Massimo Introvigne, Cristianità n. 353 (2009)
Caritas in veritate (1), la carità nella verità, è espressione che per Papa Benedetto XVI è sinonimo di dottrina sociale della Chiesa, di cui il Pontefice, utilizzando la crisi economica internazionale come “occasione di discernimento e di nuova progettualità” (n. 21) intende riaffermare la natura di parte integrante della concezione cristiana dell’uomo e della società, e di antidoto ai mali del nostro tempo. L’enciclica è dedicata principalmente — anche se non esclusivamente — alla problematica socio-economica, pur chiarendo che la dottrina sociale della Chiesa non si occupa solo di economia ma ha anche una dimensione socio-politica e una socio-culturale. Il testo affronta quattro grandi temi: la natura e il fondamento della dottrina sociale della Chiesa; il ricordo dell’enciclica di Papa Paolo VI (1963-1978) Populorum progressio (2), che Papa Benedetto XVI considera particolarmente importante come compendio della dottrina socio-economica del Concilio Ecumenico Vaticano II (1962-1965); una descrizione di quanto profondamente è cambiata l’economia negli oltre quarant’anni che ci separano da quel testo di Paolo VI; e infine una presentazione dei principali temi della dottrina socio-economica della Chiesa nel contesto di tali profondi mutamenti e della crisi economica in atto. Due elementi fondamentali tornano spesso nell’enciclica. Il primo è la nozione di “sviluppo integrale” (3) della Populorum progressio come obiettivo che la dottrina sociale della Chiesa indica all’economia. Il secondo è la minaccia costituita dalla tecnocrazia, nuovo stile di pensiero e di azione anticristiano che dopo la fine delle ideologie, sfruttando la globalizzazione, cerca di sostituirle.
1. La carità nella verità fondamento della dottrina sociale nella Chiesa
San Paolo invita a fare “la verità nella carità” (Ef. 4, 15), a temperare il rigore della presentazione della dottrina con la dolcezza dell’amore. Senza dimenticare l’ammonimento di San Paolo oggi — afferma Papa Benedetto XVI —, è necessario pensare anche, simmetricamente, a praticare “la carità nella verità” (n. 1). Di qui il titolo della sua enciclica, Caritas in veritate. Infatti, occorre essere consapevoli “[…] degli sviamenti e degli svuotamenti di senso a cui la carità è andata e va incontro, con il conseguente rischio di fraintenderla” (n. 2). Vi è un buonismo per cui “l’amore diventa un guscio vuoto, da riempire arbitrariamente. È il fatale rischio dell’amore in una cultura senza verità. Esso è preda delle emozioni e delle opinioni contingenti dei soggetti, una parola abusata e distorta fino a significare il contrario” (n. 3).
La colpa è del relativismo, del “contesto sociale e culturale che relativizza la verità” (n. 2): ma, “senza verità, la carità scivola nel sentimentalismo” (n. 3). Al contrario, solo “la verità libera la carità dalle strettoie di un emotivismo che la priva di contenuti relazionali e sociali, e di un fideismo che la priva di respiro umano ed universale” (ibidem). Solo “la verità, facendo uscire gli uomini dalle opinioni e dalle sensazioni soggettive, consente loro di portarsi al di là delle determinazioni culturali e storiche e di incontrarsi nella valutazione del valore e della sostanza delle cose” (n. 4). Mentre “un Cristianesimo di carità senza verità può venire facilmente scambiato per una riserva di buoni sentimenti, utili per la convivenza sociale, ma marginali” (ibidem).
La questione è essenziale per la Chiesa e per la sua dottrina sociale. La carità, infatti, è “la principale forza propulsiva per lo sviluppo di ogni persona e dell’umanità” (n. 1) ed è “la via maestra della dottrina sociale della Chiesa” (n. 2), che può essere definita come “caritas in veritate in re sociali” (n. 5). Ne consegue, anzitutto, che l’annuncio della verità, non meno del servizio caritativo ai poveri e ai bisognosi, è forma eminente di carità: “difendere la verità, proporla con umiltà e convinzione e testimoniarla nella vita sono pertanto forme esigenti e insostituibili di carità” (n. 1). “Senza verità si cade in una visione empiristica e scettica della vita, incapace di elevarsi sulla prassi, perché non interessata a cogliere i valori — talora nemmeno i significati — con cui giudicarla e orientarla” (n. 9).
Attingendo alla fede e alla ragione la dottrina sociale della Chiesa, carità nella verità in ambito sociale, propone “criteri orientativi dell’azione morale” (n. 6) fra cui due sono sottolineati da Papa Benedetto XVI: la giustizia — infatti “la carità eccede la giustizia […] ma non è mai senza la giustizia” (ibidem) — e il bene comune, il bene della pólis, così che politica è propriamente “[…] prendersi cura, da una parte, e avvalersi, dall’altra, di quel complesso di istituzioni che strutturano giuridicamente, civilmente, politicamente, culturalmente il vivere sociale che in tal modo prende forma di pólis, di città” (n. 7). Il dovere politico è per tutti: “ogni cristiano è chiamato a questa carità, nel modo della sua vocazione e secondo le sue possibilità d’incidenza nella pólis. È questa la via istituzionale — possiamo anche dire politica — della carità, non meno qualificata e incisiva di quanto lo sia la carità che incontra il prossimo direttamente, fuori delle mediazioni istituzionali della pólis” (ibidem).
L’orizzonte di quest’attività politica doverosa per il cristiano — e che, ovviamente, non si riduce all’azione dei partiti — è insieme altissimo ed entusiasmante: si tratta, infatti, di una vera “[…] testimonianza della carità divina che, operando nel tempo, prepara l’eterno. L’azione dell’uomo sulla terra, quando è ispirata e sostenuta dalla carità, contribuisce all’edificazione di quella universale città di Dio […], così da dare forma di unità e di pace alla città dell’uomo, e renderla in qualche misura anticipazione prefiguratrice della città senza barriere di Dio” (ibidem).
2. Paolo VI e l’enciclica Populorum progressio
È noto che la Caritas in veritate avrebbe dovuto originariamente essere pubblicata per celebrare il quarantesimo anniversario dell’enciclica Populorum progressio di Papa Paolo VI, del 1967, così come il servo di Dio Papa Giovanni Paolo II (1978-2005) ne aveva celebrato il ventennale, nel 1987, con l’enciclica Sollicitudo rei socialis (4). La crisi economica, di cui si è voluto tenere conto, ha poi ritardato la definitiva stesura e la pubblicazione dell’enciclica di Papa Benedetto XVI.
Quest’ultima propone sia una riflessione articolata sulla Populorum progressio, “la Rerum novarum dell’epoca contemporanea” (n. 8), sia un inventario delle principali modifiche sopravvenute, principalmente in campo socio-economico, negli oltre quarant’anni che ci separano dalla sua pubblicazione.
Quanto al primo aspetto, il Pontefice ricorda il suo reiterato insegnamento sull’interpretazione del Concilio Ecumenico Vaticano II, per cui “il corretto punto di vista, dunque, è quello della Tradizione della fede apostolica“ (ibid., n. 10). Questo criterio va applicato anche ai documenti di dottrina sociale, che vanno sempre letti “dentro la tradizione della dottrina sociale della Chiesa” (ibidem), “[…] patrimonio antico e nuovo, fuori del quale la Populorum progressio sarebbe un documento senza radici” (ibidem), una mera collezione di “dati sociologici” (ibidem). Certamente, la Populorum progressio è stata pubblicata subito dopo la conclusione del Concilio e le questioni della corretta ermeneutica di questa enciclica e del Vaticano II sono strettamente collegate. “Il legame tra la Populorum progressio e il Concilio Vaticano II non rappresenta una cesura tra il Magistero sociale di Papa Paolo VI e quello dei Pontefici suoi predecessori, dato che il Concilio costituisce un approfondimento di tale magistero nella continuità della vita della Chiesa. In questo senso, non contribuiscono a fare chiarezza certe astratte suddivisioni della dottrina sociale della Chiesa che applicano all’insegnamento sociale pontificio categorie ad esso estranee. Non ci sono due tipologie di dottrina sociale, una preconciliare e una postconciliare, diverse tra loro, ma un unico insegnamento, coerente e nello stesso tempo sempre nuovo. È giusto rilevare le peculiarità dell’una o dell’altra Enciclica, dell’insegnamento dell’uno o dell’altro Pontefice, mai però perdendo di vista la coerenza dell’intero corpus dottrinale” (n. 12) della dottrina sociale. Questa — fra l’altro — non inizia nell’epoca contemporanea: “la dottrina sociale è costruita sopra il fondamento trasmesso dagli Apostoli ai Padri della Chiesa e poi accolto e approfondito dai grandi Dottori cristiani” (ibidem).
Parallelamente, la Populorum progressio — secondo Papa Benedetto XVI — va obbligatoriamente letta nel contesto del corpus di documenti di Papa Paolo VI: “[…] è strettamente connessa con il magistero complessivo di Paolo VI“ (n. 13). Papa Montini, infatti, “[…] affrontò con fermezza importanti questioni etiche, senza cedere alle debolezze culturali del suo tempo” (ibidem). Così, non si può leggere la Populorum progressio senza tenere conto della lettera apostolica Octogesima adveniens (5), del 1971, e della sua messa in guardia contro le ideologie del XX secolo; dell’enciclica Humanae vitae (6), del 1968, che condanna l’uso dei mezzi artificiali di contraccezione — una questione che non si limita, secondo Papa Benedetto XVI, alla “morale meramente individuale” (n. 15), posti “i forti legami esistenti fra etica della vita ed etica sociale“ (ibidem), a proposito dei quali la Humanae vitae inaugura tutta una tradizione di “tematica magisteriale” (ibidem) —; o ancora dell’esortazione apostolica Evangelii nuntiandi (7), del 1975, dove il pontefice spiega che sempre “la dottrina sociale della Chiesa è annuncio e testimonianza di fede” (ibidem) e non si riduce a una mera offerta di soluzioni tecniche.
Al centro della Populorum progressio sta la nozione di sviluppo, che non è però a sua volta un semplice concetto economico. Al sostantivo “sviluppo” Papa Paolo VI unisce quasi sempre l’aggettivo “integrale”, per sottolineare che “l’autentico sviluppo dell’uomo riguarda unitariamente la totalità della persona in ogni sua dimensione” (n. 11), compresa la dimensione teologica e trascendente. “Senza la prospettiva di una vita eterna” (ibidem) lo sviluppo “rimane privo di respiro” (ibidem). “Chiuso dentro la storia, esso è esposto al rischio di ridursi al solo incremento dell’avere” (ibidem). Così come non è garantito dalla sola economia, così lo sviluppo integrale non può essere assicurato dalla sola politica: “[…] le istituzioni da sole non bastano, perché lo sviluppo umano integrale è anzitutto vocazione […]. Un tale sviluppo richiede, inoltre, una visione trascendente della persona, ha bisogno di Dio: senza di Lui lo sviluppo o viene negato o viene affidato unicamente alle mani dell’uomo, che cade nella presunzione dell’auto-salvezza e finisce per promuovere uno sviluppo disumanizzato” (ibidem). “Fu viva in Paolo VI la percezione dell’importanza delle strutture economiche e delle istituzioni, ma altrettanto chiara fu in lui la percezione della loro natura di strumenti della libertà umana” (n. 17).
Per Papa Paolo VI, lo sviluppo è essenzialmente una vocazione: e “dire che lo sviluppo è vocazione equivale a riconoscere, da una parte, che esso nasce da un appello trascendente e, dall’altra, che è incapace di darsi da sé il proprio significato ultimo” (n. 16). Qui, propriamente, sta per Papa Benedetto XVI “il cuore della Populorum progressio“ (ibidem): contro le ideologie del suo tempo, Paolo VI sottolinea che “la verità dello sviluppo consiste nella sua integralità” (n. 18), la quale “[…] riguarda dunque sia il piano naturale sia quello soprannaturale” (ibidem). “Quando Dio viene eclissato, la nostra capacità di riconoscere l’ordine naturale, lo scopo e il “bene” comincia a svanire” (ibidem).
3. Quarant’anni dopo. Com’è cambiata l’economia dopo la Populorum progressio
Che cosa è cambiato dalla Populorum progressio a oggi? Lo sviluppo, da un certo punto di vista, “[…] c’è stato e continua a essere un fattore positivo che ha tolto dalla miseria miliardi di persone” (n. 21). Ma è stato pure “gravato da distorsioni e drammatici problemi“ (ibidem), alcuni dei quali “nuovi rispetto a quelli affrontati dal Papa Paolo VI” (ibidem). Alcune speranze alquanto ottimistiche di Paolo VI, rileva Benedetto XVI, purtroppo non hanno trovato conferma nella storia: “è questo il caso della valutazione del processo di decolonizzazione” (n. 33), che non ha portato la libertà e la pace in cui sperava Papa Montini ma spesso nuove forme di oppressione e di corruzione, non solo per colpa dei Paesi ex-coloniali ma anche “per gravi irresponsabilità interne agli stessi Paesi resisi indipendenti” (ibidem).
La nozione di sottosviluppo — l’avversario che Papa Paolo VI si trovava davanti — è profondamente cambiata a causa della globalizzazione. Un fenomeno che Benedetto XVI invita a non demonizzare: “opporvisi ciecamente sarebbe un atteggiamento sbagliato, preconcetto, che finirebbe per ignorare un processo caratterizzato anche da aspetti positivi” (n. 42). La globalizzazione “[…] è stato il principale motore per l’uscita dal sottosviluppo di intere regioni e rappresenta di per sé una grande opportunità. Tuttavia, senza la guida della carità nella verità, questa spinta planetaria può concorrere a creare rischi di danni sconosciuti finora e di nuove divisioni nella famiglia umana” (n. 33). “La globalizzazione, a priori, non è né buona né cattiva. Sarà ciò che le persone ne faranno” (n. 42). “Talvolta nei riguardi della globalizzazione si notano atteggiamenti fatalistici, come se le dinamiche in atto fossero prodotte da anonime forze impersonali e da strutture indipendenti dalla volontà umana” (ibidem). Ma “se si legge deterministicamente la globalizzazione si perdono i criteri per valutarla ed orientarla” (ibidem). Il problema non è inveire contro la globalizzazione, ma “[…] correggerne le disfunzioni, anche gravi” (ibidem) e orientarla alla luce della morale, da cui comunque non è indipendente. Nel contesto della globalizzazione da un parte il sottosviluppo economico-sociale ha assunto nuove dimensioni; dall’altra i Paesi ricchi hanno talora esportato in quelli poveri un “sottosviluppo morale” (n. 29).
Quanto al sottosviluppo economico-sociale, “la linea di demarcazione tra Paesi ricchi e poveri non è più così netta” (n. 22): nei Paesi cosiddetti ricchi “[…] nuove categorie sociali si impoveriscono” (ibidem) e in quelli cosiddetti poveri la corruzione crea per alcune classi dirigenti disoneste “una sorta di supersviluppo dissipatore e consumistico” (ibidem). Anche la possibilità per lo Stato d’intervenire per indirizzare l’economia, cui “[…] la Populorum progressio assegnava ancora un compito centrale, anche se non esclusivo” (n. 24), oggi appare da qualche punto di vista poco “realistica” (ibidem), dal momento che “nella nostra epoca, lo Stato si trova nella situazione di dover far fronte alle limitazioni che alla sua sovranità frappone il nuovo contesto economico-commerciale e finanziario internazionale, contraddistinto anche da una crescente mobilità dei capitali finanziari e dei mezzi di produzione materiali ed immateriali” (ibidem). D’altro canto è forse prudente “[…] non proclamare troppo affrettatamente la fine dello Stato” (n. 41). Forse provvisoriamente, a causa della crisi economica, oggi anzi “[…] il suo ruolo sembra destinato a crescere” (ibidem), anche se — a differenza che all’epoca di Papa Paolo VI — siamo più consapevoli del fatto che la nozione di “[…] “autorità politica” ha un significato plurivalente“ (ibidem) e complesso, anche per l’emergere di “altri soggetti politici di natura culturale, sociale, territoriale o religiosa, accanto allo Stato” (ibidem).
La Populorum progressio confidava pure nei “sistemi di protezione e previdenza” (n. 25) e nel ruolo di vigilanza dei sindacati, che oggi però sono profondamente mutati, a fronte della “mobilità lavorativa“, della delocalizzazione e della flessibilità (ibidem), “un fenomeno importante, non privo di aspetti positivi perché capace di stimolare la produzione di nuova ricchezza” (ibidem). “Non c’è nemmeno motivo di negare che la delocalizzazione, quando comporta investimenti e formazione, possa fare del bene” (n. 40), quanto meno “alle popolazioni del Paese che la ospita” (ibidem). “Non è però lecito delocalizzare solo per godere di particolari condizioni di favore, o peggio per sfruttamento” (ibidem).
Flessibilità e delocalizzazione rischiano anche di creare forme nuove di disoccupazione, e di conseguenza “forme di instabilità psicologica, di difficoltà a costruire propri percorsi coerenti nell’esistenza, compreso anche quello verso il matrimonio” (n. 25). Combattere questi mali fa bene non solo alla giustizia ma anche all’economia. È la stessa “[…] scienza economica a dirci che una strutturale situazione di insicurezza genera atteggiamenti antiproduttivi e di spreco di risorse umane, in quanto il lavoratore tende ad adattarsi passivamente ai meccanismi automatici, anziché liberare creatività. Anche su questo punto c’è una convergenza tra scienza economica e valutazione morale. I costi umani sono sempre anche costi economici e le disfunzioni economiche comportano sempre anche costi umani” (n. 32).
Papa Benedetto XVI sottolinea anche il mutato ruolo delle organizzazioni sindacali, spesso “prevalentemente chiuse nella difesa degli interessi dei propri iscritti” (n. 64) ovvero tentate di esercitare un ruolo strettamente politico che non è loro proprio, mentre auspica che “[…] volgano lo sguardo anche verso i non iscritti” (ibidem), in particolare i disoccupati e coloro che la delocalizzazione lascia indietro. Anche gli enti previdenziali potrebbero tenere conto dei grandi mutamenti che sono sopravvenuti, non opponendosi a “sistemi di previdenza sociale maggiormente integrati, con la partecipazione attiva dei soggetti privati e della società civile” (n. 60). Questi enti potrebbero così eliminare “sprechi e rendite abusive” (ibidem), destinando eventualmente quanto risparmiato “alla solidarietà internazionale” (ibidem).
Quanto al “sottosviluppo morale”, il rischio è che i Paesi ricchi esportino nei Paesi poveri dove delocalizzano le loro produzioni “un eclettismo culturale assunto spesso acriticamente” (n. 26), in cui all’insegna del relativismo le culture sono “considerate come sostanzialmente equivalenti e tra loro interscambiabili” (ibidem), mentre per altro verso si genera pure il “[…] pericolo opposto, che è costituito dall’appiattimento culturale e dall’omologazione dei comportamenti e degli stili di vita” (ibidem).
Vi è anche di peggio: i Paesi più sviluppati cercano di esportare nei Paesi poveri “mentalità antinatalista” (n. 28), leggi sull’aborto — cui talora condizionano gli aiuti allo sviluppo — e diffusione massiccia di anticoncezionali. L’esportazione del sottosviluppo morale avviene anche attraverso un accostamento alla scuola e all’educazione che ignora i valori religiosi e morali e diffonde a piene mani il “relativismo” (n. 61). E perfino attraverso il turismo, che — anche volendo prescindere dai casi “perversi” (ibidem) del turismo sessuale — non di rado esporta nei Paesi poveri uno stile di vita “edonistico” (ibidem) e un vero e proprio “degrado morale” (ibidem).
Qualche volta i Paesi ricchi esportano anche un’autentica “promozione programmata dell’indifferenza religiosa o dell’ateismo” (n. 29), magari invocando la “lotta al terrorismo a sfondo fondamentalista” (ibidem) come pretesto per politiche ostili alla religione in genere.
Fondamentalismo e laicismo, in quanto compromettono un rapporto equilibrato fra fede e ragione, sono entrambi ostacoli allo sviluppo integrale. Tornando su temi cruciali e tipici del suo magistero, Benedetto XVI ribadisce che lo sviluppo integrale è possibile “[…] solo se Dio trova un posto anche nella sfera pubblica, con specifico riferimento alle dimensioni culturale, sociale, economica e, in particolare, politica. La dottrina sociale della Chiesa è nata per rivendicare questo “statuto di cittadinanza” della religione cristiana. La negazione del diritto a professare pubblicamente la propria religione e ad operare perché le verità della fede informino di sé anche la vita pubblica comporta conseguenze negative sul vero sviluppo” (n. 56). “Nel laicismo e nel fondamentalismo si perde la possibilità di un dialogo fecondo e di una proficua collaborazione tra la ragione e la fede religiosa. La ragione ha sempre bisogno di essere purificata dalla fede, e questo vale anche per la ragione politica, che non deve credersi onnipotente. A sua volta, la religione ha sempre bisogno di venire purificata dalla ragione per mostrare il suo autentico volto umano. La rottura di questo dialogo comporta un costo molto gravoso per lo sviluppo dell’umanità” (ibidem).
A coloro che cercano di diffondere l’ateismo nei Paesi più poveri Benedetto XVI ricorda che “se l’uomo fosse solo frutto o del caso o della necessità, oppure se dovesse ridurre le sue aspirazioni all’orizzonte ristretto delle situazioni in cui vive, se tutto fosse solo storia e cultura, e l’uomo non avesse una natura destinata a trascendersi in una vita soprannaturale, si potrebbe parlare di incremento o di evoluzione, ma non di sviluppo. Quando lo Stato promuove, insegna, o addirittura impone, forme di ateismo pratico, sottrae ai suoi cittadini la forza morale e spirituale indispensabile per impegnarsi nello sviluppo umano integrale” (n. 29).
4. La dottrina socio-economica della Chiesa oggi
a. La radice del problema: il peccato originale
Affrontare il problema dello sviluppo significa per Benedetto XVI andare alla radice dei problemi più volte richiamata nel suo magistero: il peccato originale. “La sapienza della Chiesa ha sempre proposto di tenere presente il peccato originale anche nell’interpretazione dei fatti sociali e nella costruzione della società” (n. 34).
Il peccato si manifesta oggi in una “pesante contraddizione” (n. 43) che la cultura dominante cerca d’imporre in tema di diritti. “Mentre, per un verso, si rivendicano presunti diritti, di carattere arbitrario e voluttuario, con la pretesa di vederli riconosciuti e promossi dalle strutture pubbliche, per l’altro verso, vi sono diritti elementari e fondamentali disconosciuti e violati” (ibidem). Dilaga “la rivendicazione del diritto al superfluo o addirittura alla trasgressione e al vizio” (ibidem); “[…] i diritti individuali, svincolati da un quadro di doveri che conferisca loro un senso compiuto, impazziscono e alimentano una spirale di richieste praticamente illimitata e priva di criteri. L’esasperazione dei diritti sfocia nella dimenticanza dei doveri” (ibidem). Ma, senza i doveri, i diritti “si trasformano in arbitrio“ (ibidem).
Il problema rimanda ultimamente alla questione del diritto naturale, che fonda diritti e doveri a prescindere sia dalle diverse culture — perché la “legge morale universale” (n. 59) vale per tutte le culture — sia dal loro riconoscimento da parte del voto di un Parlamento. “Se, invece, i diritti dell’uomo trovano il proprio fondamento solo nelle deliberazioni di un’assemblea di cittadini, essi possono essere cambiati in ogni momento e, quindi, il dovere di rispettarli e perseguirli si allenta nella coscienza comune” (n. 43).
Il peccato si manifesta oggi come orgoglio dell’autodeterminazione assoluta. Si dimentica che “nessuno plasma la propria coscienza arbitrariamente, ma tutti costruiscono il proprio “io” sulla base di un “sé” che ci è stato dato. Non solo le altre persone sono indisponibili, ma anche noi lo siamo a noi stessi. Lo sviluppo della persona si degrada, se essa pretende di essere l’unica produttrice di se stessa. Analogamente, lo sviluppo dei popoli degenera se l’umanità ritiene di potersi ri-creare avvalendosi dei “prodigi” della tecnologia. Così come lo sviluppo economico si rivela fittizio e dannoso se si affida ai “prodigi” della finanza per sostenere crescite innaturali e consumistiche. Davanti a questa pretesa prometeica, dobbiamo irrobustire l’amore per una libertà non arbitraria, ma resa veramente umana dal riconoscimento del bene che la precede. Occorre, a tal fine, che l’uomo rientri in se stesso per riconoscere le fondamentali norme della legge morale naturale che Dio ha inscritto nel suo cuore” (n. 68).
b. La tecnocrazia
La pretesa di autosufficienza dell’uomo si accompagna all’analoga pretesa di autosufficienza della tecnica che utilizza il “processo di globalizzazione” (n. 70) per “[…] sostituire le ideologie” (ibidem) e svolgere lo stesso ruolo negativo e si fa a sua volta “ideologia tecnocratica” (n. 14). Dalle ideologie si passa così alla tecnocrazia, l’“orizzonte culturale tecnocratico” (n. 70): “[…] la tecnica, divenuta essa stessa un potere ideologico, che esporrebbe l’umanità al rischio di trovarsi rinchiusa dentro un a priori dal quale non potrebbe uscire per incontrare l’essere e la verità” (ibidem). “L’assolutismo della tecnica tende a produrre un’incapacità di percepire ciò che non si spiega con la semplice materia” (n. 77) e finisce per atrofizzare una parte essenziale dell’umana capacità di conoscenza.
La tecnocrazia promette anche la pace, presentata a sua volta come “un prodotto tecnico” (n. 72) che dovrebbe prescindere dai valori e si rivela quindi un’illusione e un inganno. Strumento dell’inganno della tecnocrazia sono spesso i mezzi di comunicazione sociale. “Sembra davvero assurda la posizione di coloro che ne sostengono la neutralità, rivendicandone di conseguenza l’autonomia rispetto alla morale che tocca le persone. Spesso simili prospettive, che enfatizzano la natura strettamente tecnica dei media, favoriscono di fatto la loro subordinazione al calcolo economico, al proposito di dominare i mercati e, non ultimo, al desiderio di imporre parametri culturali funzionali a progetti di potere ideologico e politico” (n. 73). La libertà che protegge dalla tecnocrazia, invece, “[…] non consiste nell’ebbrezza di una totale autonomia, ma nella risposta all’appello dell’essere, a cominciare dall’essere che siamo noi stessi” (n. 70).
c. La bioetica, campo primario di scontro fra libertà e tecnocrazia
Potrebbe sembrare che un’enciclica sulla dottrina sociale non sia il luogo tipico dove ribadire l’insegnamento della Chiesa sulla bioetica. Ma in realtà — come, rileva Papa Benedetto XVI, Papa Paolo VI aveva profeticamente intuito con l’Humanae vitae — la bioetica è precisamente il campo dove la tecnocrazia rivela il suo volto minaccioso e disumano. “Campo primario e cruciale della lotta culturale tra l’assolutismo della tecnicità e la responsabilità morale dell’uomo è oggi quello della bioetica, in cui si gioca radicalmente la possibilità stessa di uno sviluppo umano integrale. Si tratta di un ambito delicatissimo e decisivo, in cui emerge con drammatica forza la questione fondamentale: se l’uomo si sia prodotto da se stesso o se egli dipenda da Dio. Le scoperte scientifiche in questo campo e le possibilità di intervento tecnico sembrano talmente avanzate da imporre la scelta tra le due razionalità: quella della ragione aperta alla trascendenza o quella della ragione chiusa nell’immanenza. Si è di fronte a un aut aut decisivo. La razionalità del fare tecnico centrato su se stesso si dimostra però irrazionale, perché comporta un rifiuto deciso del senso e del valore. […] Attratta dal puro fare tecnico, la ragione senza la fede è destinata a perdersi nell’illusione della propria onnipotenza“ (n. 74).
“Oggi occorre affermare che la questione sociale è diventata radicalmente questione antropologica, nel senso che essa implica il modo stesso non solo di concepire, ma anche di manipolare la vita, sempre più posta dalle biotecnologie nelle mani dell’uomo. La fecondazione in vitro, la ricerca sugli embrioni, la possibilità della clonazione e dell’ibridazione umana nascono e sono promosse nell’attuale cultura del disincanto totale, che crede di aver svelato ogni mistero, perché si è ormai arrivati alla radice della vita. Qui l’assolutismo della tecnica trova la sua massima espressione. In tale tipo di cultura la coscienza è solo chiamata a prendere atto di una mera possibilità tecnica. Non si possono tuttavia minimizzare gli scenari inquietanti per il futuro dell’uomo e i nuovi potenti strumenti che la “cultura della morte” ha a disposizione. Alla diffusa, tragica, piaga dell’aborto si potrebbe aggiungere in futuro, ma è già surrettiziamente in nuce, una sistematica pianificazione eugenetica delle nascite. Sul versante opposto, va facendosi strada una mens eutanasica, manifestazione non meno abusiva di dominio sulla vita, che in certe condizioni viene considerata non più degna di essere vissuta. Dietro questi scenari stanno posizioni culturali negatrici della dignità umana. Queste pratiche, a loro volta, sono destinate ad alimentare una concezione materiale e meccanicistica della vita umana. Chi potrà misurare gli effetti negativi di una simile mentalità sullo sviluppo? Come ci si potrà stupire dell’indifferenza per le situazioni umane di degrado, se l’indifferenza caratterizza perfino il nostro atteggiamento verso ciò che è umano e ciò che non lo è? Stupisce la selettività arbitraria di quanto oggi viene proposto come degno di rispetto. Pronti a scandalizzarsi per cose marginali, molti sembrano tollerare ingiustizie inaudite” (n. 75). “La legge naturale, nella quale risplende la Ragione creatrice, indica la grandezza dell’uomo, ma anche la sua miseria quando egli disconosce il richiamo della verità morale” (ibidem).
Il peccato si manifesta pure nella mentalità antinatalista, che — anche tramite un’impostazione gravemente erronea dell’educazione sessuale dei giovani — nega “i valori irrinunciabili della vita e della famiglia” (n. 44), e ha perfino indotto molti, benché la scienza economica lo neghi, a “considerare l’aumento della popolazione come causa prima del sottosviluppo” (ibidem). È piuttosto il contrario. “L’apertura moralmente responsabile alla vita è una ricchezza sociale ed economica. Grandi Nazioni hanno potuto uscire dalla miseria anche grazie al grande numero e alle capacità dei loro abitanti. Al contrario, Nazioni un tempo floride conoscono ora una fase di incertezza e in qualche caso di declino proprio a causa della denatalità, problema cruciale per le società di avanzato benessere. La diminuzione delle nascite, talvolta al di sotto del cosiddetto “indice di sostituzione”, mette in crisi anche i sistemi di assistenza sociale, ne aumenta i costi, contrae l’accantonamento di risparmio e di conseguenza le risorse finanziarie necessarie agli investimenti, riduce la disponibilità di lavoratori qualificati, restringe il bacino dei “cervelli” a cui attingere per le necessità della Nazione. Inoltre, le famiglie di piccola, e talvolta piccolissima, dimensione corrono il rischio di impoverire le relazioni sociali, e di non garantire forme efficaci di solidarietà. Sono situazioni che presentano sintomi di scarsa fiducia nel futuro come pure di stanchezza morale. Diventa così una necessità sociale, e perfino economica, proporre ancora alle nuove generazioni la bellezza della famiglia e del matrimonio, la rispondenza di tali istituzioni alle esigenze più profonde del cuore e della dignità della persona” (ibidem).
d. Mercato e finanza, fra luci e ombre
“All’elenco dei campi in cui si manifestano gli effetti perniciosi del peccato, si è aggiunto ormai da molto tempo anche quello dell’economia. Ne abbiamo una prova evidente anche in questi periodi. La convinzione di essere autosufficiente e di riuscire a eliminare il male presente nella storia solo con la propria azione ha indotto l’uomo a far coincidere la felicità e la salvezza con forme immanenti di benessere materiale e di azione sociale. La convinzione poi della esigenza di autonomia dell’economia, che non deve accettare “influenze” di carattere morale, ha spinto l’uomo ad abusare dello strumento economico in modo persino distruttivo” (n. 34). Ne sono nati sia i “[…] sistemi economici, sociali e politici che hanno conculcato la libertà della persona e dei corpi sociali e che, proprio per questo, non sono stati in grado di assicurare la giustizia che promettevano” (ibidem) — il Papa cita la sua enciclica Spe salvi (8), dove analizza in profondità il comunismo — sia l’attuale crisi economica.
Tuttavia il peccato non compromette l’economia in sé, né il mercato. “La Chiesa ritiene da sempre che l’agire economico non sia da considerare antisociale. […] La società non deve proteggersi dal mercato, come se lo sviluppo di quest’ultimo comportasse ipso facto la morte dei rapporti autenticamente umani. È certamente vero che il mercato può essere orientato in modo negativo, non perché sia questa la sua natura, ma perché una certa ideologia lo può indirizzare in tal senso. Non va dimenticato che il mercato non esiste allo stato puro. Esso trae forma dalle configurazioni culturali che lo specificano e lo orientano. Infatti, l’economia e la finanza, in quanto strumenti, possono esser mal utilizzati quando chi li gestisce ha solo riferimenti egoistici. Così si può riuscire a trasformare strumenti di per sé buoni in strumenti dannosi. Ma è la ragione oscurata dell’uomo a produrre queste conseguenze, non lo strumento di per sé stesso. Perciò non è lo strumento a dover essere chiamato in causa ma l’uomo, la sua coscienza morale e la sua responsabilità personale e sociale” (n. 36).
La finanza è di per sé uno strumento a sua volta legittimo, “finalizzato alla miglior produzione di ricchezza ed allo sviluppo” (n. 65). “Dopo il suo cattivo utilizzo che ha danneggiato l’economia reale” (ibidem), la finanza deve tornare a operare “al sostegno di un vero sviluppo” (ibidem). “Gli operatori della finanza devono riscoprire il fondamento propriamente etico della loro attività per non abusare di quegli strumenti sofisticati che possono servire per tradire i risparmiatori. Retta intenzione, trasparenza e ricerca dei buoni risultati sono compatibili e non devono mai essere disgiunti” (ibidem).
Dunque il mercato e anche la finanza sono “strumenti di per sé buoni” che le conseguenze del peccato originale trasformano in “strumenti dannosi”. Come rimontare rispetto a queste conseguenze del peccato? Come tornare alla prospettiva dello sviluppo integrale? Il mercato, per funzionare, non ha bisogno soltanto di regolari scambi di beni, ma di fiducia. “Il mercato, lasciato al solo principio dell’equivalenza di valore dei beni scambiati, non riesce a produrre quella coesione sociale di cui pure ha bisogno per ben funzionare. Senza forme interne di solidarietà e di fiducia reciproca, il mercato non può pienamente espletare la propria funzione economica. Ed oggi è questa fiducia che è venuta a mancare, e la perdita della fiducia è una perdita grave” (n. 35).
e. Una soluzione: dare spazio alla “logica del dono”
La domanda, quindi si sposta: come ristabilire la fiducia? La prospettiva assistenzialista che propone di “[…] correggere delle disfunzioni mediante l’assistenza” (ibidem) non è sufficiente. Tradizionalmente la morale cattolica distingue la giustizia in commutativa — che “[…] regola appunto i rapporti del dare e ricevere tra soggetti paritetici” — (ibidem), distributiva e sociale. Una visione tradizionale vedeva queste forme di giustizia come operanti in fasi diverse di una sequenza cronologica: “forse un tempo era pensabile affidare dapprima all’economia la produzione di ricchezza per affidare poi alla politica il compito di distribuirla” (n. 37). Di fronte all’enorme complessità dell’economia dei nostri giorni questo schema non può più funzionare. “I canoni della giustizia devono essere rispettati sin dall’inizio, mentre si svolge il processo economico, e non già dopo o lateralmente” (ibidem).
Anche l’enciclica Centesimus annus (9) di Papa Giovanni Paolo II, secondo Papa Benedetto XVI si riferisce in parte a un’economia che dopo vent’anni è cambiata. Papa Giovanni Paolo II distingueva tre soggetti dell’economia — il mercato, lo Stato e la società civile — e vedeva nella società civile “l’ambito più proprio di un’economia della gratuità” (n. 38), mentre la solidarietà era in buona parte “delegata allo Stato” (ibidem). Premesso che in campo economico a rigore “la Chiesa non ha soluzioni tecniche da offrire” (n. 9) e affida l’applicazione dei principi alla creatività e alla competenza dei laici cattolici, Papa Benedetto XVI prospetta una soluzione originale: la riscoperta della categoria del dono. “La logica del dono non esclude la giustizia e non si giustappone ad essa in un secondo momento dall’esterno” (n. 34). Quello che il Pontefice prospetta è un sistema dove “soggetti che liberamente scelgono di informare il proprio agire a principi diversi da quelli del puro profitto, senza per ciò stesso rinunciare a produrre valore economico” (n. 37) — spesso mossi da motivazioni religiose — non si sostituiscano alle imprese che operano a fini di lucro, di cui l’enciclica non auspica in nessun modo la sparizione, né allo Stato, che mantiene il suo ruolo di dettare regole e leggi, ma portino lo “spirito del dono” (ibidem) in tutte le fasi del processo economico.
In verità, la crisi economica sembra insegnare che “mentre ieri si poteva ritenere che prima bisognasse perseguire la giustizia e che la gratuità intervenisse dopo come un complemento, oggi bisogna dire che senza la gratuità non si riesce a realizzare nemmeno la giustizia. Serve, pertanto, un mercato nel quale possano liberamente operare, in condizioni di pari opportunità, imprese che perseguono fini istituzionali diversi. Accanto all’impresa privata orientata al profitto, e ai vari tipi di impresa pubblica, devono potersi radicare ed esprimere quelle organizzazioni produttive che perseguono fini mutualistici e sociali. È dal loro reciproco confronto sul mercato che ci si può attendere una sorta di ibridazione dei comportamenti d’impresa e dunque un’attenzione sensibile alla civilizzazione dell’economia. Carità nella verità, in questo caso, significa che bisogna dare forma e organizzazione a quelle iniziative economiche che, pur senza negare il profitto, intendono andare oltre la logica dello scambio degli equivalenti e del profitto fine a se stesso” (n. 38).
Il rischio, nota Papa Benedetto XVI, è che Stato e “logica mercantile” (n. 36) — cioè quella logica del mercato che è restia ad aprirsi all’etica — quasi si mettano d’accordo fra loro per escludere questo terzo tipo di attore dall’avventura dell’economia contemporanea. “Quando la logica del mercato e quella dello Stato si accordano tra loro per continuare nel monopolio dei rispettivi ambiti di influenza, alla lunga vengono meno la solidarietà nelle relazioni tra i cittadini, la partecipazione e l’adesione, l’agire gratuito, che sono altra cosa rispetto al “dare per avere”, proprio della logica dello scambio, e al “dare per dovere”, proprio della logica dei comportamenti pubblici, imposti per legge dallo Stato” (n. 39). Certo, “il mercato della gratuità non esiste e non si possono disporre per legge atteggiamenti gratuiti. Eppure sia il mercato sia la politica hanno bisogno di persone aperte al dono reciproco” (ibidem) e hanno il dovere almeno di non ostacolarle. Anche il fisco potrebbe fare la sua parte con l’“[…] applicazione efficace della cosiddetta sussidiarietà fiscale, che permetterebbe ai cittadini di decidere sulla destinazione di quote delle loro imposte versate allo Stato. Evitando degenerazioni particolaristiche, ciò può essere di aiuto per incentivare forme di solidarietà sociale dal basso, con ovvi benefici anche sul versante della solidarietà per lo sviluppo” (n. 60).
In questa originale prospettiva delineata da Papa Benedetto XVI la distinzione fra impresa profit e non profit non è rigida, anzi può darsi che oggi “[…] non sia più in grado di dar conto completo della realtà” (n. 46). Possono esserci casi d’imprese miste — che, per esempio, operano in una logica di profitto ma ne destinano quote importanti a fini sociali —, o di fondazioni o gruppi d’imprese disposte a “[…] concepire il profitto come uno strumento per raggiungere finalità di umanizzazione del mercato e della società” (ibidem). E sarebbe un fatto positivo “lo scambio e la formazione reciproca tra le diverse tipologie di imprenditorialità, con travaso di competenze dal mondo non profit a quello profit e viceversa, da quello pubblico a quello proprio della società civile, da quello delle economie avanzate a quello dei Paesi in via di sviluppo” (n. 41).
f. Etica dell’impresa, etica per l’impresa
Naturalmente, non è solo dai soggetti totalmente o parzialmente non profit che può attendersi un serio orientamento dell’economia allo sviluppo integrale e un’uscita dalla crisi. Dalla disciplina accademica in notevole sviluppo della business ethics Benedetto XVI riprende — pur senza usare questa terminologia — la distinzione nell’impresa a fini di lucro fra shareholder, “azionista”, e stakeholder, soggetto che pur non essendo azionista è portatore di un interesse (stake) rispetto all’attività dell’impresa: “portatori di interessi quali i lavoratori, i fornitori, i consumatori, l’ambiente naturale e la più ampia società circostante” (n. 40). “Negli ultimi anni si è notata la crescita di una classe cosmopolita di manager, che spesso rispondono solo alle indicazioni degli azionisti di riferimento costituiti in genere da fondi anonimi che stabiliscono di fatto i loro compensi” (ibidem). Il principio morale, però — del resto rispettato da molti manager capaci di una “analisi lungimirante” (ibidem), che il Papa valorizza con il richiamo a suoi precedenti interventi che invitano l’economia a privilegiare la programmazione a lungo termine rispetto alla smania di profitto a breve termine, così che sarebbe ingiusto generalizzare —, è che “[…] la gestione dell’impresa non può tenere conto degli interessi dei soli proprietari della stessa, ma deve anche farsi carico di tutte le altre categorie di soggetti che contribuiscono alla vita dell’impresa: i lavoratori, i clienti, i fornitori dei vari fattori di produzione, la comunità di riferimento” (ibidem). Mandare alla rovina i fornitori pagandoli con ritardi tali da farli fallire per accrescere i guadagni degli azionisti, per esempio, non è accettabile dal punto di vista etico.
Peraltro, le conclusioni della moderna business ethics “[…] non sono tutte accettabili secondo la prospettiva della dottrina sociale della Chiesa” (ibidem). Anzi, “si nota un certo abuso dell’aggettivo “etico” che, adoperato in modo generico, si presta a designare contenuti anche molto diversi, al punto da far passare sotto la sua copertura decisioni e scelte contrarie alla giustizia e al vero bene dell’uomo. Molto, infatti, dipende dal sistema morale di riferimento” (n. 45). Spesso sono presentati come prodotti “etici” quelli di aziende o organismi che fanno qualche offerta per la fame nel mondo ma poi propagandano la contraccezione o l’aborto. L’etichettatura di certi prodotti come “etici” è talora a sua volta ingannevole, e ben poco etica. “Bisogna, poi, non ricorrere alla parola “etica” in modo ideologicamente discriminatorio, lasciando intendere che non sarebbero etiche le iniziative che non si fregiassero formalmente di questa qualifica. Occorre adoperarsi — l’osservazione è qui essenziale! — non solamente perché nascano settori o segmenti “etici” dell’economia o della finanza, ma perché l’intera economia e l’intera finanza siano etiche e lo siano non per un’etichettatura dall’esterno, ma per il rispetto di esigenze intrinseche alla loro stessa natura” (ibidem).
Simili ambiguità si annidano nelle associazioni dei consumatori, “[…] fenomeno da approfondire, che contiene elementi positivi da incentivare e anche eccessi da evitare” (n. 66). Può capitare infatti che i consumatori “[…] vengano manipolati essi stessi da associazioni non veramente rappresentative” (ibidem).
g. Aiuti ai Paesi poveri e politica dell’emigrazione
Aiutare i Paesi poveri è, del resto, una questione complessa, dove abbondano inganni ed equivoci. Dovrebbe sempre essere applicato anche in questo campo il principio di sussidiarietà, “l’antidoto più efficace contro ogni forma di assistenzialismo paternalista” (n. 57), principio che dovrebbe presiedere anche al governo della globalizzazione e alle attività di una auspicata “autorità di politica mondiale” economica e finanziaria (n. 67). Nei Paesi poveri come in quelli cosiddetti ricchi “[…] la solidarietà senza la sussidiarietà scade nell’assistenzialismo che umilia il portatore di bisogno” (n. 58). E occorre un “monitoraggio dei risultati” (n. 47), che denunci con coraggio anche gli sprechi e le inefficienze. “Da questo punto di vista, gli stessi Organismi internazionali dovrebbero interrogarsi sulla reale efficacia dei loro apparati burocratici e amministrativi, spesso troppo costosi. Capita talvolta che chi è destinatario degli aiuti diventi funzionale a chi lo aiuta e che i poveri servano a mantenere in vita dispendiose organizzazioni burocratiche che riservano per la propria conservazione percentuali troppo elevate di quelle risorse che invece dovrebbero essere destinate allo sviluppo” (ibidem). Forme alternative come il microcredito e la microfinanza possono talora funzionare meglio. E alla generosità delle imprese dei Paesi ricchi il Papa fa appello perché prendano in considerazione la possibilità di rinunciare a “un utilizzo troppo rigido del diritto di proprietà intellettuale, specialmente nel campo sanitario” (n. 22): il riferimento è alle proposte che mirano a concedere gratuitamente in uso alcune categorie di brevetti, particolarmente farmaceutici, ad aziende dei Paesi più poveri, o anche a rinunciare del tutto in alcuni specifici Paesi alla protezione garantita da tali brevetti.
Si aiutano i Paesi poveri anche accogliendo i migranti? La questione, rileva Papa Benedetto XVI, è “di gestione complessa” (n. 62) e comporta “sfide drammatiche” (ibidem) che non consentono soluzioni sbrigative. “Siamo di fronte a un fenomeno sociale di natura epocale, che richiede una forte e lungimirante politica di cooperazione internazionale per essere adeguatamente affrontato. Tale politica va sviluppata a partire da una stretta collaborazione tra i Paesi da cui partono i migranti e i Paesi in cui arrivano; va accompagnata da adeguate normative internazionali in grado di armonizzare i diversi assetti legislativi, nella prospettiva di salvaguardare le esigenze e i diritti delle persone e delle famiglie emigrate e, al tempo stesso, quelli delle società di approdo degli stessi emigrati. Nessun Paese da solo può ritenersi in grado di far fronte ai problemi migratori del nostro tempo” (ibidem). I “diritti fondamentali inalienabili” (ibidem) della persona migrante debbono essere rispettati, così come le esigenze della “società di approdo”. “L’interesse principale” (n. 47) è “[…] il miglioramento delle situazioni di vita delle persone concrete di una certa regione, affinché possano assolvere a quei doveri che attualmente l’indigenza non consente loro di onorare” (ibidem) nel loro Paese di origine, senza essere costretti o indotti all’emigrazione.
h. Ecologia dell’ambiente e “ecologia umana”
Si sarà notato che fra gli stakeholder il Pontefice menziona “l’ambiente naturale” (n. 40). Il tema è da tempo parte delle riflessioni di Benedetto XVI. L’ambiente è definito come “[…] il meraviglioso risultato dell’intervento creativo di Dio, che l’uomo può responsabilmente utilizzare per soddisfare i suoi legittimi bisogni — materiali e immateriali — nel rispetto degli intrinseci equilibri del creato stesso” (n. 48). L’accento è posto sulla natura — e sull’uomo — come creazione di Dio, non semplice “frutto del caso o del determinismo evolutivo” (ibidem). “Se tale visione viene meno, l’uomo finisce o per considerare la natura un tabù intoccabile o, al contrario, per abusarne. Ambedue questi atteggiamenti non sono conformi alla visione cristiana della natura, frutto della creazione di Dio” (ibidem). Sono dunque condannati sia gli “atteggiamenti neopagani o di nuovo panteismo” (ibidem) di un certo ecologismo, sia la “completa tecnicizzazione” (ibidem) dell’ambiente che lo considera “solo materia di cui disporre a nostro piacimento” (ibidem), mentre si tratta di un’“[…] opera mirabile del Creatore, recante in sé una “grammatica” che indica finalità e criteri per un utilizzo sapiente, non strumentale e arbitrario” (ibidem).
La natura, in ogni caso, è per l’uomo e a chi parla di ecologia va ricordato che vi è anche, e anzitutto, una “ecologia dell’uomo” (n. 51). “Quando l’”ecologia umana” è rispettata dentro la società, anche l’ecologia ambientale ne trae beneficio” (ibidem). L’ambiente ha la sua importanza, “[…] ma il problema decisivo è la complessiva tenuta morale della società. Se non si rispetta il diritto alla vita e alla morte naturale, se si rende artificiale il concepimento, la gestazione e la nascita dell’uomo, se si sacrificano embrioni umani alla ricerca, la coscienza comune finisce per perdere il concetto di ecologia umana e, con esso, quello di ecologia ambientale. È una contraddizione chiedere alle nuove generazioni il rispetto dell’ambiente naturale, quando l’educazione e le leggi non le aiutano a rispettare se stesse. Il libro della natura è uno e indivisibile, sul versante dell’ambiente come sul versante della vita, della sessualità, del matrimonio, della famiglia, delle relazioni sociali, in una parola dello sviluppo umano integrale. I doveri che abbiamo verso l’ambiente si collegano con i doveri che abbiamo verso la persona considerata in se stessa e in relazione con gli altri. Non si possono esigere gli uni e conculcare gli altri. Questa è una grave antinomia della mentalità e della prassi odierna, che avvilisce la persona, sconvolge l’ambiente e danneggia la società” (ibidem).
i. Senza Dio, l’uomo è solo; senza Dio, il vero sviluppo è impossibile
Una “ecologia dell’uomo” dovrebbe intervenire anche sul più grave problema che egli oggi sperimenta: “la solitudine” (n. 53). Il problema delle relazioni dell’uomo contemporaneo, che soffre di solitudine anche quando è in mezzo alle più chiassose compagnie, non può essere affrontato “[…] dalle sole scienze sociali, in quanto richiede l’apporto di saperi come la metafisica e la teologia” (ibidem). L’uomo, infatti, è solo se ha perso anzitutto la capacità di percepire la compagnia di Dio.
Paradossalmente, può darsi che l’abbia persa anche quando si affida ad “[…] alcune culture a sfondo religioso, che non impegnano l’uomo alla comunione, ma lo isolano nella ricerca del benessere individuale, limitandosi a gratificarne le attese psicologiche. Anche una certa proliferazione di percorsi religiosi di piccoli gruppi o addirittura di singole persone, e il sincretismo religioso possono essere fattori di dispersione e di disimpegno. Un possibile effetto negativo del processo di globalizzazione è la tendenza a favorire tale sincretismo, alimentando forme di “religione” che estraniano le persone le une dalle altre anziché farle incontrare e le allontanano dalla realtà. Contemporaneamente, permangono talora retaggi culturali e religiosi che ingessano la società in caste sociali statiche, in credenze magiche irrispettose della dignità della persona, in atteggiamenti di soggezione a forze occulte” (n. 55).
Si tratta non solo di una denuncia di forme di religione che non costruiscono vere relazioni con Dio e con gli altri, ma di una forte critica del relativismo secondo cui non esisterebbe un “discernimento” (ibidem) che permetta di affermare che una religione è più vera di un’altra. “La libertà religiosa non significa indifferentismo religioso e non comporta che tutte le religioni siano uguali” (ibidem).
Né può essere accettata la prospettiva relativista per cui religione e ateismo hanno lo stesso valore, e potrebbero ugualmente fondare lo sviluppo integrale. Altra è la disponibilità della Chiesa a collaborare anche con i non credenti per la difesa di valori e diritti naturali, altro è il giudizio e il discernimento. Quest’ultimo non può omettere di denunciare la “[…] propensione a considerare i problemi e i moti legati alla vita interiore soltanto da un punto di vista psicologico, fino al riduzionismo neurologico. L’interiorità dell’uomo viene così svuotata e la consapevolezza della consistenza ontologica dell’anima umana, con le profondità che i Santi hanno saputo scandagliare, progressivamente si perde” (n. 76). “La chiusura ideologica a Dio e l’ateismo dell’indifferenza, che dimenticano il Creatore e rischiano di dimenticare anche i valori umani, si presentano oggi tra i maggiori ostacoli allo sviluppo. L’umanesimo che esclude Dio è un umanesimo disumano“ (n. 78).
La spiritualità, quando è tollerata, lo è oggi perché è ridotta a un puro stato psicologico: “[…] il nostro io viene spesso ridotto alla psiche e la salute dell’anima è confusa con il benessere emotivo. Queste riduzioni hanno alla loro base una profonda incomprensione della vita spirituale e portano a disconoscere che lo sviluppo dell’uomo e dei popoli, invece, dipende anche dalla soluzione di problemi di carattere spirituale” (n. 76). Se si esclude la dimensione spirituale, non si uscirà dalla crisi e non si opererà veramente per lo sviluppo integrale. “Lontano da Dio, l’uomo è inquieto e malato. L’alienazione sociale e psicologica e le tante nevrosi che caratterizzano le società opulente rimandano anche a cause di ordine spirituale. Una società del benessere, materialmente sviluppata, ma opprimente per l’anima, non è di per sé orientata all’autentico sviluppo. Le nuove forme di schiavitù della droga e la disperazione in cui cadono tante persone trovano una spiegazione non solo sociologica e psicologica, ma essenzialmente spirituale. Il vuoto in cui l’anima si sente abbandonata, pur in presenza di tante terapie per il corpo e per la psiche, produce sofferenza” (ibidem).
No: le ideologie, la tecnocrazie, le terapie, le nuove religioni e magie che fungono da oggetto di consumo non sono la soluzione. “Senza Dio l’uomo non sa dove andare e non riesce nemmeno a comprendere chi egli sia” (n. 78). “Lo sviluppo ha bisogno di cristiani con le braccia alzate verso Dio nel gesto della preghiera, cristiani mossi dalla consapevolezza che l’amore pieno di verità, caritas in veritate, da cui procede l’autentico sviluppo, non è da noi prodotto ma ci viene donato” (n. 79). Al termine dell’Anno Paolino il Papa invita a volgere lo sguardo al grande cantore della carità nella verità, San Paolo, e alla Vergine Maria, “Speculum iustitiae e Regina pacis“ (ibidem). È guardando verso l’alto, verso il Cielo e verso Dio, che sapremo guardare anche avanti: verso uno sviluppo davvero integrale, “[…] un “oltre” che la tecnica non può dare […] che ha il suo centro orientatore nella forza propulsiva della carità nella verità” (n. 77).
Note
(1) Benedetto XVI, Enciclica “Caritas in veritate” sullo sviluppo umano integrale nella carità e nella verità, del 29-6-2009. I rimandi al documento sono fra parentesi nel testo, indicati con il numero di paragrafo. I corsivi nelle citazioni dell’enciclica sono del Papa.
(2) Cfr. Paolo VI, Enciclica “Populorum Progressio” sullo sviluppo dei popoli, del 26-3-1967.
(3) Cfr. ibid., n. 5, Prima parte e n. 43.
(4) Cfr. Giovanni Paolo II, Enciclica “Sollicitudo rei socialis” nel ventesimo anniversario della “Populorum progressio”, del 30-12-1987
(5) Cfr. Paolo VI, Lettera Apostolica “Octogesima adveniens” nell’80° anniversario della enciclica “Rerum novarum”, del 14-5-1971, in Insegnamenti di Paolo VI, vol. IX, 1971, Tipografia Poliglotta Vaticana, Città del Vaticano 1972, pp. 1169-1202.
(6) Cfr. Idem, Enciclica Humanae vitae sulla retta regolazione della natalità, del 25-7-1968.
(7) Cfr. Idem, Esortazione apostolica “Evangelii nuntiandi” circa l’evangelizzazione nel mondo contemporaneo, dell’8-12-1975, in Insegnamenti di Paolo VI, vol. XIII, 1975, Tipografia Poliglotta Vaticana, Città del Vaticano 1976, pp. 1380-1438, trad, it., ibid., pp. 1439-1490.
(8) Cfr. Benedetto XVI, Enciclica “Spe salvi” sulla speranza cristiana, del 30-11-2007.
(9) Cfr. Giovanni Paolo II, Enciclica “Centesimus annus” nel centenario della Rerum novarum, del 1°-5-1991.