola Chiesa e dalla sua ortodossia non sia però separazione dello Stato da una costellazione di valori morali, il cui fondamento religioso — pure diversamente costruito da ciascuno dei Padri Fondatori — è esplicitamente riconosciuto.
Naturalmente, questo esperimento non è privo di un rovescio di medaglia. L’enfasi sulla libertà di religione — che ha radici storiche ben precise — diventa facilmente enfasi sulle scelte individuali, con conseguente rischio d’individualismo e di “privatizzazione” della religione. Ne è testimone l’estrema frammentazione del protestantesimo statunitense in centinaia, poi migliaia di denominazioni diverse. L’individualismo domina del resto l’intero ethos americano: la sua concezione della democrazia, della cultura, della società, della religione, fin dal mito dell’uomo della Frontiera che lotta da solo contro tutti e da solo si costruisce il suo destino. Questo ha portato nella storia della nazione americana vantaggi nella ferma resistenza a ogni seduzione e ideologia autoritaria: il comunismo, per esempio, non ha mai messo vere radici negli Stati Uniti d’America, se non in qualche dipartimento universitario. Ma ha portato anche evidenti svantaggi.
Tuttavia, non si devono neppure sottovalutare i pregi della libertà religiosa. Sul punto, non si può non fare cenno a un secondo dibattito, che è al cuore della sociologia delle religioni contemporanea. Il sociologo luterano austriaco, emigrato negli Stati Uniti d’America dopo la seconda guerra mondiale (1939-1945), Peter Ludwig Berger, ha offerto negli anni 1960 una delle più autorevoli formulazioni — non l’unica — della teoria cosiddetta “classica” della secolarizzazione. In The Sacred Canopy (13), pubblicato per la prima volta nel 1967, Berger sostiene che la democrazia e la libertà religiosa nel lungo periodo portano fatalmente con loro il declino della religione. Mentre in un tipico paesino austriaco dell’epoca in cui il sociologo era giovane vi era un solo campanile, quello della parrocchia cattolica, in un paesino americano degli anni 1960 ve ne sono una decina, che corrispondono alle chiese cattolica, episcopaliana, luterana, riformata, battista, metodista, pentecostale, e così via. Secondo Berger la presenza di molte religioni non induce il fedele a credere che siano tutte portatrici di verità, ma al contrario che le loro proposte siano tutte poco plausibili. Non potendo avere tutte ragione, hanno tutte torto. Il pluralismo religioso erode le strutture di plausibilità della religione (14).
Si può dire che il cosiddetto “nuovo paradigma” nella sociologia delle religioni — cioè una teoria sociologica che contesta le teorie classiche della secolarizzazione — nasca negli Stati Uniti d’America negli anni 1970 per criticare la tesi di Berger, anche se in seguito estenderà la sua critica ad altre formulazioni, diverse da quella di Berger, della tesi relativa alla secolarizzazione. Il “nuovo paradigma” oppone all’analisi qualitativa di Berger un dato quantitativo: se la tesi del sociologo austriaco fosse vera, negli Stati Uniti d’America — dove il pluralismo religioso è maggiore — le chiese dvrebbero essere vuote, mentre dovrebbero essere piene in Europa, dove in molti Paesi la religione maggioritaria gode di una posizione quasi monopolistica. Dal momento che è vero il contrario, la teoria di Berger non può essere corretta. Il “nuovo paradigma”, che è elaborato da sociologi che hanno quasi tutti compiuto studi di economia, utilizza la metafora di un “mercato religioso” dove agiscono “aziende religiose” in competizione fra loro per affermare che questo mercato non si comporta diversamente da altri mercati di beni e di servizi, tanto più vivaci quanto più sono caratterizzati dal libero mercato e dalla concorrenza. Il monopolista s’impigrisce e alla fine non promuove più il prodotto, con la conseguenza che il mercato si deprime. Al contrario, se prodotti analoghi sono venduti da diverse aziende concorrenti, ciascuna è spinta a darsi da fare e il mercato di quei prodotti si espande. Così i sociologi del “nuovo paradigma”, pur lasciando ampio spazio a eccezioni individuali, ci presentano tutti la figura paradigmatica del pastore delle “Chiese di Stato” dell’Europa Settentrionale — tipicamente, il pastore luterano danese — il cui stipendio corre a prescindere dal numero di fedeli che raduna, e che fatalmente s’impigrisce in assenza di concorrenza, paragonandolo sfavorevolmente al medio ministro di culto di una congregazione americana di provincia che, dovendo competere con i pastori di una dozzina di altre denominazioni, deve continuamente inventarsi qualcosa per rendere la sua proposta più originale e attraente di quella della concorrenza. Il risultato è esattamente il contrario di quello che si potrebbe prevedere applicando la tesi di Berger: il pluralismo religioso degli Stati Uniti d’America porta in chiesa ogni domenica più o meno dieci volte il numero di fedeli che riesce a raccogliere il monopolio della Chiesa di Stato danese (15).
Rispetto ai primi momenti di questo dibattito, molta acqua è passata sotto i ponti della sociologia delle religioni. Vi è un “secondo Berger” che si è trasformato in severo critico del “primo Berger” e di The Sacred Canopy, e oggi afferma che la sua analisi era al massimo valida per alcuni Paesi dell’Europa Occidentale mentre, se la s’intende come una regola assoluta e universale, la tesi secondo cui il venire meno della protezione dello Stato e il pluralismo religioso generano una diminuzione della pratica religiosa era semplicemente sbagliata (16).
Papa Benedetto XVI fa cenno alla tesi secondo cui la religione di Stato genera disaffezione nei confronti della religione nell’enciclica Spe salvi, a proposito non degli Stati Uniti d’America ma dell’Impero Romano, dove — alla vigilia dell’irruzione del cristianesimo — la religione pagana è decaduta, e i suoi riti sono celebrati stancamente da funzionari stipendiati, senza vera partecipazione popolare. Il Papa usa precisamente nella Spe salvi l’espressione “religione di Stato” (17), rilevandone la debolezza. Il mito della religione classica a Roma, afferma Papa Benedetto XVI, “aveva perso la sua credibilità” (18) e la religione romana “si era sclerotizzata in semplice cerimoniale” (19). La religione di Stato, a causa della protezione delle autorità, non è forte — come pensava il primo Berger — ma al contrario perde credibilità. L’epopea della religione negli Stati Uniti d’America conferma in modo evidente questa tesi.
2. L’esperimento americano: “un modello fondamentale e positivo”
Fin dal primo scambio di battute con i giornalisti sull’aereo che lo porta negli Stati Uniti d’America, Papa Benedetto XVI sceglie, fra le due narrative delle origini statunitensi, quella che riconosce nell’esperimento americano una radice prevalente religiosa e cristiana piuttosto che massonica e deista. “Quanto trovo io affascinante negli Stati Uniti — afferma il Pontefice — è che hanno incominciato con un concetto positivo di laicità, perché questo nuovo popolo era composto da comunità e persone che erano fuggite dalle Chiese di Stato e volevano avere uno Stato laico, secolare che aprisse possibilità a tutte le confessioni, per tutte le forme di esercizio religioso. Così è nato uno Stato volutamente laico: erano contrari ad una Chiesa di Stato. Ma laico doveva essere lo Stato proprio per amore della religione nella sua autenticità, che può essere vissuta solo liberamente. E così troviamo questo insieme di uno Stato volutamente e decisamente laico, ma proprio per una volontà religiosa, per dare autenticità alla religione. E sappiamo che Alexis de Tocqueville, studiando l’America, ha visto che le istituzioni laiche vivono con un consenso morale di fatto che esiste tra i cittadini. Questo mi sembra un modello fondamentale e significativo” (20). Dunque, a differenza di quella francese, la laicità americana non nasce contro la religione ma al contrario “per amore della religione”. Lo ribadisce Papa Benedetto XVI ai vescovi degli Stati Uniti d’America, con parole che costituiscono un ripudio esplicito della tesi “transatlantica” secondo cui le separazioni fra Stato e Chiesa negli Stati Uniti d’America e in Europa sarebbero semplicemente due varianti di un modello fondamentalmente unitario. “Ritengo significativo — sottolinea invece il Papa — il fatto che qui in America, a differenza di molti luoghi in Europa, la mentalità secolare non si è posta come intrinsecamente opposta alla religione. All’interno del contesto della separazione fra Chiesa e Stato, la società americana è sempre stata segnata da un fondamentale rispetto della religione e del suo ruolo pubblico” (21).
Papa Benedetto XVI ne trae due conseguenze. La prima riguarda il ruolo fondamentale della libertà religiosa nell’esperimento americano. La libertà di religione non è un aspetto secondario, un diritto fra i tanti: si situa alle origini e al cuore stesso dell’America. “Gli americani hanno sempre apprezzato la possibilità di render culto liberamente e in conformità con la loro coscienza. Alexis de Tocqueville, lo storico francese e osservatore delle cose americane, era affascinato da questo aspetto della Nazione. Egli ha sottolineato che questo è un paese in cui la religione e la libertà sono “intimamente legate” nel contribuire ad una democrazia stabile che favorisca le virtù sociali e la partecipazione alla vita comunitaria di tutti i suoi cittadini” (22). “Tutti i credenti hanno qui trovato la libertà di adorare Dio secondo i dettami della loro coscienza, essendo al tempo stesso accettati come parte di una confederazione nella quale ogni individuo ed ogni gruppo può far udire la propria voce” (23).
La libertà di religione ha permesso anche ai cattolici, superate alcune iniziali discriminazioni, di partecipare pienamente alla vita culturale, sociale e politica degli Stati Uniti d’America. “In questa terra di libertà religiosa i cattolici hanno trovato non soltanto la libertà di praticare la propria fede ma anche di partecipare pienamente alla vita civile, recando con sé le proprie convinzioni morali nella pubblica arena, cooperando con i vicini nel forgiare una vibrante società democratica” (24). L’esperienza della libertà religiosa, che è la premessa di ogni altra libertà, ha un intrinseco valore morale e ha conferito agli Stati Uniti d’America un ruolo speciale nei confronti d’immigrati che spesso di questa libertà non riuscivano a godere nei Paesi d’origine. “Il rispetto per la libertà di religione è profondamente radicato nella coscienza americana, un dato di fatto che ha contribuito a far sì che questo Paese attraesse generazioni di immigranti alla ricerca di una casa dove poter liberamente rendere culto a Dio secondo i propri convincimenti religiosi” (25). “Sin dagli inizi, essi hanno aperto le porte agli affaticati, ai poveri, alle “masse che si accalcavano alla ricerca di respirare nella libertà” (cfr Sonetto inciso sulla Statua della Libertà)” (26).
Da ultimo, quest’apertura ha portato negli Stati Uniti d’America molti emigrati cattolici di lingua spagnola, a proposito dei quali — mentre si rallegra del contributo che danno alla Chiesa Cattolica americana — Papa Benedetto XVI svolge peraltro un’importante considerazione generale in tema di emigrazione, la cui portata va molto al di là degli Stati Uniti d’America. “La soluzione fondamentale è che non ci sia più bisogno di emigrare, perché ci sono in Patria posti di lavoro sufficienti, un tessuto sociale sufficiente, così che nessuno abbia più bisogno di emigrare. Quindi, dobbiamo lavorare tutti per questo obiettivo, per uno sviluppo sociale che consenta di offrire ai cittadini lavoro ed un futuro nella terra d’origine” (27).
Insieme, il clima creato dalla libertà religiosa e il ripudio della nozione di “religione di Stato” hanno, secondo il Papa — come hanno concluso i sociologi —, portato a una particolare fioritura, non solo privata ma anche pubblica, della religione. “L’America è anche una terra di grande fede. La vostra gente è ben conosciuta per il fervore religioso ed è fiera di appartenere ad una comunità orante. Ha fiducia in Dio e non esita ad introdurre nei discorsi pubblici ragioni morali radicate nella fede biblica” (28).
Porre la libertà religiosa al centro del diritto e della politica ha avuto anche una conseguenza più profonda. L’ordine morale riconosciuto dalla Costituzione americana — contro i sostenitori della “seconda narrativa” delle origini americane — non è semplicemente fondato su un appello alla ragione, ma su valori la cui fonte è esplicitamente identificata dai Padri Fondatori in un Dio creatore. Un brano del discorso pronunciato alla Casa Bianca ha suscitato, al riguardo, grande impressione e costituisce sia un’evidente scelta di campo fra le due narrative delle origini americane, sia una manifestazione di consapevolezza relativa al fatto che questa scelta non riguarda una questione meramente accademica ma ha conseguenze culturali e politiche cruciali per l’America del secolo XXI.
“Sin dagli albori della Repubblica — afferma a Washington Papa Benedetto XVI —, la ricerca di libertà dell’America è stata guidata dal convincimento che i principi che governano la vita politica e sociale sono intimamente collegati con un ordine morale, basato sulla signoria di Dio Creatore. Gli estensori dei documenti costitutivi di questa Nazione si basarono su tale convinzione, quando proclamarono la “verità evidente per se stessa” che tutti gli uomini sono creati eguali e dotati di inalienabili diritti, fondati sulla legge di natura e sul Dio di questa natura. Il cammino della storia americana evidenzia le difficoltà, le lotte e la grande determinazione intellettuale e morale che sono state necessarie per formare una società che incorporasse fedelmente tali nobili principi. Lungo quel processo, che ha plasmato l’anima della Nazione, le credenze religiose furono un’ispirazione costante e una forza orientatrice, come ad esempio nella lotta contro la schiavitù e nel movimento per i diritti civili. Anche nel nostro tempo, particolarmente nei momenti di crisi, gli Americani continuano a trovare la propria energia nell’aderire a questo patrimonio di condivisi ideali ed aspirazioni” (29). Nella storia americana “la democrazia può fiorire soltanto, come i vostri Padri fondatori ben sapevano, quando i leader politici e quanti essi rappresentano sono guidati dalla verità e portano la saggezza, generata dal principio morale, nelle decisioni che riguardano la vita e il futuro della Nazione” (30).
Ai “Padri fondatori” è dunque attribuita un’esplicita consapevolezza e volontà di fondare i diritti garantiti dalla Costituzione americana non solo sulla “legge di natura” ma “sul Dio di questa natura”, di radicare l’“ordine morale” sul saldo fondamento della “signoria di Dio Creatore”. Per Papa Benedetto XVI non vi sono dubbi: “terra di libertà religiosa”, l’America è nello stesso tempo una “terra di grande fede”, nel cui discorso pubblico sono presenti “ragioni morali radicate nella fede biblica”. Papa Benedetto XVI non usa l’espressione Christian nation, non solo perché controversa fra gli storici con riferimento ai documenti di fondazione, ma anche perché, in una serie di gesti e d’incontri, ha voluto riconoscere il contributo alla storia americana di gruppi religiosi non cristiani, in primo luogo della comunità ebraica. Ma il giudizio è chiaro, ed è sia di fatto — i Padri Fondatori intendevano basare la nazione su un “Dio Creatore” e sulla “fede biblica”, che è cosa diversa dal deismo illuminista come comunemente lo s’intende — sia di valore: il modello americano è “fondamentale e positivo”.
3. Ombre di una luce: i rischi del modello americano
Il giudizio positivo di Papa Benedetto XVI sull’esperimento americano non è privo di sfumature, che rimandano a questioni fondamentali in materia di rapporto fra pluralismo e verità. Come Papa Benedetto XVI aveva sottolineato nel citato discorso natalizio del 2005 sulla Modernità, altra è la valutazione moralmente positiva della libertà religiosa come clima in cui solo, immune da costrizioni dello Stato, l’atto di fede può maturare in modo libero; altra è la constatazione storica e sociologica secondo cui in un clima di libertà religiosa di cui gli Stati Uniti d’America offrono un esempio la religione fiorisce; altro ancora è invece il giudizio dottrinale sulla frammentazione della religione in innumerevoli religioni e del cristianesimo in migliaia di Chiese, comunità e denominazioni. Su questa frammentazione il giudizio della Chiesa e del Pontefice non può essere positivo. Per chi non è relativista la verità su Dio, su Gesù Cristo e sulla Chiesa è una, e il fatto che non tutti la condividano — se può essere spiegato sul piano storico e sociologico — non è però ultimamente motivo di gioia, ma di sofferenza. Nel viaggio americano si ha un’eco degli sforzi di Papa Benedetto XVI per chiarire in senso non relativistico l’insegnamento del Concilio Ecumenico Vaticano II (1962-1965) e in particolare della dichiarazione sulla libertà religiosa Dignitatis humanae, alla cui elaborazione diede un significativo contributo il teologo statunitense John Courtney Murray S.J. (1904-1967): il valore della libertà religiosa e la pretesa della Chiesa Cattolica di porsi come unica via ordinaria alla salvezza possono e devono essere proclamate insieme (31).
Si situa qui il durus sermo dell’incontro ecumenico tenuto a New York, dove Papa Benedetto XVI denuncia i “segni molesti di frammentazione” (32) e contesta l’idea secondo cui ciascuno farebbe bene, fra centinaia di comunità cristiane che esistono negli Stati Uniti d’America, a scegliere quella che ritiene più consona alla sua esperienza personale, magari andandola a cercare fra le tante comunità “non denominazionali”, un nuovo fenomeno che sottolinea precisamente l’esperienza a scapito della dottrina. La religione, così, rischia di essere “[…] confinata al regno mutevole della “esperienza personale”.
“L’accettazione di questa erronea linea di pensiero porterebbe i Cristiani a concludere che nella presentazione della fede cristiana non è necessario sottolineare la verità oggettiva, perché non si deve che seguire la propria coscienza e scegliere quella comunità che meglio incontra i propri gusti personali. Il risultato è riscontrabile nella continua proliferazione di comunità che sovente evitano strutture istituzionali e minimizzano l’importanza per la vita cristiana del contenuto dottrinale.
“Anche all’interno del movimento ecumenico i Cristiani possono mostrarsi riluttanti ad asserire il ruolo della dottrina per timore che esso possa soltanto esacerbare piuttosto che curare le ferite della divisione” (33). Ma questo, più che vero ecumenismo, è relativismo.
Quello che vale per il dialogo ecumenico fra cristiani, vale per il dialogo interreligioso con i non cristiani. Anche qui, “[…] nel nostro tentativo di scoprire i punti di comunanza, forse abbiamo evitato la responsabilità di discutere le nostre differenze con calma e chiarezza” (34). Mentre “[…] il più importante obiettivo del dialogo interreligioso richiede una chiara esposizione delle nostre rispettive dottrine religiose” (35). È necessario il dialogo, ma è ancora più necessario tenere ferma la bussola in direzione della verità.
L’attenzione tutta particolare all’impegno individuale nella vita religiosa americana non comporta dunque solo vantaggi, ma anche problemi. Il rischio è quello di una privatizzazione della religione, che ha diverse dimensioni. “Occorre resistere ad ogni tendenza a considerare la religione come un fatto privato” (36); “nel cristianesimo non vi può essere posto per una religione puramente privata” (37): “[…] nella misura in cui la religione diventa un affare puramente privato, essa perde la sua stessa anima” (38). Questa tendenza si declina, rispettivamente, nella separazione fra libertà e verità, da cui deriva la costruzione individualistica di un senso morale, di un cristianesimo — e anche di un cattolicesimo — privati, in cui ciascuno sceglie le dottrine che più gli sono gradite e rifiuta le altre; in una separazione fra fede e cultura, fra sfera privata e sfera pubblica e sociale della fede; e nell’esclusione della religione dalla vita pubblica che è invece conseguenza di un atteggiamento prevaricatore da parte di un nuovo laicismo anticlericale e intollerante.
a. Separazione fra libertà e verità
Il primo rischio nasce da una nozione errata di libertà, separata dalla verità e quindi dalla responsabilità: “[…] noi osserviamo con ansia che la nozione di libertà viene distorta. La libertà non è facoltà di disimpegno da; è facoltà di impegno per — una partecipazione all’Essere stesso. Di conseguenza, l’autentica libertà non può mai essere raggiunta nell’allontanamento da Dio. Una simile scelta significherebbe ultimamente trascurare la genuina verità di cui abbisogniamo per capire noi stessi” (39). Il problema riguarda non solo la Chiesa ma “la società in generale” (40). “Quando nulla aldilà dell’individuo è riconosciuto come definitivo, il criterio ultimo di giudizio diventa l’io e la soddisfazione dei desideri immediati dell’individuo. L’obiettività e la prospettiva, che derivano soltanto dal riconoscimento dell’essenziale dimensione trascendente della persona umana, possono andare perdute. All’interno di un simile orizzonte relativistico gli scopi dell’educazione vengono inevitabilmente ridotti. Lentamente si afferma un abbassamento dei livelli. Osserviamo oggi una certa timidezza di fronte alla categoria del bene e un’inconsulta caccia di novità in passerella come realizzazione della libertà. Siamo testimoni della convinzione che ogni esperienza sia di uguale valore e della riluttanza ad ammettere imperfezioni ed errori” (41).
Certo, “l’importanza fondamentale della libertà deve essere rigorosamente salvaguardata. Non è quindi sorprendente che numerosi individui e gruppi rivendichino ad alta voce in pubblico la loro libertà. Ma la libertà è un valore delicato. Può essere fraintesa o usata male così da non condurre alla felicità che tutti da essa ci aspettiamo, ma verso uno scenario buio di manipolazione, nel quale la nostra comprensione di noi stessi e del mondo si fa confusa o viene addirittura distorta da quanti hanno un loro progetto nascosto.
“Avete notato quanto spesso la rivendicazione della libertà viene fatta, senza mai fare riferimento alla verità della persona umana? C’è chi oggi asserisce che il rispetto della libertà del singolo renda ingiusto cercare la verità, compresa la verità su che cosa sia bene. In alcuni ambienti il parlare di verità viene considerato fonte di discussioni o di divisioni e quindi da riservarsi piuttosto alla sfera privata. E al posto della verità — o meglio, della sua assenza — si è diffusa l’idea che, dando valore indiscriminatamente a tutto, si assicura la libertà e si libera la coscienza. È ciò che chiamiamo relativismo. Ma che scopo ha una “libertà” che, ignorando la verità, insegue ciò che è falso o ingiusto?” (42).
Al contrario, un’autentica “difesa della libertà chiama a coltivare la virtù, l’autodisciplina, il sacrificio per il bene comune” (43). Come insegnava Papa Giovanni Paolo II (1978-2005), “in un mondo senza verità, la libertà perde il proprio fondamento” (44).
La nozione errata di libertà è penetrata anche nella Chiesa Cattolica. Papa Benedetto XVI lo ricorda negli Stati Uniti d’America, a quarant’anni dalla contestazione pubblica e clamorosa dell’enciclica Humanae vitae sulla retta regolazione della natalità del 1968 di Papa Paolo VI (1963-1978), quando tanti teologi e docenti d’istituzioni cattoliche americane cominciarono a contestare apertamente l’insegnamento del Pontefice e a proporsi come “magistero parallelo”, causando confusione e smarrimento nei fedeli. “Una delle grandi delusioni che seguirono il Concilio Vaticano II […] penso, sia stata per tutti noi l’esperienza di divisione” all’interno della Chiesa (45). “Lungi dall’approccio cattolico del “pensare con la Chiesa”, ogni persona crede di avere un diritto di individuare e scegliere” (46), fino allo “[…] scandalo dato da cattolici che promuovono un presunto diritto all’aborto” (47). “Tanti battezzati, invece di agire come lievito spirituale nel mondo, sono inclini ad abbracciare atteggiamenti contrari alla volontà del Vangelo” (48). Anche nella Chiesa Cattolica degli Stati Uniti d’America, come nella società americana in genere — ed è questo l’altro volto, meno attraente, dell’individualismo che è al cuore dell’esperimento statunitense — molti considerano l’insieme delle verità e delle dottrine come un grande plateau de fromages, dove ciascuno potrebbe scegliere quello che è più conforme al proprio gusto personale. E alle università cattoliche americane, purtroppo cuore del dissenso teologico dal 1968 a oggi, il Papa ricorda che “[…] ogni appello al principio della libertà accademica per giustificare posizioni che contraddicono la fede e l’insegnamento della Chiesa ostacolerebbe o addirittura tradirebbe l’identità e la missione dell’Università, una missione che sta al cuore del munus docendi della Chiesa e non è in qualche modo autonoma o indipendente da essa” (49).
La mancanza di unità nella Chiesa intorno alla verità e all’autorità fa da sfondo anche alla calamità inaudita e impensabile — che al Papa, dopo anni di riflessione, ancora “[…] riesce difficile comprendere” (50) e che gli causa “profonda vergogna” (51) — che si è verificata con il coinvolgimento di alcuni sacerdoti cattolici in episodi di pedofilia. Certo, il Papa ricorda che “la stragrande maggioranza dei sacerdoti e dei religiosi in America” non è coinvolta nello scandalo (52), di cui si tratta di valutare correttamente la “dimensione” (53). Tuttavia la scelta del Papa nei discorsi americani è quella di non sottolineare gli eccessi della propaganda laicista sul tema, ma piuttosto il comportamento “gravemente immorale” di pochi sacerdoti (54) e il fatto che la situazione sia stata “talvolta gestita in pessimo modo” anche da alcuni vescovi (55). Se la reiterata espressione di vergogna, di solidarietà con le vittime, d’impegno alla vigilanza a partire dai seminari — secondo il principio che “[…] è più importante avere buoni sacerdoti che averne molti” (56) — ha favorevolmente colpito la stampa statunitense, anche quella che si era preparata alla visita del Papa con maggiori pregiudizi, forse questa stessa stampa ha meno compreso l’invito ad analizzare anche questo dramma “in un contesto più ampio” (57). “I bambini — ha detto Papa Benedetto XVI — hanno diritto di crescere con una sana comprensione della sessualità e il ruolo che le è proprio nelle relazioni umane. Ad essi dovrebbero essere risparmiate le manifestazioni degradanti e la volgare manipolazione della sessualità oggi così prevalente; essi hanno il diritto di essere educati negli autentici valori morali radicati nella dignità della persona umana. Ciò ci riporta alla considerazione sulla centralità della famiglia e sulla necessità di promuovere il Vangelo della vita. Che cosa significa parlare della protezione dei bimbi quando la pornografia e la violenza possono essere guardate in così tante case attraverso i mass media ampiamente disponibili oggi?” (58).
b. Separazione fra fede e cultura
La privatizzazione della fede porta con sé anche il rischio che la religione, pure quando è seriamente vissuta sul piano individuale, non diventi cultura e non incida sulla società. Si tratta di un rischio che Papa Benedetto XVI ha analizzato nell’enciclica Spe salvi su un piano insieme storico e spirituale che è richiamato, citando la stessa enciclica, nel discorso ai vescovi degli Stati Uniti d’America. Nell’epoca moderna “questa accentuazione dell’individualismo ha influenzato persino la Chiesa (cfr Spe salvi, 13-15), dando origine ad una forma di pietà che talvolta sottolinea il nostro rapporto privato con Dio a scapito della chiamata ad esser membri di una comunità redenta” (59). Pure negli Stati Uniti d’America, “anche se è vero che questo Paese è contrassegnato da un genuino spirito religioso, la sottile influenza del secolarismo può tuttavia segnare il modo in cui le persone permettono che la fede influenzi i propri comportamenti” (60); mentre “solo quando la fede permea ogni aspetto della vita, i cristiani diventano davvero aperti alla potenza trasformatrice del Vangelo” (61).
Vi è uno specifico secolarismo americano che percorre tutta la storia degli Stati Uniti d’America e gioca la tradizione individualistica contro la capacità della fede di farsi cultura. “Forse il tipo di secolarismo dell’America pone un problema particolare: mentre permette di credere in Dio e rispetta il ruolo pubblico della religione e delle Chiese, sottilmente tuttavia riduce la credenza religiosa al minimo comune denominatore. La fede diviene accettazione passiva che certe cose “là fuori” sono vere, ma senza rilevanza pratica per la vita quotidiana. Il risultato è una crescente separazione della fede dalla vita: il vivere “come se Dio non esistesse”. Ciò è aggravato da un approccio individualistico ed eclettico alla fede e alla religione” (62).
La fede non può rimanere estranea al dibattito pubblico, tanto più in un momento in cui i valori non negoziabili in tema di vita, di famiglia e di educazione — tante volte indicati come prioritari da Papa Benedetto XVI — sono messi in pericolo. “Negli Stati Uniti, come altrove, vi sono attualmente molte leggi già in vigore o in discussione che suscitano preoccupazione dal punto di vista della moralità” (63). I vescovi sono pertanto “[…] chiamati anche a partecipare allo scambio di idee nella pubblica arena, per aiutare a modellare atteggiamenti culturali adeguati” (64), tanto più che “[…] non si deve dare per scontato che tutti i cittadini cattolici pensino secondo l’insegnamento della Chiesa circa le questioni etiche fondamentali di oggi” (65).
Né il problema si limita alle leggi: si estende al costume. Per esempio, “come non essere sconcertati nell’osservare il rapido declino della famiglia quale elemento basilare della Chiesa e della società? Il divorzio e l’infedeltà sono in aumento, e molti giovani uomini e donne scelgono di ritardare il matrimonio o addirittura di ignorarlo completamente. Per alcuni giovani cattolici il vincolo sacramentale del matrimonio appare scarsamente distinguibile da un legame civile, o è percepito addirittura come un semplice accordo per vivere con un’altra persona in modo informale e senza stabilità. In conseguenza si vede un allarmante decremento di matrimoni cattolici negli Stati Uniti insieme ad un aumento di coabitazioni, nelle quali il reciproco donarsi degli sposi al modo di Cristo, mediante il sigillo di una pubblica promessa di vivere le esigenze di un impegno indissolubile per l’intera esistenza, è semplicemente assente. In tali circostanze viene negato ai figli l’ambiente sicuro di cui hanno bisogno per crescere come esseri umani, e vengono pure negati alla società quegli stabili pilastri che sono necessari, se si vuole mantenere la coesione e il centro morale della comunità” (66). Così, vengono meno con la cultura di morte dell’aborto le “[…] sole verità che possono garantire il rispetto della dignità e dei diritti di ogni uomo, donna e bambino nel mondo, compresi i più indifesi tra gli esseri umani, i bimbi non ancora nati nel grembo materno” (67).
In un Paese dove la tradizione dell’individualismo è spesso invocata da chi non gradisce la presenza dei credenti nella vita politica, Papa Benedetto XVI invita con chiarezza a “[…] superare ogni separazione tra fede e vita, opponendosi ai falsi vangeli di libertà e di felicità. Vuol dire inoltre respingere la falsa dicotomia tra fede e vita politica, poiché, come ha affermato il Concilio Vaticano II, “nessuna attività umana, neanche nelle cose temporali, può essere sottratta al dominio di Dio” (Lumen gentium, 36)” (68).
c. Tentativi di escludere la religione dalla vita pubblica
La tentazione dei credenti di separare la fede dalla cultura incontra il movimento, per così dire, reciproco del laicismo che cerca di escludere la religione dalla vita pubblica, lasciando spazio solo al relativismo. “La “dittatura del relativismo”, alla fin fine, non è nient’altro che una minaccia alla libertà umana, la quale matura soltanto nella generosità e nella fedeltà alla verità” (69).
Il nuovo laicismo si esprime come una sorta di divieto di porre la domanda sul fondamento ultimo da una parte della conoscenza, dall’altra della politica. Quanto alla conoscenza, “[…] l’ideologia secolaristica pone un cuneo tra verità e fede. Questa divisione ha portato alla tendenza di eguagliare verità e conoscenza e ad adottare una mentalità positivistica che, rigettando la metafisica, nega i fondamenti della fede e rigetta la necessità di una visione morale. Verità significa di più che conoscenza: conoscere la verità ci porta a scoprire il bene. La verità parla all’individuo nella sua interezza, invitandoci a rispondere con tutto il nostro essere” (70). Si tratta di questioni che coinvolgono il significato della conoscenza e il senso dell’educazione, e che non a caso Papa Benedetto XVI presenta nel contesto di un’accorata difesa del ruolo e dell’identità dell’università e della scuola cattoliche. “La missione della Chiesa, di fatto, la coinvolge nella lotta che l’umanità sostiene per raggiungere la verità. Nell’esprimere la verità rivelata essa serve tutti i membri della società purificando la ragione, assicurando che essa rimanga aperta alla considerazione delle verità ultime. Attingendo alla divina sapienza, essa getta luce sulla fondazione della moralità e dell’etica umana, e ricorda a tutti i gruppi nella società che non è la prassi a creare la verità ma è la verità che deve servire come base della prassi. Lungi dal minacciare la tolleranza della legittima diversità, un simile contributo illumina la verità stessa che rende raggiungibile il consenso, ed aiuta a mantenere ragionevole, onesto ed affidabile il pubblico dibattito. Similmente la Chiesa mai si stanca di sostenere le categorie morali essenziali del giusto e dell’ingiusto, senza le quali la speranza può solo appassire, aprendo la strada a freddi calcoli pragmatici utilitaristici che riducono la persona a poco più di una pedina su di un’ideale scacchiera” (71).
Quanto alla politica, il discorso alle Nazioni Unite ha suscitato qualche delusione in chi si aspettava che il Pontefice scendesse nel dettaglio della cronaca dei diritti umani, citando casi specifici come il Darfur, la Birmania o il Tibet. Ma in realtà l’intervento all’ONU di Papa Benedetto XVI vola più alto dei casi singoli e si preoccupa di qualche cosa di più importante: di come fondare i diritti umani e il bene comune dei popoli che l’ONU afferma di voler proteggere. Il Pontefice propone due fondamentali passaggi. Il primo fa riferimento al diritto naturale, senza il quale i diritti umani vengono meno: i “[…] diritti sono basati sulla legge naturale iscritta nel cuore dell’uomo e presente nelle diverse culture e civiltà. Rimuovere i diritti umani da questo contesto significherebbe restringere il loro ambito e cedere ad una concezione relativistica, secondo la quale il significato e l’interpretazione dei diritti potrebbero variare e la loro universalità verrebbe negata in nome di contesti culturali, politici, sociali e persino religiosi differenti. Non si deve tuttavia permettere che tale ampia varietà di punti di vista oscuri il fatto che non solo i diritti sono universali, ma lo è anche la persona umana, soggetto di questi diritti” (72). La legge naturale è uguale per tutti: per i cristiani come per i musulmani o gli atei.
Sostenere che i diritti umani trovano il loro fondamento nella legge naturale implica affermare con chiarezza che il richiamo alla giustizia procedurale e al consenso democratico non è sufficiente, e ultimamente vanifica il contenuto di questi diritti. “[…] il bene comune che i diritti umani aiutano a raggiungere non si può realizzare semplicemente con l’applicazione di procedure corrette e neppure mediante un semplice equilibrio fra diritti contrastanti” (73). “L’esperienza ci insegna che spesso la legalità prevale sulla giustizia quando l’insistenza sui diritti umani li fa apparire come l’esclusivo risultato di provvedimenti legislativi o di decisioni normative prese dalle varie agenzie di coloro che sono al potere. Quando vengono presentati semplicemente in termini di legalità, i diritti rischiano di diventare deboli proposizioni staccate dalla dimensione etica e razionale, che è il loro fondamento e scopo. […]. Tale aspetto viene spesso disatteso quando si tenta di privare i diritti della loro vera funzione in nome di una gretta prospettiva utilitaristica” (74).
Proprio questo carattere universale dei diritti umani — non relativistico, non contingente, non variabile a seconda della geografia, della storia e dei contesti religiosi, non legato a votazioni di qualche assemblea ma alla natura umana — permette a Papa Benedetto XVI di risolvere la delicata questione del diritto d’ingerenza cosiddetta umanitaria della comunità internazionale negli affari interni di Paesi che non tutelano i diritti umani dei loro cittadini, una questione la cui soluzione di principio deve ovviamente precedere qualunque esame dei casi concreti che qualcuno avrebbe voluto vedere affrontati dal Papa a New York. “Nei dibattiti interni delle Nazioni Unite viene data una crescente importanza alla “responsabilità di proteggere”. Di fatto, questa comincia ad essere riconosciuta come la base morale per il diritto di un governo ad esercitare l’autorità. È anche una caratteristica che per natura appartiene alla famiglia, dove i membri più forti si prendono cura di quelli più deboli. Questa Organizzazione, sorvegliando in quale misura i governi corrispondano alla loro responsabilità di proteggere i loro cittadini, esercita un servizio importante in nome della comunità internazionale” (75). “Ogni Stato ha il dovere primario di proteggere la propria popolazione da violazioni gravi e continue dei diritti umani, come pure dalle conseguenze delle crisi umanitarie, provocate sia dalla natura che dall’uomo. Se gli Stati non sono in grado di garantire simile protezione, la comunità internazionale deve intervenire con i mezzi giuridici previsti dalla Carta delle Nazioni Unite e da altri strumenti internazionali. L’azione della comunità internazionale e delle sue istituzioni, supposto il rispetto dei principi che sono alla base dell’ordine internazionale, non deve mai essere interpretata come un’imposizione indesiderata e una limitazione di sovranità. Al contrario, è [sic] l’indifferenza o la mancanza di intervento che recano danno reale” (76).
In secondo luogo, e si tratta di un tema sia delicato sia caratteristico di tutto il magistero di Papa Benedetto XVI, il Pontefice afferma insieme da una parte che i diritti umani, in quanto fondati sulla legge naturale, s’impongono a tutti gli uomini, credenti o non credenti, per il solo fatto di essere uomini e di condividere la stessa natura umana, dall’altra che il vero fondamento ultimo di questi diritti è di carattere religioso in quanto la legge di natura è parte del progetto creatore di Dio. Fra le due tesi non vi è in realtà nessuna contraddizione. Il non credente può e deve riconoscere la legge naturale sulla base della sola ragione. Ma le istituzioni internazionali, se vietano ai credenti di mettere in luce come i diritti umani trovino il loro fondamento ultimo in Dio, si privano del più forte sostegno per questi diritti proprio nel momento in cui la loro universalità è da più parti negata. I diritti umani “[…] si applicano ad ognuno in virtù della comune origine della persona, la quale rimane il punto più alto del disegno creatore di Dio per il mondo e per la storia” (77). Ed è comunque paradossale — mentre si concede diritto di cittadinanza a ogni ideologia — negare il loro ruolo nel dibattito sui diritti soltanto alle religioni. È questa una forma di violazione della libertà religiosa, che non è soltanto libertà di culto ma è anche libertà dei credenti di offrire la loro fede come fondamento dei princìpi morali che reggono la società. “È […] inconcepibile che dei credenti debbano sopprimere una parte di se stessi — la loro fede — per essere cittadini attivi; non dovrebbe mai essere necessario rinnegare Dio per poter godere dei propri diritti. I diritti collegati con la religione sono quanto mai bisognosi di essere protetti se vengono considerati in conflitto con l’ideologia secolare prevalente o con posizioni di una maggioranza religiosa di natura esclusiva. Non si può limitare la piena garanzia della libertà religiosa al libero esercizio del culto; al contrario, deve esser tenuta in giusta considerazione la dimensione pubblica della religione e quindi la possibilità dei credenti di fare la loro parte nella costruzione dell’ordine sociale. […]. Il rifiuto di riconoscere il contributo alla società che è radicato nella dimensione religiosa e nella ricerca dell’Assoluto — per sua stessa natura, espressione della comunione fra persone — privilegerebbe indubbiamente un approccio individualistico e frammenterebbe l’unità della persona” (78).
4. Per tornare alle radici religiose dell’America
Come si è visto, il giudizio positivo sull’esperimento americano non ne trascura le ombre, presenti almeno sotto forma di ambiguità fin dalle sue origini storiche. L’individualismo, che fa parte integrante dell’esperienza americana, rischia di manifestarsi in tutti gli ambiti della vita religiosa e sociale come privatizzazione, con conseguente separazione fra fede e vita, fra fede e cultura, fra fede e società.
La consapevolezza di come la storia americana consista di ombre e luci è la premessa perché l’aspetto “fondamentale e positivo” dell’ethos americano possa essere riaffermato attraverso un’azione che il Pontefice definisce esplicitamente come apologetica: “[…] il secolarismo sfida la Chiesa a riaffermare e a perseguire ancor più attivamente la sua missione nel e al mondo. Come è stato reso chiaro dal Concilio, i laici a questo riguardo hanno una responsabilità particolare. Sono convinto che ciò di cui vi è bisogno sia un maggior senso del rapporto intrinseco fra il Vangelo e la legge naturale da una parte, e il perseguimento dall’altra dell’autentico bene umano, come viene incarnato nella legge civile e nelle decisioni morali personali. In una società che giustamente tiene in alta considerazione la libertà personale, la Chiesa deve promuovere ad ogni livello i suoi insegnamenti — nella catechesi, nella predicazione, nell’istruzione seminaristica ed universitaria — un’apologetica tesa ad affermare la verità della rivelazione cristiana, l’armonia tra fede e ragione, ed una sana comprensione della libertà, vista in termini positivi come liberazione sia dalle limitazioni del peccato che per una vita autentica e piena. In una parola, il Vangelo dev’esser predicato ed insegnato come un modo di vita integrale, che offre una risposta attraente e veritiera, intellettualmente e praticamente, ai problemi umani reali” (79).
In particolare Papa Benedetto XVI richiama tre ambiti. Il primo è il ricupero di una profonda dimensione di preghiera e di una prassi sacramentale conforme alle regole della Chiesa quanto in particolare alla penitenza. “La forza liberatrice di questo Sacramento, nel quale la nostra sincera confessione del peccato incontra la parola misericordiosa di perdono e di pace da parte di Dio, ha bisogno di essere riscoperta e fatta propria da ogni cattolico. In gran parte il rinnovamento della Chiesa in America e nel mondo dipende dal rinnovamento della prassi della penitenza e dalla crescita nella santità: ambedue vengono ispirate e realizzate da questo Sacramento” (80).
Il secondo è l’ambito dell’educazione. Nel valorizzare il vasto tessuto di scuole e università cattoliche presenti negli Stati Uniti d’America, frequentate da oltre tre milioni di studenti, il Papa rileva però che queste hanno un senso e un significato solo se mantengono la loro specificità cattolica. “La stessa dinamica di identità comunitaria — a chi io appartengo? — vivifica l’ethos delle nostre istituzioni cattoliche. L’identità di un’Università o di una Scuola cattolica non è semplicemente una questione di numero di studenti cattolici. È una questione di convinzione — crediamo noi veramente che solo nel mistero del Verbo fatto carne diventa veramente chiaro il mistero dell’uomo (cfr Gaudium et spes, 22)? Siamo noi veramente pronti ad affidare il nostro intero io — intelletto e volontà, mente e cuore — a Dio? Accettiamo noi la verità che Cristo rivela? Nelle nostre università e scuole la fede è “tangibile”? Le viene data fervida espressione nella liturgia, nei sacramenti, mediante la preghiera, gli atti di carità, la sollecitudine per la giustizia e il rispetto per la creazione di Dio? Solo in questo modo noi rendiamo realmente testimonianza sul senso di chi noi siamo e di ciò che noi sosteniamo” (81).
Se la scuola cattolica non è cattolica, non può che patire una crisi d’identità: “Alcuni pongono oggi in questione l’impegno della Chiesa nell’educazione, chiedendosi se le sue risorse non potrebbero essere meglio impiegate altrove” (82). Non è il punto di vista del Papa, che rivolge invece “[…] uno speciale appello ai religiosi, alle religiose ed ai sacerdoti: non abbandonate l’apostolato scolastico; anzi, rinnovate la vostra dedizione alle scuole” (83). Ma alla condizione che “[…] gli insegnanti abbiano una chiara e precisa comprensione della specifica natura e del ruolo dell’educazione cattolica” (84).
Il terzo aspetto sottolineato dal Papa è il ricupero del senso dello stupore di fronte alla grazia, e del senso della bellezza. “A volte siamo considerati persone che parlano soltanto di proibizioni. Niente potrebbe essere più lontano dalla verità! Un autentico discepolato cristiano è caratterizzato dal senso dello stupore. Stiamo davanti a quel Dio che conosciamo e amiamo come un amico, davanti alla vastità della sua creazione e alla bellezza della nostra fede cristiana” (85). Uno dei rischi che corre la società americana — e che fa correre al mondo, dal momento che gli Stati Uniti d’America sono il maggiore produttore di una cultura popolare esportata ovunque attraverso la letteratura, la televisione e il cinema — è costituito dall’“involgarimento nelle relazioni sociali” (86). Contro questo rischio, consapevole che si tratta di remare controcorrente rispetto alla mentalità dominante, Papa Benedetto XVI ricorda che vi è una bellezza nell’autorità, nell’ordine, nella gerarchia. “”Autorità”… “obbedienza”. Ad essere franchi, queste non sono parole facili da pronunciare oggi. Parole come queste rappresentano una “pietra d’inciampo” per molti nostri contemporanei, specie in una società che giustamente dà grande valore alla libertà personale. Eppure, alla luce della nostra fede in Gesù Cristo — “la via, la verità e la vita” — arriviamo a vedere il senso più pieno, il valore e addirittura la bellezza, di tali parole” (87).
In questo senso è più di una mera curiosità l’appassionata difesa dell’architettura neo-gotica della cattedrale di Saint Patrick a New York, un’architettura che si ripresenta in tante cattedrali e chiese degli Stati Uniti d’America e che spesso si tende a svalutare come mera imitazione del Medioevo separata dalle tendenze principali dell’arte moderna. Anzitutto, nota Papa Benedetto XVI, “come tutte le cattedrali gotiche, essa è una struttura molto complessa, le cui proporzioni precise ed armoniose simboleggiano l’unità della creazione di Dio. Gli artisti medievali spesso rappresentavano Cristo, la Parola creatrice di Dio, come un “geometra” celeste, col compasso in mano, che ordina il cosmo con infinita sapienza e determinazione. Una simile immagine non ci fa forse venire in mente il nostro bisogno di vedere tutte le cose con gli occhi della fede, per poterle in questo modo comprendere nella loro prospettiva più vera, nell’unità del piano eterno di Dio?” (88). In secondo luogo, “[…] le finestre con vetrate istoriate […] inondano l’ambiente interno di una luce mistica. Viste da fuori, tali finestre appaiono scure, pesanti, addirittura tetre. Ma quando si entra nella chiesa, esse all’improvviso prendono vita; riflettendo la luce che le attraversa rivelano tutto il loro splendore. Molti scrittori — qui in America possiamo pensare a[l narratore romantico] Nathaniel Hawthorne [1804-1864] — hanno usato l’immagine dei vetri istoriati per illustrare il mistero della Chiesa stessa. È solo dal di dentro, dall’esperienza di fede e di vita ecclesiale che vediamo la Chiesa così come è veramente: inondata di grazia, splendente di bellezza, adorna dei molteplici doni dello Spirito” (89).
Molti hanno notato il fascino che tutto quanto è medioevale esercita sull’opinione pubblica degli Stati Uniti d’America. Il dibattito su questo fascino riproduce, in fondo, quello sulle origini degli Stati Uniti d’America. Per chi pensa che gli Stati Uniti d’America siano una nazione che nasce da una profonda esperienza religiosa, la passione per il Medioevo, se non ha sempre prodotto opere d’arte di particolare valore, manifesta però la volontà di ricollegarsi alle radici cristiane più antiche, quelle europee. Chi invece, per ragioni ideologiche, vuole vedere nell’esperienza americana delle origini solo l’individualismo e il razionalismo denuncerà questo gusto statunitense come kitsch o anacronismo, sulla scia di A Connecticut Yankee in King Arthur’s Court (90), il romanzo satirico profondamente anti-medioevale di un cantore dell’ethos americano nella sua presunta versione non religiosa e anticlericale, Mark Twain, pseudonimo di Samuel Langhorne Clemens (1835-1910). Quando si accosta l’aggettivo “americano” al sostantivo “gotico” viene in mente anche quello che molti considerano il quadro “nazionale” degli Stati Uniti d’America, American Gothic, dipinto nel 1930 da Grant Wood (1891-1942). Il quadro è stato ammesso nel canone “politicamente corretto” dell’arte americana sostenendo che Wood volesse denunciare il carattere malinconico e ipocrita del “Medioevo” in cui ancora vivevano i contadini degli Stati Uniti d’America del suo tempo, mentre è assai più probabile che l’artista considerasse quegli stessi contadini come portatori di valori apprezzabili e positivi (91).
La scelta per Saint Patrick del “puro stile gotico” (92) da parte dell’arcivescovo John Hughes (1797-1864) non fu, secondo Papa Benedetto XVI, casuale. L’arcivescovo “voleva che questa cattedrale ricordasse alla giovane Chiesa in America la grande tradizione spirituale di cui era erede” (93). La scelta neogotica mirava precisamente a sottolineare la continuità fra la storia cristiana della giovane nazione americana e quella secolare dell’Europa. Papa Benedetto XVI — intervenendo sulla questione del gusto medioevalista e neogotico nella cultura americana — certamente non si pone dal punto di vista del critico d’arte, ma sceglie piuttosto di valorizzarne la dimensione spirituale, e l’aspirazione soggiacente a inserirsi nella “grande” storia della Cristianità Occidentale. Anche il neogotico e la presenza del fascino per il Medioevo nella popular culture americana richiamano il concetto di Magna Europa. E l’accostamento singolarmente favorevole del Pontefice a questo gusto, pure controverso, ribadisce il giudizio positivo — che non ignora le ombre, ma sceglie anzitutto di valorizzare le luci — su una nazione, sulle sue origini e su una sostanziale continuità con l’Europa cristiana che pretestuose riletture ideologiche della storia vorrebbero oggi ostinatamente negare.
Massimo Introvigne
Note
(1) Cfr. Alexis de Tocqueville, De la Démocratie en Amérique, 2 voll. in 4 tomi, C. Gosselin, Parigi (trad. it., La democrazia in America, a cura di Nicola Matteucci [1926-2006], UTET, Torino 2007); cfr. pure Frédéric Le Play (1806-1882), La Réforme sociale en France déduite de l’observation comparée des peuples européens, 7a ed. in tre tomi, tomo primo, La religion, la propriété, la famille, cap. 12, Alfred Mame et Fils-Dentu, Libraire, Tours-Parigi 1887, pp. 168-182 (trad. it., La religione negli Stati Uniti d’America: libertà e uguaglianza dei culti fondate sulla fede e sulla tolleranza, in Cristianità, anno XXIX, n. 307, Piacenza settembre-ottobre 2001, pp. 19-24).
(2) Cfr. Benedetto XVI, Discorso ai Cardinali, agli Arcivescovi, ai Vescovi e ai Prelati della Curia Romana per la presentazione degli auguri natalizi, del 22-12-2005, in Insegnamenti di Benedetto XVI, I, pp. 1018-1032.
(3) Cfr. Idem, Enciclica “Spe salvi” sulla speranza cristiana, del 30-11-2007.
(4) Cfr. Idem, Discorso ai Cardinali, agli Arcivescovi, ai Vescovi e ai Prelati della Curia Romana per la presentazione degli auguri natalizi, cit.
(5) Cfr. Jon Meacham, American Gospel. God, the Founding Fathers, and the Making of a Nation, Random House, New York 2006.
(6) Danièle Hervieu-Léger, La Religion en miettes ou la question des sectes, Calmann-Lévy, Parigi 2001, p. 31.
(7) Ibidem.
(8) Cfr. Giovanni Cantoni e Francesco Pappalardo (a cura di), Magna Europa. L’Europa fuori dall’Europa, D’Ettoris, Crotone 2007, soprattutto G. Cantoni, Magna Europa. Dal “concetto” al “percetto” in una “pre-visione” imperiale, ibid., pp. 9-30.
(9) Cfr. Catherine Albanese, Nature Religion in America. From The Algonkian Indians to the New Age, University of Chicago Press, Chicago-Londra 1990.
(10) Cfr. Harold Bloom, The American Religion. The Emergence of The Post-Christian Nation, Simon & Schuster, New York 1992 (trad. it., La religione americana. L’avvento della nazione post-cristiana, Garzanti, Milano 1994).
(11) Cfr. Il mistero dei Templari (National Treasure) (USA, 2004). Regista: Jon Turteltaub. Interpreti principali: Nicolas Cage, Diane Kruger, Justin Bartha, Sean Bean, Jon Voight.
(12) Cfr. David L. Holmes, The Faiths of the Founding Fathers, Oxford University Press, New York 2006.
(13) Cfr. Peter Ludwig Berger, The Sacred Canopy. Elements of a Sociological Theory of Religion, Doubleday, Garden City (New Jersey) 1967 (trad. it., La sacra volta. Elementi per una teoria sociologica della religione, Sugarco, Milano 1984).
(14) Cfr. ibidem.
(15) Cfr. Rodney Stark e Massimo Introvigne, Dio è tornato. Indagine sulla rivincita delle religioni in Occidente, Piemme, Casale Monferrato (Alessandria) 2003.
(16) Cfr. P. L. Berger (a cura di), The Desecularization of the World. Resurgent Religion and World Politics, Eerdmans, Grand Rapids (Michigan) 1999; annunciato con un coraggioso senso autocritico da Idem, Secularism in Retreat, in The National Interest, n. 46, Washington D. C. inverno 1996, pp. 3-12; e Epistemological Modesty. An Interview With Peter Berger, in The Christian Century, vol. 114, n. 30, Chicago 29-10-1997, pp. 972-978.
(17) Benedetto XVI, enciclica cit., n. 5.
(18) Ibidem.
(19) Ibidem.
(20) Idem, Colloquio con i giornalisti durante il volo verso Washington, del 15-4-2008, in L’Osservatore Romano. Giornale quotidiano politico religioso, Città del Vaticano 17-4-2008.
(21) Idem, Risposte alle domande rivoltegli dai vescovi degli Stati Uniti alla fine dell’incontro a Washington, del 16-4-2008, ibid. 18-4-2008.
(22) Idem, Discorso durante l’incontro interreligioso nella “Sala Rotunda” del Pope John Paul II Cultural Center di Washington, del 17-4-2008, ibid. 19-4-2008.
(23) Idem, Discorso durante la visita al presidente Bush presso il South Lawn della Casa Bianca a Washington, del 16-4-2008, ibid. 18-4-2008.
(24) Idem, Omelia durante la Santa Messa nello Yankee Stadium di New York, del 20-4-2008, ibid. 21/22-4-2008.
(25) Idem, Discorso ai vescovi degli Stati Uniti dopo la celebrazione dei Vespri nel Santuario Nazionale dell’Immacolata Concezione a Washington, del 16-4-2008, ibid. 18-4-2008.
(26) Ibidem.
(27) Idem, Colloquio con i giornalisti durante il volo verso Washington, cit.
(28) Idem, Discorso ai vescovi degli Stati Uniti dopo la celebrazione dei Vespri nel Santuario Nazionale dell’Immacolata Concezione a Washington, cit.
(29) Idem, Discorso durante la visita al presidente Bush presso il South Lawn della Casa Bianca a Washington, cit.
(30) Ibidem.
(31) Cfr. G. Cantoni, Nota a proposito della libertà religiosa, in Idem e M. Introvigne, Libertà religiosa, “sette” e “diritto di persecuzione”. Con appendici, Cristianità, Piacenza 1995, pp. 7-58.
(32) Benedetto XVI, Discorso all’incontro ecumenico nella chiesa di St. Joseph a New York, del 18-4-2008, in L’Osservatore Romano. Giornale quotidiano politico religioso, Città del Vaticano 20-4-2008.
(33) Ibidem.
(34) Idem, Discorso durante l’Incontro interreligioso nella “Sala Rotunda” del Pope John Paul II Cultural Center di Washington, cit.
(36) Ibidem.
(37) Idem, Discorso ai vescovi degli Stati Uniti dopo la celebrazione dei Vespri nel Santuario Nazionale dell’Immacolata Concezione a Washington, cit.
(38) Idem, Risposte alle domande rivoltegli dai vescovi degli Stati Uniti alla fine dell’incontro a Washington, cit.
(39) Idem, Incontro con la comunità della Catholic University of America a Washington, del 17-4-2008, in L’Osservatore Romano. Giornale quotidiano politico religioso, Città del Vaticano 19-4-2008.
(40) Ibidem.
(41) Ibidem.
(42) Idem, Incontro con i giovani e i seminaristi al seminario arcidiocesano a Yonkers, New York, del 19-4-2008, ibid. 21/22-4-2008.
(43) Idem, Discorso durante la visita al presidente Bush presso il South Lawn della Casa Bianca a Washington, cit.
(44) Ibidem.
(45) Idem, Omelia durante la Messa votiva per la Chiesa universale nella Cattedrale di Saint Patrick a New York, del 19-4-2008, ibid. 21/22-4-2008.
(46) Idem, Risposte alle domande rivoltegli dai vescovi degli Stati Uniti alla fine dell’incontro a Washington, cit.
(47) Ibidem.
(48) Idem, Omelia durante la Santa Messa nel Nationals Stadium di Washington, cit.
(49) Idem, Incontro con la comunità della Catholic University of America a Washington, cit.
(50) Idem, Colloquio con i giornalisti durante il volo verso Washington, cit.
(51) Idem, Discorso ai vescovi degli Stati Uniti dopo la celebrazione dei Vespri nel Santuario Nazionale dell’Immacolata Concezione a Washington, cit.
(52) Ibidem.
(53) Ibidem.
(54) Ibidem.
(55) Ibidem.
(56) Idem, Colloquio con i giornalisti durante il volo verso Washington, cit.
(57) Idem, Discorso ai vescovi degli Stati Uniti dopo la celebrazione dei Vespri nel Santuario Nazionale dell’Immacolata Concezione a Washington, cit.
(58) Ibidem.
(59) Ibidem.
(60) Ibidem.
(61) Ibidem.
(62) Idem, Risposte alle domande rivoltegli dai vescovi degli Stati Uniti alla fine dell’incontro a Washington, cit.
(63) Idem, Discorso ai vescovi degli Stati Uniti dopo la celebrazione dei Vespri nel Santuario Nazionale dell’Immacolata Concezione a Washington, cit.
(64) Ibidem.
(65) Ibidem.
(66) Ibidem.
(67) Idem, Omelia durante la Santa Messa nello Yankee Stadium di New York, cit.
(68) Ibidem.
(69) Idem, Risposte alle domande rivoltegli dai vescovi degli Stati Uniti alla fine dell’incontro a Washington, cit.
(70) Idem, Incontro con la comunità della Catholic University of America a Washington, cit.
(71) Ibidem.
(72) Idem, Incontro con i membri dell’Assemblea Generale dell’Organizzazione delle Nazioni Unite a New York, del 18-4-2008, in L’Osservatore Romano. Giornale quotidiano politico religioso, Città del Vaticano 20-4-2008.
(73) Ibidem.
(74) Ibidem.
(75) Idem, Incontro con il personale dell’Organizzazione delle Nazioni Unite a New York, del 18-4-2008, ibid. 20-4-2008.
(76) Idem, Incontro con i membri dell’Assemblea Generale dell’Organizzazione delle Nazioni Unite a New York, cit.
(77) Ibidem.
(78) Ibidem.
(79) Idem, Risposte alle domande rivoltegli dai vescovi degli Stati Uniti alla fine dell’incontro a Washington, cit.
(80) Idem, Omelia durante la Santa Messa nel Nationals Stadium di Washington, cit.
(81) Idem, Incontro con la comunità della Catholic University of America a Washington, cit.
(82) Ibidem.
(83) Ibidem.
(84) Ibidem.
(85) Idem, Incontro con i giovani e i seminaristi al seminario arcidiocesano a Yonkers, New York, cit.
(86) Idem, Omelia durante la Santa Messa nel Nationals Stadium di Washington, cit.
(87) Idem, Omelia durante la Santa Messa nello Yankee Stadium di New York, cit.
(88) Idem, Omelia durante la Messa votiva per la Chiesa universale nella Cattedrale di Saint Patrick a New York, cit.
(89) Ibidem.
(90) Cfr. Mark Twain, A Connecticut Yankee in King Arthur’s Court, Charles L. Webster & Co., New York 1889 (trad. it., Un americano alla corte di Re Artù, Istituto Geografico De Agostini, Novara 2003).
(91) Cfr. Steven Biel, American Gothic. A Life of America’s Most Famous Painting, W. W. Norton & Company, New York-Londra 2005.
(92) Benedetto XVI, Omelia durante la Messa votiva per la Chiesa universale nella Cattedrale di Saint Patrick a New York, cit.
(93) Ibidem.