Carlo Emanuele Manfredi, Cristianità n. 8 (1974)
Nella prima parte di questo studio sono state illustrate le vicende politiche del ducato di Parma e Piacenza alla fine del secolo XVIII e nei primi anni del secolo successivo.
L’invasione francese aveva lasciato formalmente inalterato l’assetto istituzionale del ducato, dove la machiavellica politica del Direttorio e poi dei Bonaparte conservava la dinastia borbonica come pegno di amicizia con la Spagna, in quegli anni alleata della Repubblica Francese (1).
Anche dopo la morte del duca Ferdinando, avvenuta nell’ottobre del 1802, il ducato, che era stato affidato al residente francese Moreau de Saint-Méry, col titolo di Amministratore Generale, mantenne una sua autonomia politica, cosicchè all’interno la popolazione non avvertì il passaggio dal governo ducale a quello francese.
La situazione venne a mutare, come abbiamo già ricordato, nell’estate del 1805, in seguito all’emanazione, da parte di Napoleone, di alcuni decreti che promulgarono nel ducato le più importanti leggi francesi e vi introdussero la coscrizione obbligatoria.
La reazione delle popolazioni al nuovo ordine rivoluzionario, che non si era manifestata all’epoca dell’invasione francese del 1796, si verificò a causa di questi provvedimenti, dimostrando così che le rivolte anti-francesi, di cui la nostra è forse l’ultimo esempio nell’Italia settentrionale, non furono determinate né dalla crisi economica, che negli anni precedenti si era già fatta sentire in seguito alle requisizioni forzose imposte dal Bonaparte, né da una cieca xenofobia, poiché i francesi, già da anni, erano veri padroni del ducato, ne da rivendicazioni sociali contro borghesi e proprietari, che dai nostri insorti non furono toccati, né infine dall’istigazione di nobili, che anzi nel nostro caso si adoperarono attivamente per sedarla.
La rivolta fu invece la spontanea reazione armata di una popolazione cattolica, offesa nei propri sentimenti religiosi da leggi empie e conculcata nelle proprie libertà concrete da vessazioni e requisizioni inique; essa si manifestò, non a caso, proprio in quell’ambiente che aveva conservato intatto il patrimonio delle virtù cristiane che fece la grandezza e la forza dell’età medioevale: nelle vallate appenniniche.
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Fra tutti gli abitanti dello stato le popolazioni della montagna costituivano un gruppo omogeneo, con caratteri sociali peculiari e con un patrimonio di consuetudini assai radicato e gelosamente custodito.
I numerosi villaggi appenninici erano abitati da famiglie patriarcali che si trasmettevano, di generazione in generazione, la proprietà di piccoli appezzamenti di terra che venivano laboriosamente coltivati; accanto a questa piccola proprietà privata, gelosamente conservata e trasmessa, vi erano, soprattutto in alta montagna, le proprietà comuni o comunaglie, in genere pascoli o boschi, delle quali tutti i membri di un comune avevano diritto di servirsi.
Accanto ai contadini vi erano poi, nei villaggi, gli artigiani e parecchi mulattieri che trasportavano, dal genovesato, numerose mercanzie.
La vita di tali popolazioni era scandita dal ritmo delle stagioni e dell’anno liturgico, la fede aveva profondamente penetrato la mentalità, gli usi, le abitudini dei montanari. Possiamo dire che le virtù naturali e teologali erano appannaggio ordinario di questa società rurale, impermeabile alle suggestioni illuministiche e giansenistiche. Nelle nostre vallate la civiltà cristiana era quindi ancora vigorosa.
In tale ambiente possiamo immaginare quale sia stato il contraccolpo psicologico provocato dall’invasione francese e dalle novità rivoluzionarie.
I valligiani non erano abituati a sottigliezze e a sofismi e non sembra lontano dal vero ritenere che, da parte loro, non si comprendesse come fosse possibile adattarsi alle novità rivoluzionarie, contrarie alla religione, alle leggi antiche e ai costumi. Sinché tuttavia i mutamenti politici non incisero nella loro vita quotidiana, le popolazioni montane rimasero tranquille, prevalendo in loro le virtù della pazienza e della speranza. Ma le leggi napoleoniche, promulgate nell’estate del 1805, imponevano inasprimenti fiscali, requisizioni di muli, che rappresentavano l’unica fonte di sussistenza per varie famiglie, introducevano il matrimonio civile, sopprimevano numerosi conventi e, provvedimento inusitato per la mentalità del tempo, prescrivevano la coscrizione obbligatoria; esse provocarono, allorchè vennero applicate, una spontanea, repentina e contemporanea insurrezione.
La prima scintilla si ebbe il 6 dicembre 1805, a Castel S. Giovanni, ove erano stati riuniti numerosi abitanti delle campagne e delle vallate, giovani e padri di famiglia indistintamente, per essere arruolati tra le truppe del principe Eugenio, viceré d’Italia, che aveva imposto a Piacenza e Parma di fornire un contingente di 12.000 uomini.
A tale proposito giova ricordare che la coscrizione obbligatoria era sconosciuta al nostro come agli altri Stati prerivoluzionari; il servizio militare era considerato una professione e, come tale, era volontario; esso richiedeva cioè una particolare vocazione. Nel ducato, poi, l’esercito non era mai stato numeroso e il pacifico duca Ferdinando non l’aveva certo incrementato.
La coscrizione obbligatoria rappresentava quindi, per le nostre popolazioni, un intollerabile sopruso, un’aperta violazione della loro concreta libertà, un insopportabile onere personale, contrastante con le antiche consuetudini.
A Castel S. Giovanni i coscritti dichiararono di non volersi sottomettere; un agente di polizia fu ferito nel tumulto, un generale francese, giunto sul posto dopo la notizia dei disordini, rimandò a casa propria le reclute.
Il successo di questo ammutinamento fece divampare l’insurrezione.
La vallata dell’Arda fu la prima a prendere le armi contro i francesi e da qui la ribellione si propagò nelle altre valli; di paese in paese, di parrocchia in parrocchia, in pochi giorni i tumulti si estesero a tutte le montagne del piacentino (2).
Gli insorgenti di tutte le valli, come se rispondessero a un piano prestabilito per chiamarsi vicendevolmente a raccolta e per suscitare agitazione nei villaggi, adottarono il sistema di sonare a martello le campane delle chiese.
Notiamo l’analogia con l’insurrezione in Vandea, di dodici anni prima; anche là gli abitanti, esasperati dalla condanna a morte del re e dalle leggi empie della Convenzione, si sollevarono allorché venne decretata, nel marzo del l793, una leva in massa, e il suono delle campane a martello divenne il segnale dell’insurrezione.
In pochi giorni la val Taro, la val Stirone, la val Nure, la val Trebbia, la val Tidone, oltre alla val d’Arda, si sollevarono contro il governo napoleonico.
Gli insorti si organizzarono in vari gruppi e reparti, distinti per valli, nominarono capi tratti dalle loro file, si procurarono armi di ogni genere e qualità: vecchi schioppi, pistole, sciabole e, in mancanza di questi, falci e tridenti.
Così armati, dai loro appostamenti situati sui punti più elevati delle colline e delle montagne, scendevano di tratto in tratto nei più grossi paesi delle vallate, occupandoli militarmente, allontanandovi i giacobini e i “napoleonisti”, i commissari imperiali e gli impiegati del governo, che si rifugiavano a Piacenza; essi imponevano anche requisizioni, in natura e in denaro, per il loro mantenimento e arruolavano nuove persone.
Le borgate più importanti delle nostre valli: Salsomaggiore, Bardi, Pellegrino, Castell’Arquato, Lugagnano, Rivergaro, Ponte dell’Olio, Pianello e la stessa città di Bobbio, vennero alternativamente, e per un numero limitato di giorni, occupate.
Dagli atti dei giudici processanti, Berri e Raineri, che raccolsero le dichiarazioni e le denunzie dei deputati e dei consoli – sorta di podestà – dei vari comuni del piacentino apprendiamo che gli insorgenti presentandosi in tutti i paesi, dopo aver sonato le campane a martello, arruolavano nuove truppe e requisivano muli, cavalli e anche armi, se ve ne erano; inoltre esigevano la consegna di razioni di pane, formaggio e vino (3).
Prima di passare a esaminare gli avvenimenti successivi, è opportuno fare alcune considerazioni sul carattere dell’insurrezione.
La rapidità con cui essa si propagò nelle montagne piacentine potrebbe far ritenere che vi fosse stata una previa intesa fra i capi dei valligiani, o, comunque, che essa fosse stata preparata da agenti austriaci e quest’ultima ipotesi venne infatti accreditata dalle autorità francesi. In realtà nessun preventivo accordo fece insorgere i montanari e nessuna suggestione straniera li provocò alla ribellione. L’Austria infatti, dopo la battaglia di Austerlitz e la pace di Presburgo del 26-12-1805, era stata completamente estromessa dall’Italia. La rivolta contro-rivoluzionaria fu del tutto spontanea e naturale. Anche altrove in Italia, come prima in Vandea e successivamente in Spagna, le leggi rivoluzionarie, applicate a viva forza in un ambiente sociale ancora profondamente permeato da principi cristiani, avevano provocato, o provocheranno, un’identica reazione.
È l’anima cristiana del popolo che si ribella spontaneamente di fronte all’empietà.
Queste popolazioni reagivano quasi istintivamente, senza curarsi di conoscere la forza e il numero di coloro che volevano loro imporre la rivoluzione; esse rifiutavano categoricamente ogni compromesso e ogni accomodamento e, se necessario, erano capaci di impugnare le armi, pochi vecchi archibugi magari (4), contro i moderni fucili dei veterani delle armate repubblicane, dimostrando con ciò che la refrattarietà alla coscrizione non era imputabile a viltà, ma solo all’aborrimento dei principi rivoluzionari.
La spontaneità dell’insurrezione è provata anche dalla mancanza di collegamenti fra le varie “armate” contro-rivoluzionarie, che rimanevano ancorate alla loro valle e non operavano secondo un disegno strategico comune. Questa mancanza di collegamenti, unita all’assoluta assenza di capi che conoscessero le regole della guerra, spiega anche l’episodicità dell’insurrezione, i suoi scarsi successi militari e la facilità con cui venne repressa.
La completa mancanza di capi che non uscissero dalle file stesse degli insorgenti e non si fossero improvvisati comandanti, rappresenta l’elemento eterogeneo tra l’insurrezione contro-rivoluzionaria del piacentino e le sollevazioni avvenute in altre parti d’Italia e, soprattutto, in Vandea. Mentre infatti in quest’ultima regione i contadini, che spontaneamente insorgevano e si riunivano in gruppi numerosi trovavano tra i membri della nobiltà i loro capi militari, i montanari piacentini non trovarono nessun rappresentante della classe dirigente che li organizzasse e li guidasse contro i francesi. Due sono le cause, a nostro avviso, di tale assenza: anzitutto nel 1805 la rivoluzione stava attraversando una fase apparentemente involutiva, la restaurazione di un ordine legale, il concordato con la S. Sede, il ritorno della monarchia, sia pure con un imperatore borghese, erano tutti fatti che non potevano non far piacere ai ceti elevati. Giustamente Corrêa de Oliveira definisce tali periodi storici “gli apparenti intervalli della Rivoluzione” (5), essi sono utilissimi alla Rivoluzione per assestarsi e attrarre sul nuovo ordine, da poco instaurato, le simpatie degli amanti della stabilità e dell’ordine.
In secondo luogo la nobiltà non risiedeva nelle montagne; essa anzi, sin da epoca farnesiana, era stata attirata a corte e solo saltuariamente abitava i castelli e le ville della campagna. Inoltre le popolazioni montane erano, in buona parte, svincolate da legami di natura feudale e di dipendenza economica con le famiglie nobili; la maggior parte dei valligiani erano infatti piccoli proprietari o artigiani.
Non troviamo quindi nessun rappresentante dei ceti elevati alla testa dei piccoli eserciti contro-rivoluzionari, i cui capi hanno la stessa estrazione sociale della truppa e, ovviamente, ne condividono l’incompetenza militare.
Diverso fu l’atteggiamento dei parroci dei villaggi, molti dei quali appoggiarono apertamente l’insurrezione, pagando poi con la vita o con la prigione la loro fedeltà all’ordine cristiano, mentre invece l’alto clero sottolineò la propria estraneità all’insurrezione. Il contegno del vescovo di Piacenza, mons. Cerati, fu alquanto diplomatico; egli infatti fece due pastorali, dirette ai parroci di montagna, nelle quali, riferendosi all’insurrezione parlava di “movimenti sediziosi“, annunciava ai perturbatori “il colmo dei divini castighi e la giusta indignazione del Supremo Governo”; chiedeva ai parroci di far comprendere ai loro fedeli “che non si può offendere più gravemente il Signore di così e che tutti i sediziosi sono responsabili a Dio ed all’umana giustizia dei mali che derivano dalla perniciosa loro condotta ed esempio, e che non sfuggiranno in alcuna maniera il meritato castigo” e ricordava infine che, “come insegna l’Apostolo, chi resiste alla Potestà resiste a Dio medesimo“. (6). La condotta degli umili parroci di montagna fu invece molto più schietta; essi conoscevano le angosce e i desideri dei loro parrocchiani, se ne rendevano interpreti e li appoggiavano anche con la loro azione.
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L’insurrezione antifrancese, scoppiata il 6 dicembre 1805 ed estesasi rapidamente a tutto il territorio montano piacentino, si frazionò fatalmente, in mancanza di un piano strategico, in una serie di effimere occupazioni militari delle grosse borgate montane e pedemontane.
Inutile ci sembra seguire la cronaca di queste occupazioni, poiché esse sono tutte simili tra loro; gioverà invece cogliere in tutti questi episodi alcuni elementi significativi che ci permettono di comprendere gli scopi che si prefiggevano gli insorgenti, e di individuare le loro aspirazioni politiche che, anche se irrealizzabili, dimostrano il loro attaccamento al vecchio ordine di cose e i radicati costumi cristiani.
Durante l’occupazione di Bobbio, ad esempio, sappiamo, grazie a una cronaca stesa da un testimone diretto, di parte governativa per altro, che le truppe contro-rivoluzionarie, guidate da un certo Covatti mulattiere, che verrà poi fucilato dai francesi, entrarono nella città spiegando una bandiera spagnola: la dinastia dei Borbone Parma era infatti di origine iberica; la coccarda che gli insorgenti portavano era invece quella dell’Impero, di color verde, che il comandante Covatti ordinò che si dovesse portare anche da tutti i cittadini bobbiesi (7). Durante l’ingresso in Bobbio le truppe inneggiavano alla Spagna ed all’imperatore e il giorno successivo all’occupazione gli insorgenti fecero cantare messe solenni e Te Deum nella cattedrale. Tra le richieste avanzate al Consiglio Comunale bobbiese vi era l’allontanamento degli impiegati al servizio del nuovo governo, la dedizione all’Austria, la cacciata dei francesi e la restituzione ai monasteri, spogliati dalle leggi napoleoniche, dei loro legittimi beni con la correlativa ricostituzione delle comunità monastiche disciolte. In una relazione, stesa da un notaio di Pianello, che riporta le petizioni avanzate dagli insorti della val Tidone, leggiamo che i valligiani, oltre a chiedere un’attenuazione degli inasprimenti fiscali e l’eliminazione delle forme vessatorie esercitate contro di loro dagli agenti governativi, che imponevano con la violenza la applicazione delle leggi fiscali e doganali, domandano esplicitamente “che siano rimesse tutte le comunità religiose nella pienezza dei loro diritti, che i matrimoni siano celebrati unicamente secondo il rito di Santa Chiesa; che sia rimessa nel suo pieno vigore l’immunità ecclesiastica sia personale che reale” (8).
Nella Storia di Piacenza scritta nel secolo scorso dal Giarelli, lo storico riporta i ricordi di alcuni “nonagenarii” di Lugagnano i quali rammentavano “che gli insorti, la domenica, scendevano dal monte Giogo e dal monte Moria, ove avevano i loro accampamenti, in paese; vi deponevano in fascio tromboni e moschetti, e lasciativi a custodia alcuni fra essi, entravano in chiesa: vi udivano messa, e più tardi riprendevano per alpestri passi la via ai loro eccelsi rifugi“. (9).
Anche da queste poche testimonianze dirette e dalle scarse relazioni che conosciamo, tutte stese da impiegati del governo. francese, quindi indubbiamente faziose e parziali nei confronti dei piccoli eserciti contro-rivoluzionari, risulta chiaramente che l’insurrezione fu la spontanea reazione armata di una popolazione offesa nei propri sentimenti religiosi ed esasperata per le violenze legali subite.
L’Amministratore Generale Moreau non si aspettava certo un così rapido dilagare della rivolta e dopo le prime scaramucce aveva sperato che la calma sarebbe ritornata da se medesima, per via della persuasione. Egli informò con un certo ritardo il vicerè d’Italia principe Eugenio e l’arci-tesoriere Lebrun, governatore della Liguria, dell’insurrezione. Entrambi i funzionari imperiali si affrettarono a inviare forti contingenti di truppe, che giunsero tra noi nei primi giorni di gennaio; il principe Eugenio emanava anche un proclama in cui chiedeva agli insorti di deporre immediatamente le armi avvertendoli che “i soldati francesi, generosi con i nemici, non fanno mai grazia ai ribelli” (10).
Ancor prima che le milizie francesi iniziassero le operazioni militari dirette alla repressione dell’insurrezione ed alla riconquista dei territori occupati, a Piacenza ed a Parma i più ragguardevoli cittadini, i rappresentanti delle comunità e l’alto clero, avevano prudentemente preso opportune misure per non venire considerati corresponsabili della ribellione e per non venire coinvolti nella violenta e sanguinosa repressione che sicuramente vi sarebbe stata.
Abbiamo già citato le due pastorali inviate, ai parroci di montagna, dal vescovo di Piacenza, che, viste inutili le pastorali, spedì sulle montagne una commissione di ecclesiastici con il compito di persuadere gli insorgenti a disperdersi ed a fare ritorno ai propri focolari. Analoga commissione pacificatrice venne inviata dalla Comunità di Piacenza. Essa era composta da tre nobili, il conte Leone Leoni, il marchese Antonino Casati e il conte Giambattista Anguissola; ognuno di essi si recò in una valle ove fece opera di persuasione per sedare il tumulto.
Quest’abile politica della classe dirigente piacentina diede prontamente i suoi frutti; sull’animo semplice dei montanari la parola di un inviato del Vescovo e di un esponente della nobiltà faceva certo più presa che non le minacce di rappresaglie indiscriminate dell’autorità francese. Questa politica, apparentemente avveduta e accorta, ma in realtà suicida, darà a distanza di tempo i suoi amari frutti. Il volgersi dell’animo dei contadini, da noi come altrove, verso le lusinghe ingannatrici della rivoluzione ha, fra le proprie cause, la delusione di non essere stati compresi e sostenuti da coloro che erano i loro capi naturali.
Ma accanto all’azione di disarmo psicologico, svolto fra le file degli insorgenti, le autorità locali e i ceti elevati svilupparono un’attività diplomatica nei confronti dei francesi, protestando la propria estraneità alla sommossa e la propria devozione all’imperatore.
Due deputazioni, una da parte della comunità di Parma e l’altra da Piacenza, vennero inviate al vicerè Eugenio, subito dopo l’emanazione del già citato proclama, per assicurarlo della lealtà delle due città al governo francese. Inoltre 44 cittadini nobili piacentini spedirono una lettera a Napoleone stesso, per ragguagliarlo sulle cause della rivolta, che venivano giustamente individuate nelle requisizioni, senza indennità, di animali da soma, nelle violenze commesse dai préposés francesi, incaricati di far applicare le leggi doganali, e nella coscrizione, e assicurarono che si faceva ogni sforzo per indurre gli abitanti delle montagne a deporre le armi e a far ritorno alle loro case.
L’insurrezione contro-rivoluzionaria era ormai sedata, sia per la promessa dell’abolizione della coscrizione e delle altre leggi rivoluzionarie, sia per l’intervento dell’esercito, sia per l’opera di convincimento personale esercitato dalle commissioni laiche ed ecclesiastiche, allorché il 25 gennaio giunse a Parma, con ordini severissimi di Napoleone, il generale Junot. All’imperatore dei francesi pareva infatti che la rivolta, che aveva avuto un notevole risalto nella stampa italiana, dovesse essere repressa in maniera esemplare e che non si dovesse venire a nessun accomodamento con i ribelli.
Con il generale, arrivarono nel Ducato nuove truppe ed anche alcuni magistrati per il funzionamento delle Corti criminali che dovevano giudicare i ribelli.
Lo Junot, giunto in Parma, trovò festose accoglienze da parte della Comunità e delle più ragguardevoli famiglie. L’Anzianato diede, il 30 gennaio 1806, un grande pranzo in suo onore nel Palazzo Sanvitale e alla sera si organizzò uno spettacolo, con ingresso gratuito, nel teatro. Né meno calorose furono le accoglienze dei piacentini. Il suo arrivo fra noi fu contrassegnato da pubbliche feste nel teatro e nel palazzo dei marchesi Anguissola. Tali manifestazioni mondane predisposero favorevolmente l’animo di Junot nei confronti delle due città; egli poté anche constatare che l’insurrezione era ormai sedata e che quindi non erano più necessarie operazioni militari.
Senonchè, avendo informato Napoleone di tale situazione, ricevette in risposta una lettera in cui gli si ordinava la più severa repressione “faites brûler cinq ou six villages; faites fusiller une soixantaine de personnes, faites des exemples extrèmement sévères … ” (11). E in un’altra lettera di pochi giorni dopo lo incitava alle più crudeli repressioni ordinandogli “épargnez personne... Tous les abus, les excés de tyrannie même de mes agents sont excusés à mes jeux le jour où les rebelles comme ceux de Parme courent aux armes et se font justice eux mêmes” (12).
Sempre nella stessa lettera Napoleone ordinava a Junot di bruciare il villaggio di Mezzano Scotti, che era insorto fra i primi, di fucilare un parroco di montagna che si trovava nelle carceri del vescovo e di inviare alle galere tre o quattrocento dei colpevoli. Tali ordini, che non ammettevano discussioni, vennero puntualmente eseguiti.
Furono istituite due commissioni militari, una a Parma e l’altra a Piacenza, con il compito di giudicare gli insorti che erano caduti prigionieri delle truppe francesi. Tali tribunali speciali iniziarono a funzionare nel febbraio del 1806, emettendo una serie di condanne a morte mediante fucilazione. Nello stesso mese Junot emetteva il seguente decreto “Il villaggio di Mezzano nella Valle di Trebbia, il primo che ha preso le armi per incominciare l’insurrezione già scoppiata nelle montagne del Piacentino ed estinta, sarà abbruciato per servire d’esempio ai popoli di quei d’intorni” (13).
Questo ordine venne eseguito da un corpo di truppe francesi.
Tale sorte sarebbe toccata anche a Lugagnano, in Val d’Arda, se la Missione ecclesiastica non fosse riuscita a far arrendere gli insorti, che avevano stabilito la loro sede su di una montagna vicina. Il governo imperiale, che aveva promesso perdono a chi si arrendeva, dopo che si furono sciolte le bande, non mantenne gli impegni presi ed imprigionò e fucilò i montanari catturati.
Le commissioni militari emisero 44 condanne, di cui 21 a morte, fra i fucilati vi furono due sacerdoti. Altre condanne furono a pene detentive varie; 4 persone morirono in prigione prima del giudizio.
Costoro non furono però le sole vittime della repressione, ma sono i soli di cui ci siano stati tramandati i nomi (“); gli insorgenti caduti in combattimento furono indubbiamente molto più numerosi, ma di loro nessuna memoria è restata e nessuna lapide li ricorda.
Su questi morti è scesa una pesante coltre di oblio. Il loro sacrificio non fu compreso, anzi venne frainteso, tanto dai contemporanei, che avevano tutto l’interesse a dimenticarlo poiché sarebbe sonato a loro rimprovero, quanto dai posteri, distratti a ricercare altri martiri per altre false fedi.
A distanza di centosettanta anni possiamo oggi rievocare questa disperata insurrezione collocandola accanto ai più noti episodi della Contro-Rivoluzione italiana.
CARLO EMANUELE MANFREDI
Note:
(1) La regina di Spagna Maria Luisa era sorella del duca di Parma, inoltre il principe ereditario di Parma aveva sposato una figlia del re di Spagna.
(2) Cfr. PIETRO CAVAGNARI, Alcune particolarità storiche della vita di Pietro Cavagnari, Carmignani Parma 1837, p. 87
(3) Cfr. V. PALTRINIERI, I moti contro Napoleone negli stati di Parma e Piacenza (1805-1806), Zanichelli, Bologna 1927 p. 57.
(4) L’ufficiale francese Vivian, che aveva avuto parecchi scontri a fuoco con gli insorti, in una sua lettera del 14 gennaio 1806, diretta all’Amministratore Generale Moreau, scrive che i fucili degli insorgenti erano “mouvaises patraques, que depuis un siècle au moin n’avoient pas nui à la population”. Cfr. V. PALTRINIERI, op. cit., p. 78.
(5) PLINIO CORRÊA DE OLIVEIRA, Rivoluzione e Contro-Rivoluzione, trad. it. Cristianità, Piacenza, 1972, p. 78.
(6) Citato in EMILIO OTTOLENGHI, Storia di Piacenza, Porta, Piacenza 1947, vol. III, p 143-144.
(7) Cfr. VINCENZO PANCOTTI, Un episodio della rivolta piacentina contro il governo francese, in Ars Nova, Piacenza, ottobre 1924.
(8) Citato in LUIGI GINETTI, Sull’insurrezione dell’alto Piacentino nel 1805-1806, in Aurea Parma, Parma settembre-dicembre 1913.
(9) FRANCESCO GIARELLI, Storia di Piacenza dalle origini ai nostri giorni, Vincenzo Porta, Piacenza, 1889, vol. 2°, p. 167.
(10) V. PALTRINIERI., op. cit., Zanichelli, Bologna 1927, p. 72.
(11) Il testo è pubblicato dal GIARELLI, op. cit., vol. 2°, pp. 170-171. La lettera è del 4 febbraio 1806.
(12) Il testo è pubblicato da LENY MONTAGNA, Il dominio francese in Parma (1796-1814), Favari, Piacenza 1906, p. 74. La lettera è del 7 febbraio 1806.
(13) Citato in V. PALTRINIERI, op. cit., p. 122.
(14) Cfr. V. PALTRINIERI, op. cit., p. 138 e EMILIO OTTOLENGHI, op. cit., vol. III, pp. 126-127.